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Caro Direttore, la manovra di cui si discute in questo agosto bollente costringe tutti a prendere posizione, quasi come se si fosse in campagna elettorale. Con una differenza però: che qui non si parla in astratto di simboli, di programmi e di nomi da votare, ma di pesi da suddividere e di personaggi da sostenere o meno, in un momento la cui drammaticità non tutti avvertono nello stesso modo.

Qualcuno si rassegna ad alzare le mani di fronte alla ricetta somministrataci da medici di rango europeo, per evitare il peggio, senza discuterne la composizione; altri, per fare prevalere la propria tesi, rischia di venire alle mani con i propri colleghi, come ha detto un ministro della Repubblica, parlando ad un’assemblea plaudente, interessata a difendere i propri interessi. Veti, tabù, “benaltrismo” rendono difficile comporre il puzzle.

Quando gli animi si scaldano o si raffreddano eccessivamente, riesce difficile avere una visione sufficientemente ampia per poter inquadrare i diversi interessi, in modo da assumere decisioni capaci di comporli con soluzioni ragionevoli. Eppure proprio il disagio, frutto della confusione dovuta alla mancanza di criteri per “sortirne insieme”, potrebbe consentire qualche passo avanti nella comprensione dei sistemi di cui facciamo parte.

A cominciare da alcuni politici, che si sono svegliati di soprassalto nella notte dell’emergenza. Abbiamo sentito per la prima volta il ministro dell’economia evocare in Parlamento l’immagine del Titanic, nel quale si continuava a ballare anche nell’imminenza del naufragio. Dopo anni passati a tranquillizzare i passeggeri circa la solidità della nave, si riconosce ora che il debito pubblico potrebbe essere l’iceberg contro cui si va a sbattere. Gli Stati Uniti sono arrivati sull’orlo del baratro e ne sono usciti in maniera abbastanza mediocre, in sostanza rinviando il problema, per ragioni elettorali. Si è pensato più a cambiare capitano che a capire le difficoltà della navigazione e a preparare i passeggeri a tener conto delle compatibilità del sistema.

Lei ha notato ieri, con amarezza non rassegnata, che finora, nonostante promesse e sorrisi, la voce famiglia non è considerata come voce strategica centrale nello sviluppo della società e della cultura del Paese. Vorrei aggiungere alla Sua meritoria battaglia (ho dieci nipoti e un pronipote) anche quella che una piccola ma non rassegnata associazione svolge da quasi vent’anni per la riduzione di un debito pubblico, che frattanto è aumentato di più di due volte, generando nei mercati il fondato sospetto che lo Stato non riesca più a rimborsarlo. Non si tratta di un “altro discorso”, ma di due aspetti dello stesso discorso attento al futuro e al bene comune.

Lei ha di recente invitato i lettori a intervenire, sul tema “Debito pubblico e debito delle famiglie”, per commentare la lettera di Carlo Ravagnan, per il quale “la situazione della famiglia indebitata” è “di gran lunga peggiore” di quella dello stato indebitato, “tenendo conto delle caratteristiche, delle facoltà e delle risorse di cui dispone, o può disporre, uno Stato”. Ciò è parzialmente vero; vorrei notare però che così rischia di contrapporre due realtà (famiglie e Stato), come se fossero fra loro separate, mentre la vita, la prosperità, le virtù e i debiti delle famiglie sono interconnessi con quelli dello Stato, in maniera sistemica.

Molte famiglie sono ridotte sul lastrico per le condizioni complessive dell’economia, che dipendono in buona parte da sperpero del denaro pubblico, frutto di politiche economiche irresponsabili; ma dipendono anche dalla scarsità delle risorse disponibili per fare politiche di sviluppo e di equità sociale.

Questa scarsità è dovuta a sua volta ad altrettanto irresponsabile evasione fiscale, oltre che a corruzione e ruberie di vario genere. Se si spendono 75 miliardi di euro annui per “il servizio del debito”, anziché per servizi sociali e di sviluppo, questo si deve a politiche di bilancio sbagliate, ma anche a comportamenti di molte famiglie (non alludo certo alle più indebitate per disgrazie varie) che vedono il bene privato come estraneo al bene comune. Di fatto si tratta non di due sistemi separati, ma di un sistema complesso che fa pensare ai vasi comunicanti.

Le risorse dello Stato e delle pubbliche amministrazioni non sono infinite: i “debiti sovrani”, che rischiano di far fallire gli stati, sono in realtà garantiti da politiche lungimiranti, da farsi certo a livello europeo e mondiale, ma prima di tutto a livello personale, familiare, comunale, regionale, nazionale.

Ignorare i debiti pubblici delle pubbliche amministrazioni e degli stati, come se si potesse stampare moneta all’infinito, al riparo dall’inflazione, significherebbe oggi perdere l’occasione storica di decisioni che finora si sono irresponsabilmente rinviate. Qualcuno si accorge solo oggi degli articoli 53 e 81 della Costituzione. Se li avessero rispettati, dando anche, negli anni scorsi, l’allarme e una motivante mobilitazione delle coscienze, non saremmo giunti a questa emergenza o ci saremmo arrivati con maggior coscienza civile.

Secondo quei dati, posto che non si riesca a cambiarli in questo agosto infuocato, la manovra di 45 miliardi sarà pagata soprattutto dai percettori di redditi medio bassi, ai quali verranno ridotti i principali servizi pubblici. Non appaiono misure significative per il recupero dell'evasione, stimata annualmente in 120/160 miliardi, e per sostenere lo sviluppo dell’economia. Certi “diritti acquisiti” sono in realtà privilegi ingiustamente accordati. Bisogna saper tornare indietro, secondo le logiche della buona madre di famiglia (e anche del padre, dove c’è e dove è saggio).

Secondo Ferdinando Camon (Avvenire, 11 agosto) “Non c’è un ponte che metta in comunicazione” l’etica familistica e l’etica pubblica, quello che chiamerei il “cittadino praticante” e l’evasore abituale, che lui chiama “serial killer”. Conclude che bisogna “catturarlo”. I mezzi tecnici non mancano e chi rappresenta qualche pubblica autorità deve usarli. Senza dimenticare, a partire dalla famiglia dimenticata, che la leva dell’educazione è debole, ma più importante e più lungimirante della leva repressiva. Se ne parlerà fra dieci anni, al termine del decennio che la CEI ha dedicato all’educazione.

Luciano Corradini presidente onorario dell’ARDeP (www.ardep.it)

Risposta del Direttore Marco Tarquinio

“Giustamente, caro professor Corradini, di tutto questo parliamo adesso. Per l’ora che sotto il cielo della crisi batte più dura (eppure anche promettente, come ogni ora di consapevolezze ritrovate). E per una scelta strategica, che guarda dentro e oltre le crisi economico-finanziarie che si susseguono e si aggravano, riconoscendone le radici culturali, antropologiche. Tra dieci anni, in fondo al “decennio educativo” tireremo certamente le somme di questo impegno, oggi ci sono da impostare (per quanto ci riguarda alla luce preziosa della fede cristiana), tutte quelle operazioni di ricupero di valori e di equilibrio, di giustizia e di probità, che troppo a lungo sono state rinviate, svalutate e addirittura demonizzate. Grazie, gentile e illustre amico, per il suo contributo di riflessione e di esempio”. 

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