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Il "sistema in cui viviamo"

Le trasformazioni in atto della società e del lavoro, accelerate dalla crisi che attraversiamo, rendono sempre più acuti i conflitti generazionali e i problemi riguardo alle decisioni delle destinazioni delle risorse. Queste fratture rimangono ancora latenti seppure sperimentate ogni giorno nelle scelte che si compiono nei vari ambienti e luoghi di vita.

L’attuale situazione di crisi economica e la grave incertezza nel futuro che ad essa si collega rendono più arduo il problema della transizione verso l’indipendenza sociale e psicologica adulta delle giovani generazioni italiane.

La conferenza generale dell'Organizzazione delle Nazioni Unite per l'Educazione, la Scienza e la Cultura già nel 1997 ha proclamato solennemente la Dichiarazione sulle responsabilità delle generazioni presenti verso le generazioni future.

Si legge all'articolo 10 su “Sviluppo e educazione”:

“Le generazioni presenti dovrebbero vegliare per assicurare le condizioni di uno sviluppo socio-economico equo, durevole e universale per le generazioni future, sia sul piano individuale che collettivo, in particolare tramite un utilizzo ragionevole e prudente delle risorse disponibili al fine di lottare contro la povertà.

J. M. Keynes, che in questo periodo di crisi viene spesso ricordato, affermava che il “sistema in cui viviamo”, lasciato a sé, non era in grado di assicurare la piena occupazione, né di evitare una “distribuzione iniqua ed arbitraria del reddito e della ricchezza”. Si tratta di un’affermazione che dice molto più di quanto comunemente si intenda Poiché, ieri come oggi, la piena occupazione e l’equa distribuzione della ricchezza si sono dimostrate due cose intimamente e reciprocamente collegate. La piena occupazione garantisce una distribuzione più equa e, insieme alla dignità della persona una condizione essenziale di democrazia; piena occupazione come la intendeva Beveridge, cioè quella in cui il capitale e i mezzi di produzione vanno alla ricerca degli uomini e non viceversa. Mentre la distribuzione più equa del reddito assicura maggiore occupazione per gli evidenti effetti sulla domanda. Per funzionare in modo accettabile nel mondo concreto, e non solo in modo ideale nel mondo delle idee astratte, il mercato richiede, infatti, non solo il superamento delle asimmetrie informative – su cui molto si è esercitata la teoria economica – ma anche quello delle disparità – per lo meno le maggiori - di potere e quindi di reddito e di ricchezza tra loro fortemente correlate. La vera riproduzione economica e sociale e la stessa ricchezza di un paese, come ben sapeva Adam Smith, dipende dal reddito riveniente dalla produzione di beni e servizi, sia di mercato che non di mercato. Rispetto alla quale l’accumulazione finanziaria assume un aspetto del tutto funzionale, che non può essere indebitamente ampliato fino a essere usato come unico segnale significativo della correttezza nelle strategie di gestione di un’azienda né, tanto meno, nelle scelte di governo di un paese.

Il rifiuto dello scambio tra efficienza ed equità e altre dicotomie

Con il diffondersi di una crescente consapevolezza delle interrelazioni reciproche che ci stringono in un medesimo destino globale, consapevolezza che è resa sempre più evidente a strati sempre più ampi di popolazione dalle condizioni inedite della nostra situazione storica attuale, le teorie - e gli interessi sottostanti – fondate sull’idea di una cosiddetta “centralità del mercato” e dell’impresa capitalistica e con un welfare da quelle dipendente, stanno dimostrando tutti i loro limiti. Non solo i sistemi economici che hanno preteso di separare l’efficienza dall’equità, il mercato dalla democrazia, la finanza dalla produzione hanno causato le numerose gravi crisi, compresa l’attuale. Ma soprattutto comincia a essere sempre più chiaro, anche ai non addetti ai lavori, che le presenti politiche neoliberiste ci portano a diventare più poveri ed anche più incivili, pretendendo l’abbattimento di diritti faticosamente conquistati, considerati un ostacolo al “libero mercato”.   Innalzando un’idea quasi idolatrica di “richiesta dei mercati” a livello di metro di giudizio indiscutibile delle proprie scelte economiche, questo tipo di politiche valuta le persone che compongono la forza lavoro principalmente in termini di costo, le mette in competizione tra loro al fine di acquisire la massima produttività al minimo costo. Configura un modello di lavoratore (preteso) ideale, sacrificando all’astratta perfezione della propria teoria lo spazio lavorativo che dovrebbe essere invece assicurato a tutte le diverse condizioni in cui si articolano le vite dei lavoratori concreti: spazio invece negato per chi è ancora inesperto in quanto giovane, per chi è donna e in quanto tale chiamata a rispondere anche di impegni familiari, per i diversamente abili, per i più anziani che, già dai 50 anni, in questo modello astratto di produttività ideale entrano in un pericoloso limbo, in cui sono considerati esperti ma meno performanti. In questa idea del mercato del lavoro i lavoratori sono dunque presenti solo come individui astratti, potenzialmente intercambiabili e in forte competizione reciproca, e non come persone che portano un loro specifico contributo a partire dalla loro concreta condizione di vita.

Produttività e cicli di vita

All’interno degli attuali processi di globalizzazione non solo è divenuta ormai sempre più chiara la pericolosità di questo modo astratto di teorizzare la politica economica a partire da un’idea quasi idolatrica del mercato e delle sue leggi pretese come inflessibili, ma si è anche imposta all’attenzione la necessità di porre in essere un sistema che fornisca una risposta efficace alla domanda di lavoro dignitoso espressa da tutte le diverse componenti della società. Tale consapevolezza, sempre più estesa socialmente, dell’urgenza di operare in modo da assicurare a tutti un lavoro dignitoso nasce in primo luogo dalla constatazione che il problema occupazionale non trova e non potrà trovare, nel pervicace permanere di un’impostazione delle politiche economiche che già si è rivelata chiaramente dannosa, intera e soddisfacente soluzione. Nasce inoltre dalla necessità di costruire in questi tempi di crisi una più forte coesione civile, che sarebbe invece gravemente contrastata da una dinamica lavorativa che si basi implicitamente sulla competizione tra garantiti e esclusi, competizione che viene fatta artificiosamente coincidere in larga misura con la competizione tra anziani e giovani.

Con una visione della massima produttività (e quindi di retribuzione) legata al ciclo biologico di vita e quindi limitata ad una fascia di età dai trenta ai cinquanta anni.

Agli anziani, si chiede di sacrificare parte delle tutele frutto del loro impegno lavorativo passato per favorire l’ingresso dei giovani. Ai giovani, si suggerisce che la loro precarietà sia largamente dovuta all’eccesso di tutela delle generazioni precedenti. Con un evidente confusione epistemologica si vuole procedere ad una sorta di inaccettabile compensazione dei diritti in analogia con quella economica.

Sono chiavi di lettura della complessità umana e sociale pericolose e fuorvianti e che non permettono un’adeguata analisi critica di alcune tendenze di fondo. Chiavi di lettura vecchie e inefficaci, che non solo hanno finora prodotto gravi danni ma che non possono né ora né tanto meno in futuro comprendere e contrastare la crescente “privatizzazione del mondo”, la riduzione dell’occupazione con un drastico peggioramento delle sue condizioni e diritti, la precarizzazione del lavoro con il fenomeno dei “working poors”, lo smantellamento del welfare universalistico.

Dinamiche produttive intersettoriali

L’impatto differenziale della domanda interna ed esterna e dell’innovazione sui settori produttivi ai fini occupazionali, porterà ad una redistribuzione del lavoro sempre di più verso i servizi e, all’interno di questi, verso quelli alla persona e di cura di carattere labour intensive. Settori, dove il sistema capitalistico alla ricerca del massimo profitto, non è il sistema di conduzione ideale. In questi settori, per le dinamiche di invecchiamento della popolazione proprie delle nostre società, la proporzione di richiesta di prestazioni di cura tende inevitabilmente a crescere (si pensi, per fare solo un esempio tra i tanti, allo spazio di lavoro di cura che si apre per rispondere al giusto bisogno degli anziani soli che sono ancora autosufficienti e che desiderano, com’è del resto molto opportuno dal punto di vista sanitario e psico-sociale, rimanere a vivere nella propria casa). Spazi di lavoro in cui le formule di domiciliarizzazione della cura alla persona, oltre a diminuire gli inutili costi aggiunti della segregazione degli anziani autosufficienti in spazi specialistici, aprono a promettenti sviluppi sulle ricadute virtuose del lavoro di cura alla persone correttamente svolto, rispetto alla umanizzazione dei luoghi della vita quotidiana e alla valorizzazione delle reti sociali spontanee di prossimità.

Sono dinamiche intersettoriali che portano inevitabilmente (per la diversa incidenza delle innovazioni tecniche) ad una flessione della produttività strettamente economica e la cui produttività sociale richiede la costruzione di indici su cui è in corso la riflessione scientifica.

E’ sempre più necessaria una capacità progettuale che investa i tempi e i luoghi di lavoro, che preveda forme di servizio civile giovanile e non, nazionale europeo e internazionale, obbligatorio o incentivato, anche per eliminare la destinazione a lavori squalificati, e per l’intera esistenza, di una frazione soltanto della popolazione e che dia diritto a un “credito educativo” da spendere in periodi di educazione permanente o ricorrente, variamente intervallati nel corso della vita produttiva.

Oltre quindi a forme di sostegno al reddito di carattere sempre più universale è necessaria e possibile la riscoperta di valori culturali ed economici nazionali, ma non nazionalistici, e locali, cui è connessa la creazione di nuove forme di impresa e di occupazione, di nuovi modelli di produzione e relazioni sociali. In coerenza con lo spirito della nostra Costituzione che garantisce il diritto dovere del lavoro in un contesto di solidarietà sociale.  

Terzo settore e solidarietà sociale

Negli ultimi decenni, per controbilanciare in parte, anche se a volte impropriamente, l’insufficienza dell’intervento pubblico nella lunga fase di stagnazione dell’accumulazione nazionale, sono sorte forme di impresa non riconducibili strettamente a quella capitalistica. Si sono anche sviluppate iniziative no profit e varie forme di volontariato che hanno fronteggiato in parte la crescita dei bisogni sociali inevasi conseguente al ritirarsi dello Stato per carenza di fondi e per incapacità amministrativa. Un insieme di economie di comunità si stanno facendo poi carico di ricollegare (a livello di occupazione, di reddito, di beni e servizi utili) tutto ciò che la globalizzazione sta separando. Va rilanciata l’esperienza cooperativa, adeguandola alle mutate realtà socio economiche, ma sempre nella fedeltà allo spirito originario. Le suddette realtà smentiscono nei fatti quella rappresentazione della relazionalità umana basata essenzialmente sulla massimizzazione del profitto e sulla lotta interindividuale che è data invece per scontata e indiscutibile nel modello sociale dominante dell’ homo oeconomicus, alla base della visione competitiva della società propria della logica capitalistica fin qui descritta.

Anche sul fronte finanziario sono presenti interventi non di mercato che privilegiano l’area delle attività produttive non capitalistiche. Importanti sviluppi sono anche costituiti dall’ampliarsi di prestazioni di microcredito da parte di alcuni enti bancari e dall’avvio di quella Borsa sociale che dovrebbe fornire il necessario capitale di rischio alle iniziative del settore.

Appare dunque realistica la prospettiva che l’insieme di queste esperienze possa evolversi verso un più organico sistema basato sul modello dell’«impresa sociale» e sulla imprenditorialità popolare che è andata diffondendosi a partire dalla fine degli anni settanta e continua a mantenere il proprio radicamento nei contesti originari, su imprese cooperative e su quelle di comunità, frutto della reviviscenza delle «società locali». Un sistema che, coprendo gli spazi che il sistema capitalistico non copre né coprirà più, provveda alla produzione di beni e servizi che abbiano valore sociale. Un sistema che sia insieme alternativo e complementare al capitalismo privato. E che meriti la massima attenzione, innanzitutto da parte degli operatori impegnati in esso, perché rimanga fedele ai suoi valori e ai suoi compiti sociali.



Il presente documento, a cura delle Associazioni Generazioninsieme e Centro Studi Federico Caffè, nasce anche dalla rielaborazione dei documenti di un precedente convegno di Generazioninsieme e di un articolo   pubblicato sulla Rivista giuridica del lavoro e della Previdenza sociale, Anno XLII - n. 2, 2011, dal titolo: “Lavoro e redditi. Dagli ammortizzatori sociali a nuove forme di organizzazione economico-sociale”. A firma di G. Amari, B. Amoroso, P. Ghibelli, C. Gnesutta , R. Greco, N. Lisi, C. Tajani.

 

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