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Etica e politica

Mattarella: i volontari campioni di umanità

Il 3 febbraio si è tenuta, con un applauditissimo discorso del presidente Sergio Mattarella, la proclamazione di Trento capitale europea e italiana del volontariato per il 2024, con la partecipazione di 1'200 volontari, di 400 studenti e di rappresentanti delle istituzioni locali, provinciali, regionali, oltre che dei rappresentanti dei CSV italiani e della norvegese città di Trondheim, capitale europea nel 2023. Ha introdotto il Convegno il sindaco Franco Ianeselli, che ha definito i volontari «un antidoto alla rassegnazione e un esempio per la politica, che si fa intimorire dalla vastità e dalla complessità delle questioni del nostro tempo». La presidente nazionale del CsvNet, rete dei centri di volontariato, Chiara Tommasini, ha definito il volontariato un «rafforzamento della capacità di esserci per gli altri».

Mattarella ha riconosciuto che chi s'impegna in qualche forma di volontariato, compie una scelta a favore di ogni essere umano. Per questo può essere definito «campione di umanità», perché la solidarietà è «una pietra angolare degli ordinamenti». Per rispondere al calore di quell'assemblea orgogliosa di una Trento riconosciuta a livello europeo «grande potenza della solidarietà capitale del volontariato», ha ricordato, come ha fatto a Barbiana, don Milani, evocando il famoso "I care", che pone in primo piano la persona, il suo pieno diritto a essere parte integrante della comunità, favorendo il dialogo e l'amicizia, in termini di gratuità. Di recente abbiamo dilatato il motto in "we care", perché insieme si va più lontano. Tutti abbiamo bisogno di esprimerla e di riceverla, questa solidarietà, per sentirci parte di una storia che va avanti.

Il presidente non ha fatto retorica, ma, quasi volando sulle cime del Trentino, ha lasciato intravedere le rocce dei primi articoli della nostra Costituzione, che sono alti e profondi anche più di quelli che sono tanto citati nei princìpi del diritto internazionale, ma purtroppo in buona parte ignorati nell'indifferenza, nella sfiducia o addirittura nella prassi di guerre e di comportamenti incivili e delinquenziali. Occorre aggiungere che la Repubblica, che ha il dovere di riconoscere e di garantire i diritti inviolabili e di richiedere l'esercizio dei doveri inderogabili di solidarietà economica, politica e sociale della persona umana, non si riduce alle istituzioni, ossia alle leggi e a chi è legittimato a scriverle e ad applicarle per conto e a beneficio di un popolo che voti e, se ci crede, paghi in maniera equa le tasse.

Per l'articolo 4 della Costituzione «ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società»; per l'art. 118 «Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l'autonoma iniziativa dei cittadini, singoli o associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà». La maestra che aiutò don Milani a far lezione alle ragazze della scuola media di Borgo S. Lorenzo disse loro: «La voglia di diventare cittadine sovrane e di leggere i giornali non l'avete e bisogna imporsela». Mattarella lo ha ricordato a Trento citando le alte cime che noi ammiravamo da ragazzi.

(pubblicato su Il Giornale di Brescia del 20 febbraio 2024)

Il dibattito teorico e politico su centralizzazione e decentramento

1. Introduzione

Buongiorno Eminenza, buongiorno a tutti. Ringrazio Giancarlo Cattai per avermi invitato a parlare di un problema di grande interesse anche se molto complesso sia dal punto di vista teorico che attuativo. Questo intervento ricorda le diverse forme di governo: unitario accentrato e decentrato (ove il decentramento consiste nell’attribuzione di poteri politici, finanziari o amministrativi alle istituzioni periferiche ovvero agli enti sub-centrali di governo), e poi il governo federale e quello confederale. Successivamente si fa riferimento alle teorie principali del decentramento per concludere con alcune considerazioni sul Titolo V della Costituzione che, in nome del decentramento amministrativo e fiscale ha introdotto nuovi articoli 114-132 a favore delle autonomie e del coordinamento tra livelli di governo abrogandone altri (ex 115, 124, 128, 129, 130).

2. Governo centrale, decentramento, governo confederale e federale

Secondo lo storico napoletano Pasquale Villari, l’approccio alla cultura amministrativa di derivazione francese, e cioè la preferenza per la centralizzazione (con l’estensione al neonato Regno d’Italia delle norme dello Stato Sabaudo introdotte nel 1859 da Urbano Rattazzi) anziché per una unificazione “federale” del Paese, è forse il peccato originale dell’Italia nel momento della sua unificazione.

A differenza dello stato unitario, quello federale è uno stato formato da enti locali e regioni autonomi uniti da un patto federativo; la federazione, che ha sempre una costituzione scritta, ha poteri sia sugli enti sub-centrali di governo che sui cittadini.

Infine, a differenza della federazione, la confederazione è un patto che non dà luogo ad un solo Stato, infatti, quelli che vi aderiscono mantengono la propria sovranità e autonomia anche se hanno generalmente. interessi convergenti su altri piani, come quello internazionale.

Un governo federale nasce in due modi:

  1. Per patti di aggregazione tra governi indipendenti (USA, Australia, Germania);
  2. Per scissione di uno Stato originariamente unitario (Belgio) laddove forme più deboli di decentramento non erano risultate adeguate placare i conflitti tra valloni, fiamminghi e germanofoni. Questo era il processo invocato venti anni fa (1993) dalla Lega Nord che proponeva un Federazione italica composta da tre regioni: la Padania, l’Etruria, la Mediterranea, come forma di riconoscimento e tutela delle peculiarità etnico-linguistiche.

2.1 La teoria di Musgave e i teoremi di Tiebout e Oates

Nella dialettica istituzionale tra Stato e Mercato, entrambi visti come strumenti e non come beni in sé - lo ha già ricordato Padre Occhetta -, il libero mercato (quello smithiano ad esempio) è associato a una filosofia di laissez faire per potersi sviluppare meglio dimenticando però i suoi importanti fallimenti micro (esternalità, asimmetria informative, beni pubblici nazionali e i beni pubblici locali di Head) e macroeconomici (disoccupazione, inflazione, crescita, bilancia dei pagamenti). Ovviamente, le esternalità militano a favore dell’accentramento amministrativo, mentre i beni pubblici locali a favore del decentramento.

A questo punto la domanda che ci si pone è quale organizzazione politico- amministrativa, tra quella unitaria centralizzata o quella delle autonomie più o meno federalizzate, si presta meglio ad affrontare questi fallimenti del mercato?

Qui ci viene incontro una nota teoria di Local Public Finance e due teoremi del decentramento che sono molto noti ai cultori della politica economica e della scienza delle finanze.

La teoria è quella di Richard Musgrave, secondo cui, delle tre funzioni economico-fiscali del governo: 1. efficienza nell’allocazione delle risorse; 2. la capacità di stabilizzazione del ciclo economico; 3.la distribuzione delle risorse, solo la prima ha da guadagnare da un sistema decentrato di livelli di governo (Stato, regioni, province, aree metropolitane, comuni, comunità montane), mentre la seconda e la terza sono svolte meglio a livello centrale.

A sostegno della teoria di Musgrave vanno considerati i due teoremi del decentramento di Oates e di Tiebout che, guardando alla proprietà dell’efficienza economica, dimostrano come, date alcune condizioni forti (ovvero non proprio realistiche sull’assenza di esternalità - per cui il principio dell’equivalenza fiscale di Olson congiunto al principio del beneficio conducono a quello della perfetta corrispondenza, la cui osservanza dà luogo a una perfetta separazione delle fonti di finanziamento per i diversi livelli di governo -, il decentramento è la organizzazione che massimizza l’utilità delle preferenze individuali; essa è quindi più efficiente di quella centralizzata in quanto ha tre vantaggi importanti: quello dell’autonomia decisionale nelle politiche locali e nell’erogazione dei beni e dei servizi locali, quello della responsabilizzazione dei policy makers e quello di dare agli enti locali la flessibilità di bilancio.

In conclusione, la teoria ha offerto, ormai da molti anni, un contributo fondamentale nella distribuzione delle funzioni ai diversi livelli di governo. A queste considerazioni si deve aggiungere che i due teoremi fondamentali dell’economia del benessere mostrano - pur nella loro fragilità di proposizioni analitiche, che l’efficientamento di un sistema economico (ovvero il raggiungimento della sua posizione di ottimo paretiano legato alla concorrenza perfetta), per qualsiasi livello di governo, non garantisce una distribuzione politicamente accettabile delle risorse e richiede, anche per questi motivi, l’intervento dello stato centrale.

2.2 Il titolo V della Costituzione e la posizione di Don Sturzo

Ad attirare l’attenzione sul regionalismo differenziato sembra siano stati sinora soprattutto due motivi:

1. l’integrazione della procedura sommaria dettata dall’art. 116 Cost., attraverso l’inedito strumento degli accordi preliminari tra lo Stato e le Regioni interessate;

2. l’individuazione del gettito tributario generato sul territorio regionale da attribuire alle Regioni che acquisiranno le nuove e più ampie competenze previste dal Titolo V della Costituzione del 2001. Ciò è previsto nei nuovi articoli 114-132 (di cui sono stati abrogati gli (ex 115, 124, 128, 129, 130).Questa modifica del testo costituzionale prevede, in dettaglio, il significato che si vuole dare all’autonomia degli enti sotto- ordinati di governo.

«Le Regioni hanno autonomia finanziaria nelle forme e nei limiti stabiliti da leggi della Repubblica, che la coordinano con la finanza dello Stato, delle Provincie e dei Comuni». Da qui gli elementi di federalismo fiscale nell’ordinamento degli enti locali e il ritorno in auge delle province, con funzioni di area vasta tra le regioni e i comuni. (Di questi livelli sub- centrali di governo si voleva, negli anni passati l’abolizione nonostante fossero previste sia dalla Costituzione del 1948 sia dal Titolo V. Esse corrispondono, salvo alcune eccezioni, all’ambito di competenza delle prefetture.

Il disegno di legge sull’autonomia differenziata, presentato dal ministro per gli Affari regionali Roberto Calderoli della Lega è di fatto una nuova proposta su un tema di cui il partito del Nord Italia parla da anni e che trova nuovo vigore con la riforma del Titolo V. Dopo il via libera al testo della Commissione Affari Costituzionali (con 13 voti favorevoli, sette contrari e un astenuto), ora il disegno di legge approda in aula dove la discussione è prevista il 16 gennaio prossimo. Ma si attende anche la proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare che punta alla modifica degli articoli 116 e 117 della Titolo V della Costituzione.

Il testo del Ddl 615 riguarda 23 materie di legislazione previste dal terzo comma dell’articolo 116 della Costituzione, e sottolinea come esse possano essere attribuite alle Regioni “con legge dello Stato su iniziativa della regione interessata”. Per questa ragione si parla di un ossimoro di fatto, il “centralismo regionale” che rischia di far esplodere l’attuale ipertrofia regionale. Insieme alle competenze, le Regioni possono anche trattenere una parte maggiore del loro gettito fiscale che, di conseguenza, non sarebbe più distribuito su base nazionale a seconda delle necessità collettive.

Questo comma può aggravare le grandi differenze economiche e sociali tra regioni, che rendono particolarmente delicata, e potenzialmente dannosa, l’approvazione di leggi in questo senso. Dannosa perché può acuire le differenze di un paese che soffre di dualismo territoriale sin dall’unificazione, e la cui forbice, che si era stretta nel primo ventennio del secondo dopoguerra, è tornata a riaprirsi nell’ultimo cinquantennio a causa delle occasioni mancate dello sviluppo del Mezzogiorno.

A questo riguardo, i punti più dibattuti riguardano i LEP (Livelli essenziali delle prestazioni), che in base alla Costituzione tutelano i “diritti civili e sociali” di cittadine e cittadini. L’entità dei trasferimenti tra Stato e Regioni andrebbe stabilita prima di tutto in base a un criterio condiviso di spesa standard. Solo successivamente si potrebbero riassegnare le quote di risorse proprie richieste dalle Regioni richiedenti in base all’autonomia differenziata. Questa procedura contribuirebbe anche ad evitare la pericolosa concorrenza fiscale tra enti sub-centrali di governo. Ma la “secessione dei ricchi” non riguarda soltanto la riassegnazione suddetta di risorse proprie alle regioni, bensì la differenza tra servizi locali ricevuti e tasse locali pagate per coprire i costi delle competenze attribuite. Si nota, in questo contesto, che la spesa privata per la Sanità ha raggiunto il 25% del totale.

Si può dire che su questa linea ritroviamo alcuni dei suggerimenti di organizzazione politico-amministrativa invocati da don Sturzo. In economia, Sturzo era un liberale classico (che però rifiutava sia il liberalismo sia il socialismo), denunciava il capitalismo di Stato, dilapidatore di risorse, avversava il centralismo. Ma censurava anche il primo impianto dell’Italia repubblicana del 1948, trovando inadeguata la presenza del regionalismo necessario per consentire un’autonomia ai diversi livelli di governo. Egli sosteneva una cultura di ispirazione cattolica e democratica che si ponesse al servizio della cittadinanza secondo la Dottrina sociale della chiesa e che si occupasse di affrontare il divario economico tra il Centro-Nord e le aree sottosviluppate del Mezzogiorno.

3. Conclusione

Come diceva Luigi Einaudi, vi è “un terreno dei teoremi e uno dei consigli”, nel nostro caso, un terreno del regionalismo amministrativo e uno del regionalismo politico. Il modello di regionalismo amministrativo differenziato che ho appena delineato incontra però qualche seria difficoltà teorica: se i limiti legislativi imposti alle regioni sono costituiti da principi fondamentali della materia o da norme imposte dalle leggi dello Stato a vario titolo – competenza esclusiva ex art. 117.2, norme “trasversali” che incarnano i “valori” costituzionali, competenze assunte in sussidiarietà a tutela degli interessi unitari, ecc. – come si può ammettere che ad essi si deroghi per alcune regioni soltanto, senza che per ciò stesso si vengano a perdere la “fondamentalità” del principio o la “universalità” dell’interesse unitario? La risposta a questa domanda davvero impegnativa non può che essere, politica. L’intesa tra Stato e regione richiesta dall’art. 116.3, secondo un’applicazione adeguata dell’autonomia differenziata servirebbe appunto ad isolare e giustificare la deroga che si introduce. In questo contesto, molti dei principali sindacati hanno deciso di rivolgersi alle Senatrici e ai Senatori perché si tenga la scuola “organo costituzionale” fuori dal processo di regionalizzazione avviato dal Governo.

A sua volta, il regionalismo “politico” differenziato, sebbene sia auspicabile, ben si sposa con i vari tentativi di promuovere un referendum per la secessione o il riconoscimento di una nuova “specialità” regionale; né può ridursi alla sterile – e profondamente sbagliata – rivendicazione del trattenimento totale delle tasse sul proprio territorio. Questo sarebbe un regionalismo che fomenta la disgregazione della Repubblica e che non può che andare a cozzare contro i principi costituzionali.

Ancora di più, entrambi questi regionalismi implicano un duplice rafforzamento della burocrazia nella transizione da un decentramento finanziario amministrativo a uno politico e quindi da una finanza locale derivata a una quasi-autonoma. Lo spirito di corpo dei burocrati, il cui numero e potere viene moltiplicato dai livelli di governo, porta talvolta ad anteporre gli interessi personali a quelli del loro “principale”, ovvero i politici rappresentanti della società civile e la stessa collettività, come ci mostra la teoria della burocrazia. E la burocrazia ostacola le riforme (routine e privilegi) a meno dell’uso di incentivi adeguati (come quelli utilizzati dall’Imperatore Mutsuhito della dinastia Meiji contro i samurai). Gli Stati si reggono su due basi: la politica che determina gli obiettivi e l’amministrazione che applica gli strumenti per raggiungerli e le nemiche principali della burocrazia sono la liberalizzazione e la concorrenza.

La riforma del Titolo V, che ha spostato verso le Regioni capacità di spesa e meccanismi di controllo, creando nuovi centri di spesa sovrapposti a quelli centrali, ha aperto su questi profili il vaso di Pandora.

http://www.ardep.it/pdf/ATTI-INCONTRO-RETINOPERA-24-NOVEMBRE-2023-GCR.pdf

L’aumento della povertà assoluta in Italia

Basterebbe leggere i titoli per comprendere. Ci riferiamo al Report sulla Povertà presentato dall’ISTAT il 25 ottobre 2023. Ad esempio: “Povertà assoluta in aumento in Italia per famiglie e individui. Peggiore la condizione delle famiglie con 3 o più figli. La povertà assoluta continua a colpire in modo marcato i minori. Ancora molto elevata la povertà assoluta tra gli stranieri. Si conferma più diffusa la povertà assoluta tra le famiglie in affitto.”

Entrando nei dettagli, dall’ISTAT viene segnalato che nel 2022 si sono trovati in condizione di povertà assoluta oltre 2,18 milioni di famiglie (8,3% del totale, mente nel 2021 erano il 7,7%) e oltre 5,6 milioni di individui (9,7% degli abitanti, in crescita rispetto al 9,1% dell’anno precedente). L’incidenza delle famiglie in povertà assoluta si è confermata più alta nel Mezzogiorno (10,7%, in crescita rispetto al 10,1% del 2021), con un picco nel Sud (11,2%), seguita dal Nord-est (7,9%) e Nord-ovest (7,2%); nel Centro dell’Italia sono stati rilevati i valori più bassi dell’incidenza (6,4%).

Anche nel 2022 l’incidenza della povertà assoluta è stata più elevata tra le famiglie con un maggior numero di componenti: ha raggiunto il 22,5% tra quelle con cinque e più componenti e l’11,0% tra quelle con quattro. Segnali di peggioramento provengono dalle famiglie di tre componenti (8,2% rispetto al precedente 6,9%).

Lo scorso anno la povertà assoluta in Italia ha interessato quasi 1 milione e 269 mila minori (13,4%, rispetto al 9,7% degli individui a livello nazionale); l’incidenza varia dall’11,5% del Centro al 15,9% del Mezzogiorno. Le famiglie in povertà assoluta in cui sono presenti minori sono state 720mila, con un’incidenza dell’11,8% (era l’11% nel 2021). Le famiglie di altra tipologia con minori, ossia quelle famiglie dove frequentemente convivono più nuclei familiari, hanno presentato i valori più elevati dell’incidenza (23,0% contro il 15,6% delle altre tipologie familiari nel loro complesso). L’intensità della povertà delle famiglie con minori, pari al 20,6%, è stata superiore a quella del complesso delle famiglie povere (18,2%), a testimonianza di una condizione di marcato disagio.

Gli stranieri in povertà assoluta sono risultati un milione e 700mila, con un’incidenza pari al 34,0%, oltre quattro volte e mezzo superiore a quella degli italiani (7,4%). Anche per questi ultimi si è registrato un incremento della povertà assoluta a livello nazionale (rispetto al 6,9% del 2021), sia nel Nord sia nel Mezzogiorno (rispettivamente 5,4% e 11,4%, da 4,9% e 10,6% dell’anno precedente).

Nel 2022 hanno pagato un affitto per l’abitazione oltre 983mila famiglie povere, che rappresentano il 45% di tutte le famiglie povere, con un’incidenza di povertà assoluta del 21,2% contro il 4,8% di quelle che vivono in abitazioni di proprietà. Entrambi i valori sono in crescita rispetto al 2021, quando l’incidenza era del 19,1% per le famiglie in affitto e del 4,3% per quelle in proprietà. Le famiglie in affitto residenti nel Mezzogiorno hanno avuto un’incidenza di povertà assoluta pari al 24,1%, rispetto al 19,9% del Nord e al 20,2% del Centro.

Di fronte a questi dati estremamente negativi ci si dovrebbe aspettare una forte reazione del Paese. Invece, la notizia è passata come qualsiasi altra: senza sorpresa, senza indignazione, senza scandalo, senza vergogna. Eppure la Costituzione assegna un compito che ogni giorno dovremmo avere come obiettivo: rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana. Sicuramente la povertà assoluta è il principale ostacolo ad una vita dignitosa

Il buon senso, oltre al senso di responsabilità politica, dovrebbe spingere il Parlamento e il Governo a riunirsi al più presto in una seduta straordinaria per approvare adeguati provvedimenti in grado di contrastare seriamente la povertà assoluta, o almeno la tendenza all’aumento. Invece, temiamo che non accadrà nulla, poiché la sorte dei poveri non interessa a tutti gli altri.

O per dirla con papa Francesco: “Ai poveri non si perdona neppure la loro povertà”.

Per non lasciare il debito pubblico ai posteri

Sono trascorsi 30 anni e oggi è ancora più attuale.

Ci riferiamo alla nascita dell’Associazione per la riduzione del debito pubblico (ARDeP), costituita il 18 dicembre 1993. “L'Associazione è apartitica, non persegue finalità di lucro e la sua struttura è democratica. Essa si propone di promuovere e favorire in Italia la riduzione del debito pubblico, attuando iniziative di informazione e di sensibilizzazione ai valori della solidarietà” (art. 2 dello Statuto).

Questa Associazione (www.ardep.it) in realtà sorge sulla spinta di una scelta tanto personale quanto politica: il 26 settembre del 1992 Luciano Corradini, professore di pedagogia all’Università di Roma e vicepresidente del Consiglio nazionale della pubblica istruzione, si reca in un ufficio postale e versa 500 mila lire come “contributo volontario al risanamento del bilancio dello Stato” italiano.

In effetti in quel periodo il nostro Paese era sull’orlo della bancarotta: il debito pubblico aveva raggiunto il 117% del PIL. Oggi la consistenza del debito è ben superiore: oltre il 140%. Il 15 dicembre 2023 la Banca d’Italia ha segnalato che il debito pubblico italiano ha raggiunto un nuovo record assoluto: 2.867 miliardi di euro.

Trent’anni fa Luciano Corradini decide di agire con un “gesto di responsabilità personale un po’ provocatoria nei riguardi della disattenzione collettiva verso il bene comune”.

Scrisse una lettera a Giuliano Amato, allora presidente del Consiglio dei Ministri, spiegando: “se l’Italia subisce un tracollo e regredisce nella barbarie, a poco valgono l’appartamento che posso lasciare ai miei figli” (Luciano Corradini – La tunica e il mantello – Editrice Universitaria di Roma).

Luciano Corradini citando l’art. 53 della Costituzione (“tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva”) ne deduce che, “se misuro questa capacità contributiva non solo in rapporto all’evasione altrui e ai miei desideri, ma ai bisogni e ai rischi che corre ‘la squadra italiana’, indipendentemente da chi la guidi pro tempore e dalla politica che questi riesca a fare per affrontare questi rischi e per far pagare gli evasori, concludo che posso fare qualcosa di più di quanto mi viene richiesto”.

Nella lettera a Giuliano Amato viene indicato lo scenario in cui si colloca la scelta di Corradini: "Io penso che questo volontariato dentro le istituzioni, questa forma di volontariato fiscale, che non vuole accusare nessuno né coprire alcuna ingiustizia, sia un investimento produttivo di un valore di cui non vedo come si possa fare a meno, noi e chi verrà dopo di noi: parlo della cittadinanza, un bene da produrre e da garantire con appartenenze, leggi e comportamenti, che siano sempre meno inadeguati ad assicurare una buona vita sul Pianeta al più alto numero possibile di persone”.

Pertanto, quella di Corradini non rappresenta soltanto una pur lodevole testimonianza, ma è un’indicazione politica della strada da intraprendere per il futuro. Luciano Corradini ha interrotto i versamenti mensili allo Stato soltanto quando è stata costituita l’ARDeP, di cui Corradini è fondatore e tuttora presidente onorario.

In questi tre decenni l’Associazione ha cercato di far presente a tutti i cittadini italiani che “abbiamo un problema” chiamato debito pubblico. Corradini l’ha efficacemente rappresentato con un esempio: “ci comportiamo come due genitori che tutte le sere vanno al ristorante e che ogni volta mandano il conto da pagare ai figli”.

Così non si poteva e non si può continuare: “mia moglie ed io, genitori di tre figli ormai cresciuti, stiamo cercando d’imparare il mestiere di cittadini”.

 

Umiltà e serietà di un pedagogista, che con il versamento volontario si è sentito “più libero di chiedere al Governo il massimo impegno di equità, con particolare rispetto per i giovani e per la scuola”.

La parola “fisco” viene dal latino e significa “cesto”. In quel cesto comune Corradini ha messo un messaggio educativo concreto che purtroppo finora non è stato raccolto come meriterebbe.

Le multinazionali sono al top

“Eat the rich” è la scritta posta su una scatoletta di cibo con il disegno di un ricco che viene cotto sopra un fuoco. È questa l’immagine provocatoria che fa da copertina alla 13° edizione di “Top200”, il report annuale (basato sui dati relativi al 2022) sulle principali multinazionali curato dal Centro Nuovo Modello di Sviluppo. Il motto provocatorio richiama una celebre frase di Jean-Jacques Rousseau: «Quando il popolo non avrà più da mangiare, allora mangerà i ricchi». Così si esprime con chiarezza da che parte si pone chi ha predisposto il dossier.

Nel merito si tratta – come nelle precedenti edizioni – di uno studio puntuale, sia perché i dati riportati forniscono un quadro preciso della ricchezza delle imprese multinazionali, sia per l’attualità della problematica in un mondo che presenta enormi disuguaglianze.

Il sottotitolo – “la crescita del potere delle multinazionali” – sintetizza il risultato che emerge dal report. Anzitutto i profitti delle prime 200 imprese internazionali sono raddoppiati in dieci anni, passando da 1'089 a 2'054 miliardi di dollari. Nella classifica delle “top 200” società troviamo 62 multinazionali con sede principale negli USA e 61 in Cina, che insieme rappresentano il 64,1% del fatturato: 17'770 miliardi su un totale di 27'722 miliardi di dollari. Al terzo posto si colloca il Giappone con 18 imprese e al dodicesimo l’Italia con tre società (Assicurazioni Generali, Eni e Enel).

Assai significativo per comprendere il potere delle imprese è il confronto tra le entrate degli stati e i fatturati delle multinazionali. Al primo posto ci sono gli USA con 8'010 miliardi di dollari di introiti, al decimo troviamo l’India con 682 miliardi, seguita dalla prima delle multinazionali – la Walmart – con un fatturato di 611 miliardi. In questa classifica ibrida (stati e multinazionali insieme), ai primi 100 posti ci sono 72 multinazionali.

Il dossier, oltre a numerose classifiche sulle top 200 imprese mondiali, contiene quattro approfondimenti relativi ai finanziamenti pubblici alle imprese private, agli affari delle società che producono programmi di intrattenimento, alla crescita dei privati nel settore della sanità e alla presenza di mercenari nei teatri di guerra nel mondo. Proprio questi quattro focus rappresentano la parte più attuale e originale del report. Da non perdere.

Fonte: https://www.pressenza.com/it/2023/09/le-multinazionali-sono-al-top/

(Foto di Centro Nuovo Modello di Sviluppo)

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