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Etica e politica

La pandemia della disuguaglianza

Leggendo “La pandemia della disuguaglianza”, il nuovo rapporto pubblicato da Oxfam in occasione dell’apertura dei lavori del World Economic Forum di Davos, viene in mente un testo di Jean Jacques Rousseau: «Il primo uomo che, avendo recintato un terreno, ebbe l'idea di proclamare questo è mio, e trovò altri così ingenui da credergli, costui è stato il vero fondatore della civiltà. Quanti delitti, quante guerre, quanti assassinii, quante miserie, quanti orrori avrebbe risparmiato al genere umano colui che, strappando i pali o colmando il fosso, avesse gridato ai suoi simili: "Guardatevi dall'ascoltare questo impostore; se dimenticherete che i frutti sono di tutti e che la terra non è di nessuno, sarete perduti!".»

Se prendiamo sul serio i dati forniti da Oxfam, viene davvero da chiedersi se la nascita della civiltà fondata sulla proprietà privata sia stata un bene per l’umanità. Il dubbio appare legittimo, sapendo che i 10 uomini più ricchi del pianeta nel tempo della pandemia hanno raddoppiato le proprie fortune, mentre nel mondo si stima che 163 milioni di persone in più sono cadute in povertà. I 10 super-paperoni detengono una ricchezza sei volte superiore al patrimonio del 40% più povero della popolazione mondiale, ovvero di 3,1 miliardi di persone.

Dall’inizio dell’emergenza Covid-19, ogni giorno un nuovo miliardario si è unito ad un club composto da oltre 2'600 super-ricchi, le cui fortune sono aumentate di ben 5 mila miliardi di dollari tra marzo 2020 e novembre 2021. Il surplus patrimoniale del solo Jeff Bezos, fondatore di Amazon, nei primi 21 mesi della pandemia (+81,5 miliardi di dollari) equivale al costo stimato della vaccinazione (due dosi e booster) per l’intera popolazione mondiale.

Mentre i monopoli detenuti da Pfizer, BioNTech e Moderna hanno permesso di realizzare utili per 1'000 dollari al secondo, meno dell’1% dei loro vaccini ha raggiunto le persone nei Paesi a basso reddito. La percentuale di persone con COVID-19 che muore a causa del virus nei Paesi in via di sviluppo è circa il doppio di quella dei Paesi ricchi, mentre ad oggi nei Paesi a basso reddito è stata vaccinata appena il 4,81% della popolazione.

È il virus della disuguaglianza, non solo la pandemia, a devastare e sopprimere così tante vite. Ogni 4 secondi 1 persona muore per mancanza di accesso alle cure, per gli impatti della crisi climatica, per fame, per violenza di genere: fenomeni connotati da elevati livelli di disuguaglianza. Si potrebbe continuare a lungo a snocciolare i dati, ma gli esiti non cambierebbero.

Eppure la Dichiarazione universale dei diritti umani stabilisce che tutti gli esseri umani sono eguali in dignità e che devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza. La Costituzione delle Repubblica italiana sancisce il dovere inderogabile di solidarietà e pone limiti alla proprietà privata allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti. Parole al vento, per dirla con Bob Dylan.

Ernesto Balducci sosteneva che i ricchi sempre si opporranno alla democrazia planetaria, perché il primo partito sarebbe quello dei poveri. Per questa ragione l’ONU non ha poteri adeguati e non fa quello che dovrebbe. Ogni anno a Davos, in Svizzera, il principale paradiso fiscale del mondo, va in scena lo show dei ricchi che si confrontano sugli scenari sul futuro. I poveri non sanno nemmeno se Davos esista e tutto sommato hanno altri problemi legati alla sopravvivenza quotidiana.

Nella antica Grecia si racconta che Diogene di Sinope una volta uscì di casa con una lanterna di giorno, e, alla domanda su che cosa stesse facendo, rispose: "cerco l'uomo!". Lo presero per pazzo, ma forse oggi avremmo bisogno di qualche miliardo di Diogene per ridare dignità a questa umanità sottomessa e calpestata.

 

Meno risparmiatori ma più ricchi

Più risparmi con meno risparmiatori. Si potrebbe sintetizzare così il principale risultato della ricerca realizzata dal Centro Einaudi e da Intesa Sanpaolo sul risparmio e le scelte finanziarie degli italiani nel 2021. Infatti dall’indagine emerge che nell’ultimo anno i risparmi degli italiani sono aumentati di 110 miliardi di euro, mentre i risparmiatori sono diminuiti di 6,5 punti in percentuale. Detto in un altro modo: sono aumentate le disuguaglianze.

In questo scenario il Covid è stato un attore protagonista: il 36,8% ha visto ridursi o azzerarsi le entrate ordinarie a causa delle conseguenze economiche della pandemia. In particolare il 19,6% dichiara che le entrate sono «un poco» diminuite, il 15,7% che sono «molto» diminuite e l’1,5% che tutte le entrate sono state perdute. Queste percentuali mostrano che la perdita media di reddito netto familiare, pari a 105 euro mensili, non ha riguardato tutti: si è avuta una forte concentrazione dell’impatto economico, che si è scaricato su poco più di una famiglia su tre.

Di fronte all’emergenza, le famiglie italiane erano preparate? Nonostante l’ampio serbatoio di risparmio privato, in realtà la maggioranza non lo era. Infatti, è risultato che il 53% delle famiglie non aveva accantonato un fondo di riserva, ossia non aveva depositi liquidi sufficienti o strumenti finanziari monetari liquidabili immediatamente per far fronte ad una emergenza economica come quella che abbiamo vissuto. Le istituzioni pubbliche sono intervenute per mitigare l’impatto della crisi. In media, i sussidi o altre forme di supporto economico hanno raggiunto il 28% delle persone, quindi hanno servito il 74% di coloro che hanno perduto entrate.

La pandemia è intervenuta anche sui comportamenti di risparmio, evidenziando due cambiamenti. Anzitutto, la diminuzione, dal 55,1% al 48,6%, della quota di risparmiatori, per effetto delle ridotte disponibilità: di conseguenza il numero dei non risparmiatori ha superato quello dei risparmiatori. Inoltre, tra i risparmiatori sono cresciuti (di 6,7 punti percentuali) quelli involontari, essenzialmente per non essere riusciti a spendere nell’anno della pandemia a causa delle restrizioni di attività e mobilità. Chi ha avuto la possibilità di risparmiare, l’ha fatto ampiamente: il monte risparmi complessivamente è salito di 110 miliardi di euro. Mediamente per i risparmiatori si tratterebbe di un aumento di quasi 4.000 euro pro capite.

Gli investimenti finanziari sono stati ridotti e messi in larga parte in standby proprio dall’incertezza pandemica, ma anche dalla difficoltà oggettiva di incontrare sul mercato investimenti corrispondenti agli obiettivi dei risparmiatori, che nel 2021 hanno privilegiato nel lungo periodo la sicurezza (ossia il desiderio di non perdere il capitale investito) e nel breve periodo la liquidità (per poter far fronte alle emergenze). Da notare che soltanto il 6,7% del campione – ma si sale al 14% tra i laureati – risulta interessato agli investimenti etici e a impatto positivo sull’ambiente e sulla società.

La maggioranza tra i risparmiatori vorrebbe per il momento aspettare a spendere e tenere da parte il gruzzoletto accantonato: si tratta del 64%. Non è tuttavia la parte più abbiente, bensì quella più avanti negli anni e che appartiene al ceto medio-basso e con limitata istruzione. Il restante 36%, che include i laureati, i giovani e gli appartenenti al ceto medio-alto e per reddito, è di opinione diversa e vorrebbe rilanciare i suoi consumi, anche se con priorità differenti. Il ceto medio è pronto a spendere di nuovo, nell’ordine, in viaggi, in una nuova auto o nuovi beni durevoli, al terzo posto in una casa nuova. I laureati mettono sempre in cima alla lista un viaggio, segno che la fermata dei movimenti è stata sofferta, ma invertono le preferenze che vengono dopo: prima la casa e poi una nuova auto. I giovani mettono al primo posto la casa, poi l’auto e infine i viaggi.

Le case degli italiani sono mediamente più piccole (81 mq) di quelle degli spagnoli (96 mq), dei francesi (102 mq) e dei tedeschi (109 mq): la didattica a distanza e lo smart-working hanno mostrato l’insufficienza del patrimonio abitativo italiano. Il 18% del campione ha dichiarato che, a seguito della pandemia, giudica oggi insufficiente lo spazio della propria casa. D’altra parte è necessario sottolineare che il 16,8% dei possessori di un mutuo per la casa ha chiesto e ottenuto la sospensione, quota che sale al 31,5% tra coloro che in famiglia hanno avuto un impatto sanitario relativo al Covid.

Le fasce di età che evidenziano uno stato di maggiore preoccupazione per il futuro sono quelle intermedie, ossia fra i 35 e i 64 anni. L’apprensione è strutturalmente salita non tanto riguardo alla salute, quanto piuttosto al lavoro e al reddito. È salita di 10 punti percentuali, al 54%, la quota delle persone preoccupate della possibilità di subire una diminuzione temporanea del reddito; il 63% (+13 punti rispetto all’anno precedente) teme invece una perdita permanente del reddito.

I problemi economici e finanziari nel tempo della pandemia sarebbero stati estremamente più seri senza i benefici decisi dall’Unione Europea. La differenza tra la quota di intervistati che hanno fiducia nell’Europa rispetto a coloro che non ce l’hanno è di 46 punti percentuali. Tale risultato segna un progresso notevole rispetto al 2020, quando lo stesso saldo era stato appena di 26 punti in percentuale. Interessante notare che il tasso di approvazione dell’Europa aumenta con il livello di istruzione e non con i trasferimenti di cui si è beneficiato. In altri termini, l’Europa è apprezzata non per avere ricevuto trasferimenti di denaro ma per la sua attuale politica economica in risposta alla pandemia.

 

La crescita del potere delle multinazionali

Le multinazionali hanno più potere degli stati nazionali. La frase può sembrare scontata, ma può risultare vera soltanto se viene documentata. A questo provvede meritoriamente il Centro Nuovo Modello di Sviluppo coordinato da Francesco Gesualdi, che pubblica da undici anni un report - ben strutturato anche graficamente - con aggiornamenti sulle 200 più importanti multinazionali a livello planetario.

Analizzando i dati relativi all’anno 2020 emergono aspetti rilevanti. Anzitutto che tra le prime 100 entità economiche mondiali, 30 sono governi di stati e 70 sono multinazionali. Il che dimostra la correttezza della frase iniziale. In questo confronto tra entrate pubbliche e fatturati privati in cima alla classifica ci sono gli USA, seguiti da Cina e Germania. La Walmart, al primo posto tra le multinazionali, si colloca al 9° posto, precedendo stati come Spagna, Russia, India, Australia e Brasile.

Il 2020 - a causa della pandemia - è stato un anno orribile. Tutti i bilanci degli stati hanno chiuso con forti deficit. Non è accaduto lo stesso alle multinazionali: soltanto 30 tra le prime 200 hanno chiuso in perdita, mentre 170 hanno registrato utili. Questi dati mostrano con chiarezza da quale parte stia pendendo la bilancia del potere economico e finanziario.

È anche interessante verificare quali siano le multinazionali che hanno avuto una crescita consistente negli ultimi 10 anni. Anzitutto Amazon che nel 2010 era al 269° posto, cioè fuori dalla classifica dei Top 200 e che l’anno scorso troviamo incredibilmente al 3° posto assoluto. Notevole anche la performance di Apple, che dal 111° di dieci anni fa è passata al 6° posto nel 2020.

Raggruppando le multinazionali per settori, in base al fatturato il 22% si occupa di commercio e trasporti, il 21% di finanza e assicurazioni, l’11% di energia e petrolio, il 10% di elettronica e computer, l’8% di autoveicoli. La prima multinazionale nel settore del commercio è la Walmart con un fatturato di 559 miliardi di dollari. Nel settore dell’energia il primo posto è occupato dalla China National Petroleum con un fatturato di 284 miliardi. Tra i costruttori di auto in cima alla classifica si attesta la Toyota Motor con 257 miliardi di dollari.

Il dossier curato dal Centro Nuovo Modello di Sviluppo contiene anche schede di approfondimento sulle multinazionali dei farmaci e dei vaccini, su Amazon, sull’economia dei militari in Egitto e Myanmar, sulla comunicazione dei grandi gruppi che cercano di presentarsi con la faccia pulita di chi ha a cuore le persone, l’ambiente, ecc.

Da segnalare la scheda dedicata agli stipendi d’oro nel 2020 dei top manager italiani, pubblici e privati, che non sembrano aver risentito della crisi. Michael Manley di Stellantis ha ricevuto un compenso di 11,7 milioni, John Elkann di EXOR 8,5 milioni, Francesco Starace di ENEL 7,5 milioni e Claudio Descalzi di ENI 6,0 milioni. La media degli stipendi dei top manager delle società quotate alla Borsa di Milano è di circa 2 milioni di euro, cioè 36 volte la retribuzione media degli altri lavoratori di queste società.

Questi dati dovrebbero far riflettere, poiché è evidente che il potere economico privato sta crescendo a discapito dell’interesse pubblico. In questa prospettiva non risulta fuori luogo quanto scriveva Louis D. Brandeis, membro della Suprema Corte degli Stati Uniti: “Possiamo avere la democrazia o la ricchezza concentrata nelle mani di pochi, ma non possiamo avere entrambe le cose”.

Il report completo del Centro Nuovo Modello di Sviluppo si può leggere qui:

http://www.cnms.it/categoria-argomenti/17-imprese-e-consumo-critico/200-top-200-2021

Bassi salari e precarietà bloccano crescita e dignità del paese

Lo sciopero generale promosso da CGIL e UIL, un successo nelle piazze, ha posto, al di là delle polemiche e delle strumentalizzazioni tipiche di ogni sistema politico, e dello strappo (si confida momentaneo) con la CISL una nuova attenzione per le condizioni dei lavoratori italiani, sempre più precari e sfruttati, sempre più esposti per assenze di tutele e prevenzioni a infortuni mortali sul lavoro (ieri se ne sono registrati 4, di cui due hanno riguardato persone che lavoravano in nero), ma soprattutto alle prese con un potere d’acquisto in caduta libera.

Ebbene sì, i lavoratori italiani sono oggi mediamente più poveri di 30 anni fa. E nel caso non se ne fossero accorti (ne dubitiamo), a ricordarlo sono i dati statistici e quelli dei rapporti di organismi nazionali e internazionali, ultimo quello elaborato e appena pubblicato dal CENSIS (il 55esimo) sulla situazione sociale del bel Paese.

Italia al 13° posto in Europa per salari medi annuali

Ma non basta, perché gli stessi dati ci raccontano che la perdita del potere d’acquisto dei lavoratori italiani (-2,9%) è unica in Europa nel confronto con tutti gli altri stati membri, in particolare con quelli a noi fisicamente più vicini come la Germania e la Francia, dove la crescita dei salari medi lordi nel trentennio della globalizzazione (1990–2020) è stata rispettivamente del 33,7% e del 31,1%. Mentre all’inizio degli anni ’90 l’Italia era al settimo posto nella classifica degli Stati europei con il salario medio annuale più alto, adesso si posiziona al tredicesimo posto superata anche dalla Spagna.

Intanto ritorna prepotente l’inflazione

Oggi, a fronte di una attesa stangata sulle tariffe di luce, gas, carburanti ed anche generi alimentari, i salari più bassi, che non saranno particolarmente beneficiati dai prossimi sgravi fiscali, verranno erosi da una nuova tassa occulta: quella dell’inflazione. Una contraddizione che appare insopportabile. Quali le cause e gli effetti di questa regressione dell’Italia su scala europea. Intervenendo all’Assemblea di Confindustria il presidente del Consiglio Mario Draghi ha messo sul piatto il progetto di un nuovo patto sociale tra Governo, Confindustria e sindacati. A memoria di chi scrive l’ultimo patto del genere nella storia italiana è stato quello del 1993, che ha sancito la disdetta della scala mobile, meccanismo di adeguamento automatico dei salari all’inflazione. O meglio: i rinnovi contrattuali non sarebbero più stati, da allora, adeguati al tasso di inflazione reale, ma a quello programmato fissato dal Governo nel Documento di Economia e Finanza.

Il pesante impatto dell’Euro sui prezzi al consumo

L’impatto dell’inflazione negli anni dell’Euro1 – il big bang è andato in scena il 1 gennaio 1999 con il debutto dell’Euro come moneta virtuale – ha influito, più che sugli altri 11 paesi inizialmente aderenti all’Euro, proprio sull’Italia. Avvenne per effetto degli aumenti percentuali cumulati dai prezzi dei beni di consumo (44%) rivelatisi maggiori rispetto alle variazioni percentuali cumulate sui redditi nominali disponibili delle famiglie italiane (38,5%). La diminuzione del reddito disponibile reale divenne così pari al 3,8%, l’unico con il potere di acquisto in calo in tutta l’area Euro. Fenomeno che appare del tutto italiano a fronte di un evento comune a tutta l’area europea.

I fattori che hanno pesato sono molteplici a cominciare allo smantellamento dei Comitati Provinciali Euro. Tali organismi, sia pure non abilitati direttamente al controllo dei prezzi nel delicato passaggio dalla lira all’euro, avrebbero potuto intervenire, segnalando eventuali abusi. Evidentemente, a mio avviso, gli abusi non soltanto non furono tempestivamente segnalati, ma contribuirono per effetto transitivo a dare l’assicurazione di impunità assoluta dinanzi all’innalzamento ingiustificato dei prezzi. Altri fattori possono essere rinvenibili durante l’ultimo ventennio, nella bassa produttività e crescita del PIL, nell’abbandono della politica industriale, nella crisi del 2008, nella politica fiscale e, in ultimo, nell’emergenza sanitaria.

Libere osservazioni sul salario minimo

Dallo stesso rapporto del CENSIS, che ci rivela l’esistenza di un mercato del lavoro sempre più sclerotizzato, emerge anche che tra i fattori che impediscono l’inserimento professionale ci sono le retribuzioni disincentivanti che i datori di lavoro – compresa la Pubblica Amministrazione – offrono in cambio di prestazioni lavorative caratterizzate da competenze e capacità adeguate, oggi possedute soprattutto dai giovani. Non deve stupire quindi la fuga di “cervelli” verso altri paesi europei in grado di offrire maggiori opportunità non solo di lavoro, ma anche di retribuzioni più adeguate e anche qui, per effetto transitivo, di maggiore dignità professionale.

Oggi l’Italia si trova tra i 6 Paesi su 27 dell’Unione Europea a non aver adottato un salario minimo universale. Secondo il criterio adottato dall’Unione Europea tale salario dovrebbe essere tra il 50% e il 60% dello stipendio mediano per essere proporzionale al costo della vita (fra 5,60 e 6,70 euro all’ora). In questi giorni la Commissione Lavoro del Senato ha avviato la discussione sulla proposta di legge che dovrebbe dare attuazione alle previsioni dell’art. 36 della Costituzione affinché ogni lavoratore abbia “diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro ed in ogni caso sufficiente ad assicurare a se e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.

Dopo 73 anni si discute ancora sull’applicazione di una norma costituzionale! Si tratta di capire se fissare a 9 euro – come si prospetta al Senato – la paga oraria al di sotto della quale il lavoro diventa sfruttamento può risolvere il problema o se non sono piuttosto la precarizzazione del lavoro, soprattutto giovanile, il lavoro sommerso e deprivato del contratto, il part – time involontario (imposto per riduzione dei costi) oggetto di intervento legislativo per affrontare nella sua complessità il tema dei bassi salari.

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1) L’Euro, valuta comune di diciannove stati membri dell’Unione europea, fu introdotto per la prima volta nel 1999 (come unità di conto virtuale); la sua introduzione sotto forma di denaro contante avvenne per la prima volta nel 2002, in dodici degli allora quindici Stati dell’Unione. Negli anni successivi la valuta è stata progressivamente adottata da altri stati membri, portando all’attuale situazione in cui diciannove dei ventisette stati UE (la cosiddetta Zona euro) riconoscono l’euro come propria valuta legale in: https://it.wikipedia.org/wiki/Storia_dell%27introduzione_dell%27euro

Fonte: https://www.laportadivetro.org/bassi-salari-e-precarieta-bloccano-crescita-e-dignita-del-paese/

Etica e “battaglie fiscali” del professor Corradini

In una società dove c’è chi non si vaccina perché tanto l’immunità di gregge la garantiscono i vaccinati, dove c’è chi fa di tutto per non pagare le tasse perché tanto i servizi pubblici li usa lo stesso, dove la furbizia trionfa sull’onestà e il consenso politico viene pagato con i soldi dei cittadini onesti, la lezione del prof. Luciano Corradini1, deve far riflettere sul mondo in cui vogliamo vivere e quello in cui vogliamo che vivano i nostri figli e nipoti. Luciano Corradini, insigne studioso, ha ricevuto l’ 11 ottobre 2021 il premio “Donato Menichella”, storico Governatore della Banca d’Italia dal 1946 al 1960. Anna Paschero, che ha partecipato alla premiazione ha tracciato questo ritratto di un personaggio poco noto, ma sicuramente fuori dal comune e di grande coerenza morale.

A 86 anni il professore continua la sua battaglia con la vivacità e lungimiranza di sempre. Non contano gli anni, ma la voglia di cambiare veramente questo Paese, dimostrando che l’indifferenza e le delusioni non devono far venir meno la voglia di combattere per un mondo più giusto. “Alla ricerca di un Tesoro nell’educazione” – il titolo della sua lezione raccontata “a braccio” per necessità di sintesi alla platea presente per la consegna del Premio “Donato Menichella”, alla sua ventesima edizione – parte dal rapporto all’Unesco della Commissione Internazionale sull’Educazione per il XXI secolo di Jacques Delors, europeista, ministro delle finanze della Repubblica francese durante la presidenza Mitterand a metà degli anni Ottanta, presidente della Commissione europea per dieci anni, dal 1985 al 1995. L’Educazione non come ideale cui tendere, ma come mezzo concreto per promuovere una forma più completa e armoniosa dello sviluppo umano; per ridurre povertà, esclusione, ignoranza, oppressione e anche la guerra. Non solo come processo continuo di miglioramento della conoscenza, ma come mezzo straordinario per favorire lo sviluppo personale e per costruire rapporti tra individui, gruppi e nazioni del mondo. L’Educazione per affrontare i “mali” che sono diventati più acuti, nonostante l’avanzare del progresso e della scienza, come l’esclusione sociale e la disoccupazione sempre più crescenti nei paesi ricchi e le disuguaglianze sempre più crescenti in tutto il mondo.

L’Educazione come mezzo per affrontare le minacce che incombono sul pianeta a fronte delle quali, nonostante l’opinione pubblica e la coscienza internazionali, non sono state ancora stanziate risorse né individuati rimedi. L’Educazione come attività permanente da svolgere per tutto l’arco della vita umana per consentire a tutti di sviluppare i propri talenti e la propria coscienza: imparare per tutta la vita rappresenta – come ha sostenuto Delors nel suo rapporto – una delle chiavi d’ingresso nel XXI Secolo. Imparare a vivere insieme, imparare a conoscere, imparare a fare, imparare ad essere, sono i quattro pilastri messi in risalto dalla Commissione Delors e richiamati dal prof. Corradini nel corso della sua lezione. Il Tesoro, con la T maiuscola, rappresenta i talenti che sono nascosti – come un tesoro sepolto in un campo – in ognuno di noi. Questo tesoro deve essere utilizzato per il bene di tutti. Il premio Donato Menichella di cui il Prof. Corradini è stato appena insignito rappresenta un riconoscimento non solo per la sua esperienza professionale, ma soprattutto per l’opera di “volontariato fiscale” da lui concretamente svolta (per ridurre la distanza tra la teoria e la pratica e tra la vita che si pensa e quella che si vive) con il versamento mensile per 15 mesi consecutivi, del 10% della sua retribuzione di docente universitario all’Erario.

Egli, in una lettera inviata all’allora presidente del Consiglio Giuliano Amato, nel settembre del 1992 si definiva “cittadino colpito dalle misure amare della cosiddetta manovra decisa dal Suo Governo, finché perdureranno le attuali difficoltà dell’Italia. Pur avendo stima per la Sua persona e per quella di alcuni suoi ministri, non intendo giurare sulla validità della Sua politica, né farmi prendere da quel tipo di emotività che portava le generazioni delle nostre madri a consegnare la vera alla patria, con l’esito che sappiamo. Sto cercando di imparare il mestiere di cittadino, rischiando ovviamente di sbagliare, in un senso o nell’altro”.

L’improvviso collasso della lira dell’estate del 1992, infatti, e la speculazione internazionale che ne seguì, aveva condotto il nostro Paese sull’orlo della bancarotta. La Banca d’Italia bruciò 30.000 miliardi di lire nella vana speranza di difendere la propria valuta. E pensare che all’inizio degli anni ’60 la lira italiana era stata insignita dalla Giuria del Financial Time Internazionale, dell’Oscar come valuta più stabile al mondo! Che cosa era successo? Un quindicennio di spesa facile per evitare tensioni sociali e l’esplodere del fenomeno di “Tangentopoli” cui i cittadini assistettero sgomenti e con rabbia nei confronti della classe politica dirigente alla quale venivano imputate non solo le ruberie delle tangenti, ma scelte economiche scellerate.

Il debito pubblico salì al 117% del prodotto interno lordo nazionale e indusse il presidente del Consiglio Amato a correre ai ripari con il blocco degli stipendi del pubblico impiego e con un prelievo fiscale straordinario di 11.000 miliardi. Con la manovra di bilancio di 93.000 miliardi di lire venne decretato il blocco delle spese dei Ministeri tra cui quelle del Ministero della Pubblica Istruzione. “Mentre la nave imbarcava acqua e rischiava di affondare (il marco passò da 750 a 900 lire), si levarono le voci di Bossi e Miglio che minacciavano lo sciopero fiscale e il rifiuto di procedere all’acquisto di BOT e dei CCT, gli strumenti con i quali un governo con l’acqua alla gola cercava di far fronte di giorno in giorno al peso degli interessi sul debito”.2

In questo clima morale, politico e giudiziario, il prof. Corradini diede vita nel 1993 all’Associazione per la Riduzione del debito pubblico (ARDeP), nata attraverso una “provocazione” di volontariato fiscale, ma che prosegue tuttora il suo impegno cercando di far riflettere sulle interconnessioni tra fenomeni finanziari, economici e politici e il legame che esiste tra comportamenti individuali, collettivi e scelte istituzionali. L’Educazione resta al centro dell’impegno dell’ARDeP, che si è prodigata attraverso il suo presidente emerito prof. Corradini per la reintroduzione nelle scuole, avvenuta solo di recente, dell’obbligo dell’educazione civica. “Se i cittadini non conoscono le istituzioni del Paese come si può pensare di impartire loro una educazione finanziaria?”. Le reazioni scomposte, non solo di gruppi di cittadini ma anche di esponenti politici, all’introduzione nella riforma fiscale della revisione del catasto dimostra quanto sia urgente una formazione in questo senso.

Se dovesse capitarvi di chiedere improvvisamente ad un amministratore locale o ad un esponente di partito o ad un eletto nel Parlamento nazionale a quanto ammontano le entrate e spese dell’Ente o del bilancio dello Stato, o a quanto ammontano gli interessi che dobbiamo pagare per il servizio del debito e a quanto ammonta quest’ultimo, non stupitevi se non riceverete una risposta. Anzi verrete tacciati di essere dei “ragionieri” e che la politica è ben altra cosa. Ma ne siamo proprio sicuri, quando si è alla guida finanziaria ed economica del Paese e si decide del destino dei suoi cittadini?

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1Il prof. Luciano Corradini, pedagogista, docente universitario, autore di numerose pubblicazioni sull’educazione e sull’insegnamento, per anni vice Presidente del Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione, è stato sottosegretario all’Istruzione nel governo Dini (1995-1996).
2Da La tunica e il mantello. Debito pubblico e bene comune: provocare per educare, Euroma La Goliardica, 2003

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