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Etica e politica

Il campionato di calcio e le contraddizioni della destra sulle tasse

Uno dei temi politicamente più minacciosi di queste settimane riguarda la riforma del fisco. Non passa giorno che non si senta qualche esponente del Governo o della maggioranza promettere di passare dal “fisco bastone” al “fisco carota” (ebbene sì, ho sentito con le mie orecchie anche questo), trovare argomenti per giustificare il fatto che gli evasori non solo non debbano essere perseguiti, ma che non sia neanche corretto chiedere loro di rimborsare il mai versato. Argomenti già troppo noti in un Paese in cui il problema è antico e il tentativo di scambiare i ruoli facendo di coloro che non rispettano le regole delle vittime e di quelli che dovrebbero farle rispettare dei carnefici dura da fin troppo tempo. Ma dietro tutto ciò c’è molto di più. C’è una comprensione che il capitalismo ha di sé e della propria organizzazione che risponde a una dottrina che un tempo si sarebbe chiamata “doppia verità”: per il capitalismo contemporaneo – e per la sua versione degradata che ci tocca in Italia – alcune regole valgono per altri ma non valgono per tutti. Si potrebbe dire che riflettere sul senso che la destra pretende di assegnare alla riforma del fisco è un modo per comprendere meglio il modo in cui in Italia viene interpretato e sostenuto il feticcio del “mercato”.

Tutte cose note, in effetti. Ma la particolarità è che vorrei partire da una piccola storia, anzi da un “apologo”. E del resto, in tempi in cui ogni cosa sembra soffocare dentro il mantra del capitalismo come religione del mondo, sono poche le circostanze che non si adattino al genere letterario dell’apologo. Ogni cosa non è solo quella cosa, ma è anche una favola o un racconto che smaschera la violenza e la capillarità della forma unica del mondo.

L’apologo da cui voglio partire riguarda una squadra di calcio che giocava in serie B, la Reggina. Sta combattendo una battaglia per sopravvivere, poiché è stata inopinatamente esclusa dal campionato per vizi economici. L’avversione nei suoi confronti da parte delle istituzioni calcistiche risale, per la verità, ad alcuni mesi fa. Infatti, grazie a un’operazione finanziariamente ardita, la sua proprietà ha aderito a una legge dello Stato, il “nuovo Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza”. Obiettivo di questa legge – che riforma il codice fallimentare – è evitare fino all’ultimo che una crisi aziendale debba necessariamente risolversi nel fallimento. L’idea è che, se il fallimento porterà a un’impossibilità assoluta di saldare i propri debiti, allora sarà più utile aderire a un concordato attraverso cui l’azienda proporrà di saldare i propri debiti in misura minore ma sostenibile. È ciò che ha fatto la Reggina: ha presentato al Tribunale una proposta di concordato in cui si impegna a pagare nientemeno che il cinque per cento del debito complessivo accumulato nei confronti dell’Agenzia delle entrate, dell’INPS, di altri creditori pubblici e privati. I quattordici milioni che mancavano all’appello si sono così ridotti a settecento mila euro. “Sempre meglio di niente”, deve aver pensato il Tribunale, che infatti ha concesso l’omologazione a tale concordato, rendendolo di fatto esecutivo. Tutti i poteri interni allo sport hanno mostrato immediatamente un’insofferenza radicale di fronte a questa prospettiva. Per più motivi. Questa sentenza di un Tribunale ordinario non soltanto mina il principio dell’autonomia della giustizia sportiva, ma soprattutto falsa le condizioni di partenza del gioco, rendendo così iniqua la competizione sportiva. A questo punto infatti la Reggina dovrebbe giocare contro altre squadre che hanno dovuto pagare tutto il dovuto sia in termini fiscali sia in termini di contributi pensionistici. Quei milioni di euro che le altre squadre hanno usato per essere in regola con lo Stato, la Reggina può usarli – per esempio – per rafforzare la propria squadra sul mercato.

Tutto comprensibile, diremmo. Una comunità calcistica non è diversa dalle altre comunità che si organizzano sulla base del primato del mercato autoregolato: se qualcuno non paga le tasse che altri sono invece costretti a pagare, non si determina solo una condizione di ingiustizia sociale, ma anche un’iniquità economica: la logica del mercato funziona solo laddove tutti i soggetti economici concorrano alle medesime condizioni. Dove sta il problema, che trasforma questa piccola storia in un apologo? Che i personaggi che si sono rivoltati contro quest’evidente destabilizzazione della presunta “equità del mercato” hanno nomi, cognomi e storie. Sono l’attuale ministro dello Sport del Governo di destra; senatori della Repubblica come Claudio Lotito (uno dei pochi che ha avuto la responsabilità di decidere l’esclusione dal campionato della squadra calabrese) e tanti altri comprimari della politica di destra che occupano qualche spazio nel mondo dello Sport. Eccola la doppia verità: la Reggina è infatti colpevole di aver rispettato una legge dello Stato (peraltro chiesta a gran voce dall’Unione europea perché dovrebbe facilitare il rispetto “del principio della concorrenza e del mercato”… si potrebbe costruire un altro apologo con questa giustificazione addotta dall’Europa) che anticipa i termini delle riforme fiscali paventate: un occhio di riguardo nei confronti di chi non ha pagato le tasse come gli altri, la garanzia che non sia necessario alcun rimborso successivo, se non simbolico (il contrario di quel che dovrebbe essere la giustizia correttiva: se qualcuno ha pagato di meno rispetto agli altri, solo il risarcimento può ripristinare l’ordine economico perduto), un ostentato disprezzo nei confronti di coloro che le tasse le pagano sempre anche solo perché non possono evaderle, ricevendo il prelievo fiscale alla radice. Ma stiamo parlando di lavoratori dipendenti, non di presidenti di società di calcio.

La lezione di questo apologo risulta così molto divertente: quando per una volta i nostri imprenditori politici di destra si trovano nei panni di coloro che hanno pagato le tasse mentre qualcun altro non lo ha fatto protetto dal mantello della legge, allora il mercato funziona in un modo ben preciso e l’iniquità delle condizioni diventa uno scandalo da perseguire con la fierezza di un principio fondamentale che non può essere derogato, pena la rovina della giusta competizione. Quando invece a subire l’iniquità del mercato sono altri e i propri interessi non sono per nulla toccati, allora il mercato funziona lo stesso, anzi può funzionare solo a condizione che coloro che non pagano le tasse abbiano garanzie di continuare a non pagarle. Per parafrasare uno che ha aperto la strada allo stile degli imprenditori italiani del nuovo millennio, è facile fare i liberisti con il mercato degli altri.

Non so che fine farà la Reggina e neanche quale sia la giusta fine per questa storia. In fondo interessa solo ai suoi tifosi. Ed io, lo confesso, sono tra questi. Ma c’è qualcosa di più profondo che il nostro snobismo spesso non ci permette di valutare. Reggina è semplicemente il nome che io ho dato alla memoria del tempo condiviso con mio padre. Avrei voluto che fosse lo stesso per mio figlio con me. Ma anche da qui si capisce la violenza antropologica del capitalismo contemporaneo. Abbiamo creduto all’idea che le leggi di mercato fossero la garanzia migliore per mettere in salvo persino la nostra memoria. Come ogni altra sfera sociale, abbiamo trasformato lo sport in un affare facendoci convincere che in questo modo l’avremmo, letteralmente, “messo in banca” e fatto fruttare. L’avremmo affidato all’oggettività delle regole di mercato e sottratto alla volatilità degli umori personali. Invece quel che accade adesso è che la doppia verità del mercato ha letteralmente strappato da me il destino della memoria di mio padre. Non dipende più da me, ma da quale delle due ingiustizie prevarrà: l’ingiustizia di chi, protetto dalla legge, prova a fregare i più potenti o l’ingiustizia dei potenti che vogliono fare le leggi per proteggere i furbi ma contemporaneamente sono pronti a far fuori coloro che sfruttano le leggi per fregarli. Una doppia verità a cui corrisponde una doppia ingiustizia. E un’unica certezza: la memoria di mio padre e di mio figlio non appartengono più a me, mi sono state espropriate. Anch’esse ormai appartengono al movimento incessante e violento che qualcuno molto più in gamba di me ha definito “accumulazione originaria”.

Fonte: https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2023/07/19/il-campionato-di-calcio-e-le-contraddizioni-della-destra-sulle-tasse/

 

Lotta all’evasione fiscale o caccia al gettito?

Dalla padella alla brace.

La Presidente del consiglio dei ministri, dopo la nota frase sul “pizzo di Stato” pronunciata in un comizio a Catania (dove il “pizzo” di cosa nostra è noto da decenni), ha cercato di correggere il tiro, sostenendo di essere stata fraintesa.


Temo che non abbiate seguito – ha commentato la premier a Fanpage durante le festività del 2 giugno – perché quello che ho detto non riguarda una parte della imposizione fiscale. Dovete approfondire meglio. Io parlavo di quando lo Stato, invece di fare lotta all’evasione fiscale, fa caccia al gettito. Voi capite che è curioso perché dopo si devono fare quegli importi a tutti i costi, altrimenti non si hanno i soldi per coprire i provvedimenti. E si fanno cose bizzarre che sono più simili alla caccia al gettito che alla lotta all’evasione fiscale. Questo secondo me non è giusto”.

Anzitutto la data. Nella ricorrenza della Repubblica sarebbe stato opportuno ribadire ciò che è affermato in Costituzione, cioè che “tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva” (art. 53).


In secondo luogo, ammesso (e non concesso) che lo Stato stia sbagliando nella politica fiscale, sarebbe compito del Governo intervenire e correggere. Invece, per Meloni “si fanno cose bizzarre”. Ma chi è il soggetto e di chi è la responsabilità?


Non solo: se le imposte non sono sufficienti per coprire le spese dei provvedimenti che sono stati decisi (e di conseguenza si apre la caccia al gettito, secondo il Meloni pensiero), ci sono due possibilità: o le imposte previste sono inferiori alle necessità, oppure le promesse fatte agli elettori sono eccessive. O entrambe le cose.

In ogni caso la Presidente del consiglio dei ministri dovrebbe spiegare qual è la differenza tra la lotta all’evasione fiscale (che sarebbe legittima) e la caccia al gettito (che sarebbe ingiusta).

Per analogia, si potrebbe sostenere che le forze dell'ordine possono contrastare chi cerca di evadere dal carcere, ma non devono dare la caccia a chi è evaso per farlo ritornare in prigione!

A questo punto potremmo provare a scambiare le parole: dare la caccia all’evasione fiscale o lottare per raccogliere tutto il gettito? Che confusione! Non si distingue più il positivo dal negativo…

Forse perché la confusione non sta nelle parole, ma nell’ideologia di chi pensa che lo Stato che impone le tasse sia un nemico da contrastare o da eludere. E quando al vertice di un Governo arriva una persona con quella ideologia, si crea inevitabilmente un corto circuito.

Perciò, non c’è bisogno di cercare di spiegare il senso di alcune frasi, perché è chiarissimo: chiunque capisce che osteggiare la caccia al gettito è fare l’occhiolino agli evasori fiscali.

È intollerabile che ciò accada soprattutto da parte di chi ha giurato sulla Costituzione e che lo faccia senza doversi vergognare.



 

Le tasse sono il pizzo di Stato?

"La lotta all'evasione fiscale si fa dove sta davvero l'evasione fiscale: big company, banche, frodi sull'IVA, non il piccolo commerciante al quale vai a chiedere il pizzo di Stato”. Sono le parole - incredibili e incostituzionali - pronunciate il 26 maggio a Catania dalla Presidente del consiglio dei ministri. Che il principale responsabile del Governo paragoni il sistema tributario all’estorsione mafiosa è un fatto gravissimo e senza precedenti.

Parole incredibili, perché l’Italia è il Paese europeo con la più alta evasione fiscale pro-capite: 3'147 euro (dati Eurostat). In particolare, la propensione all’evasione dell’imposta sui redditi da lavoro autonomo e impresa è del 68,3% (fonte: Relazione sull’economia non osservata e sull’evasione fiscale e contributiva, 2022). Di fronte a questi dati ci si attenderebbe maggiore senso di responsabilità da chi rappresenta le istituzioni.

Frasi incostituzionali, poiché l’art. 53 della Costituzione stabilisce che “tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche”, piccoli commercianti compresi. E l’art. 54 aggiunge che “tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi”, a maggior ragione se ricoprono funzioni pubbliche come la Presidenza del consiglio dei ministri.

In direzione totalmente opposta è opportuno ricordare le parole pronunciate nel 2006 dall’allora Ministro dell’economia Tommaso Padoa Schioppa: “A chi dice che mettiamo le mani nelle tasche dei cittadini, rispondo che sono gli evasori ad aver messo le mani nelle tasche dello Stato e dei cittadini onesti. Violando così non solo il VII comandamento, ma anche un principio base della convivenza civile”.

Papa Francesco, ricevendo in udienza lo scorso anno una delegazione dell’Agenzia delle Entrate, ha detto: “La legalità in campo fiscale è un modo per equilibrare i rapporti sociali, sottraendo forze alla corruzione, alle ingiustizie e alle sperequazioni. (…) La tassazione è segno di legalità e di giustizia. Deve favorire la redistribuzione delle ricchezze, tutelando la dignità dei poveri e degli ultimi che rischiano sempre di finire schiacciati dai potenti”.

In un Paese normale chi presiede il Governo non avrebbe potuto pronunciare quelle incredibili e incostituzionali parole. E comunque in un Paese civile sarebbe stato costretto a dimettersi. Ma Pier Paolo Pasolini ci aveva avvertito dei difetti di questo nostro Paese: “i suoi vizi sono ciclici, si ripetono incarnati da uomini diversi con lo stesso cinismo, la medesima indifferenza per l’etica, con l’identica allergia alla coerenza, a una tensione morale”.

Togliamo a tutti il pizzo di Stato!

Il “pizzo”, termine non propriamente elegante, presente nella terminologia del gergo mafioso, è uno strumento delle associazioni criminali propriamente intese, da Cosa Nostra alla 'Ndrangheta, alla Camorra e a tutte quelle che pur prive di un "marchio di fabbrica" d'esportazione fanno parte di quell'arcipelago delinquenziale, con cui si sostiene le famiglie degli affiliati in carcere e, non ultimo, l'accumulo di capitali da reinvestire in attività illegali nell’economia legale.

La sua riscossione, gestita nell'ombra e in maniera non ortodossa, ma estorsiva, è anche un banco di prova per i nuovi affiliati all’organizzazione, che devono dimostrare di possedere sufficienti dosi di qualità criminali, omicidio incluso.

Il fenomeno è diffuso soprattutto in Sicilia, dove si conta un movimento di denaro che supera il miliardo di euro. A Palermo l’80% delle attività commerciali o imprenditoriali paga il pizzo. Eppure, in un comizio a Catania, seconda città della regione per numero di abitanti e sede di un numero rilevante di imprese, la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha posto il "pizzo" sullo stesso piano delle tasse che lo Stato italiano chiede ai suoi cittadini.

Inutile sottolineare quanto sia dirompente l'affermazione per chi paga le tasse alla fonte (lavoratori, pensionati) e quanto sia "esaltante" all'opposto per chi evade quelle stesse tasse. Non è invece inutile ricordare che la legittimazione degli evasori fiscali ponga di fatto le basi per la demolizione "politica" dello stato sociale, perché vanifica la ragione per cui milioni di contribuenti continuano a credere nel valore della tassazione, meglio se progressiva, come pilastro fondamentale del welfare.

Superato lo sconcerto (ma non è facile) per le affermazioni dell'inquilina di palazzo Chigi, provo ad avanzare una proposta che, sia pure provocatoria, si pone l’obiettivo di assolvere i milioni di italiani che pagano il “pizzo allo Stato”, talvolta anche inconsapevolmente, o spesso per un consolidato e colpevole - a questo punto - senso dello Stato, come molti rappresentanti delle Istituzioni – cito Padoa Schioppa – hanno saputo trasmetterci con le loro parole. Dunque, se la filosofia portante della manovra di questo Governo è di ridurre le tasse di tutti, propongo di abolire l’istituto del sostituto d’imposta, ovvero il soggetto che sostituisce i lavoratori dipendenti e i pensionati nei loro obblighi verso lo Stato e gli enti pubblici ai fini fiscali.

In questo modo, anche quei contribuenti potranno “liberarsi”, come promesso a commercianti e imprenditori di Catania, del “pizzo” di Stato, e fruire delle molteplici sanatorie previste per chi non è in regola con il fisco. In fondo, sarebbe un grande esempio di democrazia applicata alla fiscalità di cui gli italiano saranno grati in eterno o quasi alla signora Giorgia Meloni.

Certo, rimane un punto interrogativo non marginale, primo tra tutti quello che nella legge delega non è chiaro a discapito di quali servizi dovrebbe operare questa riduzione di tasse, ma certamente non potrà che operare a vantaggio di una crescita del debito pubblico che si prospetta imponente nei prossimi anni per poter assolvere, ne sono certa, alle promesse elettorali della presidente del Consiglio.

Fonte: https://www.laportadivetro.com/post/togliamo-a-tutti-il-pizzo-di-stato

 

Peppino Impastato e lo statista DC uccisi lo stesso giorno

Il 9 maggio del 1978, 45 anni fa, furono uccisi Aldo Moro e Peppino Impastato. Due uomini con storie diverse, con valori che li accomunano e con destini che si sono intrecciati nell’epilogo. Aldo Moro fu uno dei padri della Carta Costituzionale. Peppino Impastato potremmo dire che fu uno dei figli della Costituzione. La Costituzione entrò in vigore il 1° gennaio del 1948, Peppino nacque cinque giorni dopo. Ovviamente il nesso non è soltanto una coincidenza anagrafica. Aldo Moro si impegnò politicamente affinché la Costituzione trovasse «senza indugio adeguato posto nel quadro didattico della scuola di ogni ordine e grado». Peppino Impastato cercò di dare concreta attuazione ai valori costituzionali.

La Costituzione riconosce il diritto alla libertà e il rispetto della dignità di ogni persona. Peppino Impastato rifiutò anzitutto l’opprimente cappa della mafia, che calpesta i diritti e la vita dei cittadini. La Costituzione fissa il compito di rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale. Peppino Impastato partecipò alla “Marcia della protesta e della speranza”, organizzata da Danilo Dolci, dalla Valle del Belice a Palermo, per promuovere lo «sviluppo sociale ed economico della nostra terra». La Costituzione pone il lavoro a fondamento della Repubblica. Peppino Impastato fu tra gli organizzatori e i protagonisti di alcune manifestazioni dei disoccupati e dei contadini sfruttati dai latifondisti. La Costituzione tutela il paesaggio della Nazione. Peppino Impastato condivise le lotte contro la speculazione edilizia, l’apertura di cave da riempire di rifiuti, la realizzazione di un villaggio turistico su un terreno demaniale, la costruzione di una nuova pista dell’aeroporto di Palermo.

La Costituzione promuove lo sviluppo della cultura. Peppino Impastato promosse e animò attività culturali con l’obiettivo di coinvolgere soprattutto i giovani con cineforum, teatro, mostre, dibattiti e musica. La Costituzione ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali. Peppino Impastato solidarizzò con i popoli oppressi e lottò contro le armi atomiche e la guerra. La Costituzione sancisce il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni mezzo di diffusione. Peppino Impastato scrisse su una rivista (sequestrata) e fondò una radio di controinformazione. La Costituzione stabilisce che l’iniziativa economica non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. Peppino Impastato si impegnò a contrastare le attività private, soprattutto illegali, che violavano i principi costituzionali.

La Costituzione pretende che chi ricopre funzioni pubbliche debba adempierle con disciplina e onore e che abbia il dovere di essere fedele alla Repubblica, osservando le leggi e soprattutto la Costituzione. Peppino Impastato denunciò pubblicamente le collusioni delle istituzioni con la criminalità e la corruzione nelle amministrazioni locali. La Costituzione prescrive l’obbligo del pagamento delle imposte per concorrere alle spese pubbliche. Peppino Impastato documentò lo spreco di soldi pubblici spesso collegati a interessi mafiosi.

La Costituzione indica il diritto alla libera associazione in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica. Peppino Impastato si candidò al consiglio comunale e fu ucciso durante la campagna elettorale. La Costituzione richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. Aldo Moro e Peppino Impastato furono uccisi perché non derogarono a quei doveri. La loro memoria ci restituisce due significativi percorsi di vita, due esempi da seguire di cittadinanza attiva. A noi il compito di riconoscerli come un padre e un figlio degni della nostra Costituzione.

Fonte: https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/due-destini-che-si-incrociano-alla-luce-della-costituzione

 

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