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Fisco

Come favorire evasori e ricchi

Ci sono molti provvedimenti assai discutibili nella legge di Bilancio presentata al Parlamento dal Governo guidato da Giorgia Meloni: l’innalzamento del tetto del contante a 5'000 euro, l’aumento (da 30 a 60 euro) per i negozianti della soglia per l’obbligo di consentire il pagamento con moneta elettronica, l’incremento (da 65'000 a 85'000 euro) del tetto di reddito per l’applicazione della flat tax al 15% soltanto per i lavoratori autonomi, il condono per tutte le cartelle esattoriali fino a 1'000 euro emesse dal 2000 al 2015, ecc.

È evidente che queste scelte vanno a favore di alcune categorie di cittadini (anzitutto evasori fiscali e lavoratori autonomi) a scapito di tutti gli altri. Di conseguenza sono assai difficili da giustificare. Ad esempio, in quale caso una persona avrebbe la necessità di fare un singolo acquisto del valore di 5'000 euro in contanti? Per quale ragione un lavoratore autonomo con un reddito di 85'000 euro dovrebbe pagare soltanto il 15% di imposta, mentre ad un lavoratore dipendente con uguale reddito si applica un’aliquota fino al 43%? Che cosa dovrebbe pensare il cittadino che correttamente ha pagato il debito delle cartelle esattoriali constatando che chi non l’ha fatto potrà usufruire di un condono e nulla pagherà?

Autorevoli esponenti del Governo hanno dichiarato che questo è soltanto l’avvio di un processo di riforma fiscale. In prospettiva si vorrebbero ridurre (da quattro a tre) le aliquote IRPEF. È curioso come questa proposta venga sbandierata come una novità, facendo finta di non sapere che era già stata prevista lo scorso anno dal documento della Commissione Finanze del Parlamento e dalla legge di Bilancio elaborata dal Governo Draghi. Nel merito non c’è bisogno di essere laureati in matematica per capire che un minore numero di aliquote fiscali determina scaglioni più distanti con minore continuità nella progressività. In altre parole ci sarà meno equità nella distribuzione dell’imposta.

Maurizio Leo, viceministro dell’Economia, ha preannunciato l’introduzione del «quoziente familiare che tiene conto del reddito del nucleo come sommatoria di tutti i redditi applicando poi al denominatore dei coefficienti in base alla numerosità della famiglia» in sostituzione dell’ISEE (Indicatore della Situazione Economica Equivalente), che serve a valutare la reale situazione economica delle famiglie. Forse il viceministro non sa che il valore dell’ISEE è già stabilito in base al quoziente familiare. C’è però una differenza fondamentale: l’attuale ISEE tiene conto sia dei redditi sia dei patrimoni, invece il quoziente familiare fa riferimento soltanto ai redditi. Di conseguenza, chi vive di rendita (e non lavora) sarà avvantaggiato, mentre chi non ha proprietà e dispone soltanto di redditi verrà penalizzato.

Il 20 novembre scorso ricorreva il cinquantesimo della morte di Ennio Flaiano. Una delle sue battute resta sempre attuale: «La situazione politica in Italia è grave ma non è seria».

Flat tax e gettito fiscale: dalle promesse alla realtà

Si fa presto a dire “flat tax”. Ma di che cosa stiamo parlando?

Ci sono almeno tre tipi di flat tax.

  1. Quella americana. L’ideologo della flat tax è Milton Fridman, l’economista americano che nel dopoguerra propose la flat tax con lo scopo di evitare le disparità di imposizione fiscale, poiché ogni categoria di contribuenti cercava di ottenere un trattamento di favore, ovviamente a scapito degli altri. In altre parole la proposta della flat tax è nata perché tutti i contribuenti fossero eguali davanti alla legge fiscale. In realtà negli Stati Uniti la flat tax non è mai stata introdotta. La legislazione vigente prevede un sistema fiscale progressivo sia per i redditi delle persone fisiche sia per le imprese con sette scaglioni con aliquote diverse (in Italia sono soltanto quattro aliquote per i redditi personali e una flat tax per i redditi d’impresa).

  2. Quella italiana. La flat tax esiste già per i redditi d’impresa (IRES) con un’aliquota al 24%, indipendentemente dall’ammontare dell’utile d’impresa. Inoltre da anni era già stata introdotta soltanto per i lavoratori autonomi con redditi fino a 30'000 euro. Con la legge di bilancio per l’anno 2019, il primo governo Conte, sostenuto da Lega e Movimento 5 stelle, l’ha estesa alle partite IVA fino a 65'000 euro. Il risultato è che si è creata una grande disparità di trattamento (cioè l’esatto contrario di quanto intendeva ottenere Milton Fridman), tra lavoratori autonomi e dipendenti. Infatti, attualmente una partita IVA con reddito di 65'000 euro versa in totale 9'750 euro di imposta sul reddito (15%). Un lavoratore dipendente, considerando anche le addizionali regionali e comunali, paga oltre 22'000 euro di imposte (34%). Il programma della coalizione di centrodestra per le elezioni del 25 settembre prevede un ulteriore estensione della flat tax alle partite iva fino a 100'000 euro. Se fosse attuato questo proposito, la differenza di tassazione sarebbe ancora più marcata. Un lavoratore autonomo con reddito di 100'000 euro pagherebbe 15'000 euro di imposta (15%), mentre un dipendente dovrebbe versare oltre 38.000 euro (38%). Dove sarebbe l’equità?

  3. Quella norvegese. In Norvegia la flat tax ad esempio viene applicata alle contravvenzioni al codice della strada. Mentre in Italia tutti gli automobilisti pagano la medesima sanzione per un divieto di sosta, in Norvegia si paga in proporzione alla capacità contributiva. Di conseguenza è accaduto che Katharina Andresen, la donna più ricca della Norvegia (patrimonio stimato di 1,23 miliardi di euro), essendo stata stata fermata in auto con valori alcolici elevati, ha dovuto pagare una multa di 25'000 euro e ha chiesto pubblicamente scusa per l’accaduto. Tutto ciò non è bastato: diversi media norvegesi hanno polemizzato per questo provvedimento, poiché – a loro avviso – la sanzione era troppo blanda, dato che la Andresen avrebbe potuto contribuire in modo più sostanzioso.

È del tutto evidente che - prescindendo per un momento da eventuali rilievi costituzionali - una flat tax, per essere presa seriamente in considerazione, dovrebbe essere applicata a tutti, come aveva ipotizzato Milton Fridman. Gli economisti Massimo Baldini e Leonzio Rizzo in uno studio pubblicato sull’autorevole sito lavoce.info hanno calcolato a quanto ammonterebbe la diminuzione delle entrate fiscali dovute ad una applicazione generalizzata della flat tax: 58 miliardi di euro. Ammesso - ma per nulla concesso – che l’adozione di una flat tax per tutti i contribuenti riesca a recuperare tutta l’evasione fiscale dell’imposta sui redditi (38 miliardi di euro), resta da spiegare dove si andrebbero a reperire 20 miliardi di euro (come minimo) di mancato gettito ogni anno.

La flat tax estesa a tutti in teoria avrebbe sicuramente il vantaggio della semplificazione. Per tutti si applicherebbe la medesima percentuale (il 15%). Ma non è questa la proposta della Lega. Infatti in Parlamento è stato depositato il disegno di legge n. 1831 in data 20 maggio 2020 (primi firmatari Siri e Salvini), sulle “Disposizioni in materia di Flat Tax per le famiglie fiscali e di riduzione dell’Irpef e dell’IRES per il rilancio dell’economia e della semplificazione. Implementazione della Fase II e della Fase III dell’introduzione della Flat Tax”. Si tratta di un sistema assai complesso di calcoli, con scaglioni e deduzioni, con fasi diverse di attuazione. Non solo: è prevista una clausola di salvaguardia, per la quale è sempre possibile optare per il regime fiscale attuale “qualora l’imposta sostitutiva determinata secondo le disposizioni del presente capo risulti superiore”. Insomma, una flat tax che semplice sicuramente non è.

Tornando all’Italia è il caso di ricordare il testo dell’art. 53 della Costituzione: “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”. Durante l’Assemblea Costituente, Salvo Scoca, il relatore di questo articolo, spiegò: "L’attuale sistema tributario è regolato dall’art. 30 dello Statuto Albertino e basato sul criterio di proporzionalità (…), il che costituisce una grave ingiustizia che danneggia le classi sociali meno abbienti e da correggere in sede di calcolo del reddito complessivo, netto, da quelle spese che provvedono alle loro necessità personali e a quelle dei suoi famigliari, essendo queste, spese che concorrono a formare la loro capacità contributiva, così da colpire il reddito nella sua reale misura, applicando una progressività tale che diventi la spina dorsale del nostro sistema tributario". Parole sagge, che i sostenitori della flat tax ignorano o preferiscono ignorare.


 

Flat Tax, l’illusionismo del centro destra

A poco più di un mese dal voto i partiti politici iniziano a parlare delle loro proposte economiche per il Paese, Rocco Artifoni ha illustrato nel suo recente articolo del 16 agosto scorso, “Favole, soltanto favole elettorali…” (in https://www.laportadivetro.org/wp content/uploads/2022/08/model_artifoni3.pdf), l’accordo quadro di programma “Per l’Italia” per un governo di centro destra. Il fisco rimane il focus delle controversie politiche, come già dimostrato dal tormentato iter parlamentare, ancora non concluso, della delega fiscale. Al centro del dibattito resta la “flat tax” (tassa piatta), storica bandiera della Lega, ma ora recepita (con diverse modalità di attuazione) anche nel programma dell’intera coalizione.

La proposta rappresenta il punto cardine su cui far leva per convincere gli elettori italiani della bontà di tale proposta. Nel programma non viene però specificata l’aliquota della “tassa piatta”: Forza Italia ha proposto il 23% per tutti (“quando saremo al Governo applicheremo la flat tax al 23% per tutti”, ha dichiarato Berlusconi in un video postato su Instagram); la Lega rilancia la percentuale del 15% così come è applicata già oggi con il regime forfettario (dal 5 al 15 per le partite IVA con reddito fino a 65.000 Euro), da estendere fino ai redditi di 100.000 euro; Fratelli d’Italia avanza l’ipotesi della “tassa piatta” solo sulla parte di reddito che supera quello dell’anno precedente all’interno di un sistema fiscale a tre aliquote: 23% fino a 15.000 euro, 27% da 15.001 a 50.000 euro e 43% sopra 50.000 euro.

I rischi della “tassa piatta”

È del tutto evidente che il centro destra italiano non ha ancora trovato un accordo definitivo in materia di fisco, anche se è concorde sul fatto che la tassa piatta ridurrebbe, oltre che la pressione fiscale, anche l’evasione. Come ha dichiarato il parlamentare della Lega Claudio Borghi, già presidente della 5° Commissione bilancio della Camera, “gli imprenditori anziché delocalizzare la loro attività in paesi a tassazione più bassa resterebbero in Italia”.

Tesi, purtroppo, smentita dai fatti, perché nei paesi europei dove la tassa piatta è già legge – come la Romania, Bulgaria, Ungheria, l’Estonia – (paesi in via di sviluppo e a basso reddito, passati all’economia di mercato con la dissoluzione dell’Urss) l’evasione fiscale oggi resta molto elevata e non sembra tendere al ribasso. Inoltre tale sistema fiscale ha premiato chi guadagna di più e ha penalizzato chi guadagna di meno, al contrario di quanto accade con una tassazione progressiva (che aumenta con l’aumentare del reddito).

L’idea della tassa piatta ha spopolato negli anni dall’80 al ’90 nei paesi più industrializzati, soprattutto negli Stati Uniti per l’influenza esercitata dall’economista Milton Friedman, esponente di punta della celebre scuola di Chicago e del pensiero liberista. Ma nessuna delle amministrazioni statunitensi scelse quella strada: il carico fiscale fu solo ridotto del 50% sui redditi medio alti, lasciando in eredità un enorme debito pubblico. Negli Usa, l’applicazione della flat non ha trovato applicazione, nemmeno nell’amministrazione Trump con la riforma fiscale del 2017.

Le iniziative a metà del ministro Tremonti

Anche in Italia non ebbe maggior fortuna. Il tentativo del ministro Tremonti con la legge delega del 2003 – allora il centro destra aveva la maggioranza assoluta nei due rami del Parlamento – naufragò perché non furono mai approvati i decreti attuativi ma, principalmente, perché la sua introduzione avrebbe provocato una riduzione del gettito fiscale non compatibile con un debito pubblico che allora già superava il 100% del PIL. In pratica, non ci credeva nemmeno il Governo di allora.

Il punto vero, in effetti, rimane l’attuazione della tassazione, secondo i precetti del centro destra, che non ha mai chiarito come rispondere ai quesiti finanziari, ovvero con quali e quanti soldi si ripromette di soddisfare le costose promesse elettorali contenute nel suo programma. Inoltre non dice che sarebbe necessario agire, in alternativa, su una riduzione delle spese obbligatorie dello Stato come pensioni, interessi sul debito pubblico, sanità e scuola. La stima del costo della sua applicazione sarebbe per l’economista Tito Boeri, di circa 80 miliardi all’anno. Secondo le stime della “Lavoce.info”, per mantenere l’attuale gettito fiscale i redditi degli italiani dovrebbero quasi raddoppiare, cosa improbabile che avvenga nel volgere di poco tempo.

L’unica fonte di finanziamento – non dichiarata – diventa il ricorso al debito pubblico. Una riforma strutturale deve trovare copertura finanziaria in modo strutturale altrimenti la gestione del bilancio dello Stato diventa paragonabile a quella di un bilancio familiare che si indebita ogni volta che bisogna fare la spesa. Quindi non può essere sostenibile.

Ciò che il “tridente” non dice

La proposta contenuta nell’accordo di programma del centro destra non si presenta credibile, a meno che si voglia tagliare la spesa sociale, comprese le deduzioni e detrazioni fiscali per le spese sanitarie straordinarie e per i disabili e anche tutte le molteplici spese fiscali che rappresentano il risultato di favori tra gruppi influenti e governi. Ma ciò non è scritto nel programma che unisce il “tridente” Berlusconi, Salvini e Meloni, pur con i distinguo di cui sopra, perché vorrebbe dire perdere buona parte del consenso elettorale.

In sostanza, le proposte ricalcano non tanto quello che si propongono di fare quei partiti, ma quello che gli stessi partiti pensano sia il volere degli italiani. E le proposte diventano sempre più populiste e mediocri: meno tasse e meno obblighi per tutti, più servizi e diritti per tutti. Devono essere condivisibili dalla maggior parte degli elettori per calamitare più voti possibili. Salvo poi, una volta al governo del Paese, tradire tali promesse senza nemmeno giustificarsi.

Gli italiani hanno la memoria corta. La metafora più infantile della politica, falsa e diseducativa, ripetuta in maniera ossessiva e propagandistica dal centro destra – “Non metteremo le mani nelle tasche degli italiani” – stride di certo con quella del ministro Padoa Schioppa, (2007), realistica quanto un po’ infelice nella sua enunciazione – “Le tasse? Bellissime” – però ha un merito indiscutibile: ci riporta a un non troppo lontano passato in cui il Paese si ritrovò sull’orlo del fallimento finanziario, salvato in extremis da un governo tecnico. Ma deve anche ricordarci che le mani del fisco sono sempre state messe nelle stesse tasche: quelle di lavoratori dipendenti e pensionati, su cui si regge la spesa dello Stato.

Fonte: https://www.laportadivetro.org/flat-tax-lillusionismo-del-centro-destra/

Dopo trent’anni l’Anagrafe dei rapporti finanziari, finalmente, verrà utilizzata in funzione antievasione. Rischi e opportunità.

L’Anagrafe dei rapporti finanziari è una banca dati di notevoli dimensioni contenente i dati, identificativi e contabili, di tutti i soggetti titolari di rapporti di conto corrente o di deposito.

La sua realizzazione è stata prevista già nel lontano 19911, previa adozione di un decreto ministeriale da emanarsi entro i successivi sessanta giorni. Il decreto di attuazione, in realtà è stato adottato dopo circa dieci anni2 (2000). Tale decreto, peraltro, non ha trovato sin da subito concreta attuazione; sicché si è dovuto attendere ulteriori sei anni3 (2006) per la previsione, in capo agli intermediari, dell’obbligo di comunicazione dei dati all’Anagrafe tributaria, per la conseguente archiviazione in un’apposita sezione. 

Ma non finisce qui. Sono passati altri quattro anni4 (2011) prima di giungere alla espressa previsione dell’utilizzo di tali informazioni per l’elaborazione di specifiche liste selettive di contribuenti a maggior rischio di evasione. L’onere di elaborare le liste è stato affidato all’Agenzia delle Entrate, che contestualmente è stata incaricata anche di predisporre una relazione annuale alle Camere con la quale comunicare i risultati relativi all’emersione dell’evasione. 

La previsione di elaborare le liste, però, per i successivi sei anni (2017) è rimasta totalmente disattesa. Tale circostanza ha fatto perdere la pazienza anche alla Corte dei conti, allorquando il 18 settembre 2017, in una relazione avente per oggetto “L’utilizzo dell’Anagrafe dei rapporti finanziari ai fini dell’attività di controllo fiscale”, ha dichiarato: “a distanza di oltre due anni dalle modifiche introdotte con la legge di stabilità per il 2015, e di oltre cinque anni dall’obbligo di elaborare liste selettive, nessun contribuente è stato selezionato attraverso lo strumento dell’Archivio dei rapporti finanziari quale soggetto a maggior rischio di evasione, né è stata ancora avviata la fase sperimentale, sicché non v’è dubbio che la norma sia stata totalmente disattesa dall’Agenzia. Il che spiega l’ulteriore omissione rispetto al dato normativo (…), ove si prevede che l’Agenzia delle entrate trasmetta alle Camere una relazione con la quale sono comunicati i risultati relativi all'emersione dell’evasione a seguito dell’applicazione delle disposizioni di cui trattasi. Tale relazione, prevista con cadenza annuale, in realtà non è mai stata predisposta, omettendo così di dare attuazione a un chiaro disposto normativo. Deve, altresì, prendersi atto che il Ministro dell’economia e delle finanze, pur titolare dei poteri di indirizzo e vigilanza, non è mai intervenuto attraverso specifiche indicazioni affinché l’Agenzia provvedesse, prima, ad elaborare le liste selettive e, poi, ad effettuare analisi del rischio evasione, nonché a riferire al Parlamento, come dovuto per espressa previsione normativa. Si ritiene necessario, quindi, che il Ministro provveda ad esercitare le sue prerogative per porre rimedio alle riferite inadempienze. (…) Quel che appare palese è il chiaro sottoutilizzo dello strumento per finalità tributarie e di lotta all’evasione da parte dell’Agenzia delle entrate (…) In definitiva, non è mai stato realizzato, né pare sia imminente, un utilizzo massivo dell’ingente mole di dati presenti nell’Anagrafe relativa alle disponibilità finanziarie”.

Le straordinarie potenzialità dell’Anagrafe dei rapporti finanziari emersero agli addetti ai lavori già nel 2016, in occasione della pubblicazione del Rapporto relativo alla situazione economica degli italiani che avevano richiesto l’ISEE l’anno precedente. 

Infatti, nel 2015, per la prima volta, i richiedenti l’ISEE si trovarono a fare i conti con le nuove regole di compilazione, secondo le quali i saldi dei conti correnti e dei depositi vennero attinti a cura dell’Amministrazione finanziaria dall’Anagrafe dei rapporti. Pertanto, ai richiedenti l’ISEE non rimaneva altro che confermare gli importi precompilati. Ebbene, quell’anno le dichiarazioni ISEE con patrimonio nullo passarono da quasi il 70% al 16%. Nel mezzogiorno, addirittura, dal 90% al 20%. 

L’impatto sul Welfare, come è facile immaginare, fu enorme: la drastica riduzione del numero dei nullatenenti facilitò l’accesso alle prestazioni sociali a coloro che ne avevano effettivamente bisogno, escludendo tutti gli altri.

Nonostante le sue enormi potenzialità, in tutti questi anni l’Anagrafe dei Rapporti finanziari è stata utilizzata quasi esclusivamente nei confronti dei richiedenti le prestazioni sociali e assistenziali; ovverosia, per separare i falsi poveri dai veri poveri (o “poveri congrui”, cioè coloro la cui situazione patrimoniale riflette la condizione di povertà emergente dal modello ISEE). 

Se lo strumento dell’Anagrafe dei Rapporti fosse stato utilizzato sin dal 1991 per contrastare l’evasione fiscale, che ogni anno vale cento miliardi, forse oggi non ci si troverebbe nella situazione in cui il 10% della popolazione italiana detiene il 48% della ricchezza nazionale. Ma questo è un altro discorso.

Le motivazioni, al quanto discutibili, per le quali l’Anagrafe dei rapporti finanziari non è stata usata per contrastare l’evasione fiscale erano basate sulla convinzione che l’utilizzo dell’Anagrafe per fini antievasione avrebbe compromesso il diritto alla privacy dei contribuenti. Affermare ciò equivale a dire che gli interessi dello Stato a ricercare gli evasori retrocedono di fronte al diritto alla privacy dei contribuenti, compresi gli stessi evasori. 

Ma le cose ultimamente stanno cambiando. Si è trovato il modo di superare le succitate esigenze di privacy e, pertanto, l’anagrafe verrà utilizzata, finalmente, anche per contrastare l’evasione fiscale. Il Ministero dell’Economia e delle Finanze, dopo avere acquisito le indicazioni del Garante della Privacy, ha pubblicato in Gazzetta Ufficiale (n. 152 dell’1 luglio) il D.M. 28 giugno 2022 attuativo della disposizione5 relativa al trattamento dei dati contenuti nell'archivio dei rapporti finanziari. 

A mente del decreto, l’amministrazione finanziaria per il perseguimento delle finalità di prevenzione e contrasto all’evasione e all’elusione fiscale, “applicando tecniche e modelli di analisi coerenti con i criteri di rischio prescelti, verificherà la presenza di rischi fiscali”. Successivamente, “nei confronti delle posizioni fiscali dei contribuenti, caratterizzate dalla ricorrenza di uno o più rischi fiscali, potranno essere avviate le attività di controllo ovvero le attività volte a stimolare l'adempimento spontaneo6”. 

In sostanza, l'Agenzia delle Entrate e la Guardia di Finanza potranno controllare tutti gli accrediti che arrivano sul conto corrente per accertarsi che queste somme siano state inserite nella dichiarazione dei redditi, in caso contrario il contribuente verrà invitato all’adempimento spontaneo ed eventualmente sanzionato. 

Le criticità, inizialmente sollevate relativamente al trattamento dei dati personali, verranno superate in quanto in una prima fase istruttoria i dati raccolti in relazione a possibili anomalie saranno associati a un codice, senza svelare il nome del contribuente interessato, e solo in una seconda fase potrà essere reso visibile il nominativo reale. In questo modo, i dati che verranno raccolti rispettano le procedure per la pseudo-anonimizzazione dei dati, richieste dal Garante della privacy.

Come mai solo oggi è stato possibile bypassare le esigenze di privacy? 

Il cambio di direzione non è dovuto ad una maggiore attenzione alla lotta all’evasione, bensì alle esigenze di attuazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Infatti, nel quadro della “Riforma dell’Amministrazione fiscale” del PNRR, la “Missione 1” prevede una serie di riforme volte a contrastare l’evasione fiscale, ed in particolare l’omessa fatturazione. 

Il PNRR dice che l'Italia, entro il 2024, deve ridurre il tax gap al 15,8% rispetto al 18,5% del 2019, significa 12 miliardi di evasione in meno. Per raggiungere questo risultato il Governo dovrebbe mandare ai contribuenti almeno il 20 per cento in più di lettere di compliance.

Dunque, a questo risultato della lotta all’evasione sono legati i finanziamenti europei previsti dal Piano di Ripresa e Resilienza, dei quali all’Italia spetta la fetta più grande, circa duecento miliardi di euro. In altre parole, l’Italia per incassare 200 miliardi deve recuperarne almeno 12 con la lotta all’evasione. 

Sulla destinazione che prenderanno i 200 miliardi previsti dal PNRR non ci sono grossi dubbi. I piani dei singoli Paesi dovranno concentrarsi su aree specifiche, come efficienza energetica, digitalizzazione della Pubblica Amministrazione, istruzione, trasporto sostenibile. Dunque, i primi a beneficiare dei soldi del PNRR saranno i rappresentanti del partito degli appalti pubblici, costituito dalle imprese e dal capitale privato, che finanzierà direttamente i vari progetti volti a creare un Paese più green e più digitale. E solo successivamente ne beneficeranno anche tutti gli altri: i pensionati, i lavoratori dipendenti, le partite Iva, ecc...- perché si ritroveranno a vivere in un Pese più green e più digitale. 

Qualche dubbio, invece, sussiste in relazione ai destinatari delle lettere di compliance, coloro che dovranno sborsare al fisco i dodici miliardi necessari per incassarne duecento. Si spera che non siano i soliti: i pensionati, i lavoratori dipendenti e la maggior parte delle partite iva, categorie queste che attualmente stanno pagando un prezzo altissimo a causa della guerra e della pandemia. 

Quale criterio utilizzare per individuare le posizioni a più elevato rischio di evasione?

L’amministrazione finanziaria dovrebbe preliminarmente operare una distinzione tra chi pratica un’evasione di galleggiamento -cioè, chi annaspa per stare a galla- e chi evade e ricicla i proventi dell’evasione in beni mobili e immobili e in attività commerciali. 

L’evasione di galleggiamento, per certi aspetti, è strutturale al sistema fiscale italiano, in quanto necessaria per compensare l’assenza di politiche di welfare simili a quelle di altri paesi del nord Europa. 

A preoccupare, dunque, è la cecità di un algoritmo che processa i dati in maniera del tutto asettica. A ciò si aggiunga il premio di produttività che i funzionari dell’amministrazione finanziaria maturano al raggiungimento di determinati obiettivi. Si tratta di una posta molto appetitosa (vale diverse migliaia di euro) che potrebbe incentivare i rilievi indiscriminati e/o le contestazioni temerarie. 

Premesso quanto sopra, sarebbe sbagliato e anche pericoloso, stante l’aumento dei suicidi per motivi economici, “sparare nel mucchio”, usando come unico presupposto per l’invio delle lettere di compliance l’accredito sul conto di somme di denaro di dubbia provenienza; in questo modo si rischia di “colpire” anche chi è già in serie difficoltà economiche. 

Pertanto, prima di “sparare”, l’amministrazione finanziaria dovrebbe perimetrare una “zona di caccia”, che a parere di chi scrive dovrebbe coincidere con tutte quelle posizioni fiscali il cui patrimonio, per dimensioni e struttura, risulta incompatibile con i redditi dichiarati al fisco nel più lungo arco di tempo consentito dagli archivi dell’Anagrafe tributaria.

Intendo dire che il faro dell’Anagrafe dei Rapporti finanziari, che fino ad oggi è rimasto puntato sui “poveri congrui” (cioè, è servito per individuare coloro la cui situazione patrimoniale riflette lo stato d’indigenza), dovrebbe spostarsi sui “ricchi incongrui” (cioè, coloro la cui situazione patrimoniale appare incongrua rispetto ai redditi dichiarati). 

Questa è la “zona di caccia” (le posizioni a più elevato rischio di evasione) all’interno della quale l’amministrazione finanziaria dovrebbe “sparare” (concentrare le sue attività volte a stimolare l'adempimento spontaneo). 

Post scriptum

È curioso che a temi così importanti per la vita degli elettori non venga dato alcuno spazio nei dibattiti elettorali in corso. Ma anche questo, forse, è un altro problema.


1) Con l’art. 20, c. 2, lett. b) della l. 30 dicembre 1991, n. 413, “Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini (nonché misure di rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore bancario)” - Spending review.

2) D.m. 4 agosto 2000, n. 269 “Regolamento istitutivo dell'Anagrafe dei rapporti di conto e di deposito”, previsto dall'art. 20, c. 4, della l. 30 dicembre 1991, n. 413.

3) Con l’art. 37 del d.l. 4 luglio 2006, n. 223, convertito con modificazioni dalla l. 4 agosto 2006, n. 24813, è stato ulteriormente modificato l’art. 7 del d.p.r. n. 605/1973.

4) Con l’art. 11, c. 2, del d.l. n. 201/2011.

5) Art. 1, comma 683, legge n. 160/2019.

6) Art. 1, comma 1, lettere f) e g), D.M. 28 giugno 2022.

L’equità orizzontale nella riforma fiscale

Il 29 ottobre 2021 il Ministro dell’Economia presentava alla Camera dei Deputati il disegno di legge di “Delega al Governo per la riforma fiscale”. L’incipit del Documento, rivolto agli Onorevoli Deputati recitava, tra l’altro: “La riforma fiscale è tra le azioni chiave individuate nel Piano nazionale di ripresa e resilienza per dare risposta alle debolezze strutturali del Paese e in tal senso costituisce parte integrante della ripresa che si intende innescare anche grazie alle risorse europee”.

Il Documento (Atti Parlamentari - Camera dei Deputati n. 3343 - XVIII Legislatura – Disegni di legge e relazioni) nell’illustrare in sintesi il contenuto dell’iniziativa legislativa, si soffermava sui primi due articoli che riguardavano rispettivamente la Delega al Governo per la revisione del sistema fiscale e la relativa procedura (Art. 1) e i principi e criteri direttivi per la revisione del sistema di imposizione personale sui redditi (Art. 2).

Tale ultimo sistema avrebbe dovuto progressivamente evolvere verso un modello di tassazione duale, con la previsione di una medesima aliquota proporzionale di tassazione, sia sui redditi derivanti dall’impiego del capitale (anche nel mercato immobiliare) sia sui redditi direttamente derivanti dall’impiego del capitale nelle attività di impresa e di lavoro autonomo svolte da soggetti diversi da quelli a cui si applica l’imposta sul reddito delle società (IRES).

Corollario, ma non marginale, il rispetto del principio costituzionale (Art. 53) di progressività dell’imposizione sui redditi delle persone fisiche, e di alcuni criteri direttivi quali la riduzione graduale delle aliquote medie effettive per incentivare l’offerta di lavoro a favore dei giovani, la graduale riduzione degli scostamenti eccessivi delle aliquote marginali effettive derivanti dall’applicazione dell’IRPEF.

Nella sostanza il Disegno di Legge era stato concepito su un principio cardine che prevedeva l’abbandono, in quanto ritenuto impraticabile, anche in maniera formale, della progressività delle aliquote fiscali applicate all’intero reddito complessivo personale comunque conseguito per assoggettare ad una medesima aliquota proporzionale i redditi derivanti dal capitale (immobiliare, finanziario, impresa) e mantenendo una tassazione progressiva sui soli redditi di lavoro e di pensione.

Scelta, quest’ultima, ritenuta discutibile sul fronte dell’equità, come più volte è stato scritto su queste pagine, ma comunque meritevole di attenzione per il solo fatto che si proponeva almeno di razionalizzare un sistema di imposizione personale molto frammentato, unificando i diversi regimi sostitutivi fiscali attualmente in vigore. Ci sono voluti quasi otto mesi di lavori parlamentari per l’approvazione, con una serie di modifiche, da parte della Camera dei Deputati del disegno di legge, inviato il 22 giugno all’esame del Senato.

Il confronto tra i due testi del disegno di legge, quello originario e quello licenziato dalle Camere, denuncia, dopo il primo passaggio parlamentare, non solo un drastico ridimensionamento dell’intenzione riformatrice, ma evidenzia anche delle palesi contraddizioni tra i due articoli: il sistema di tassazione “duale” è morto ancora prima di nascere perché non solo rimangono vivi e vegeti gli attuali regimi cedolari ai redditi di capitale, distinti tra redditi mobiliari e immobiliari, (Art. 2 c. 1 lettera a) ma si introduce un ulteriore nuovo regime sostitutivo (Art. 2 c. 1 lettera b) con la previsione di un’imposta opzionale e sostitutiva delle imposte sui redditi per alcuni contribuenti – persone fisiche – esercenti attività di impresa sottoposti al regime forfettario.

All’Art. 1 comma 1) lettera c) che recitava nel testo inviato alla Camera: “preservare la progressività del sistema tributario” è stato aggiunto: “e garantire il rispetto di equità orizzontale”. Testo che contrasta con gli appena citati dispositivi dell’art. 2 del disegno di legge riscritto dalla Camera, dove sono mantenuti ma anche ampliati gli attuali regimi sostitutivi che sottraggono redditi alla progressività dell’imposizione fiscale e che violano, con tutta evidenza il principio del rispetto dell’equità orizzontale. Il principio dell’equità orizzontale, nell’economia pubblica, riguarda le modalità di distribuzione del carico fiscale tra i contribuenti e prevede che individui con la stessa capacità contributiva siano tassati in maniera uguale.

Considerando l’attuale regime fiscale, per un reddito di 50'000 € annui derivante da lavoro dipendente o da pensione, l’onere fiscale è calcolato in 14'400 €, con una aliquota fiscale pari al 28,8%; lo stesso reddito derivante dal patrimonio immobiliare potrà essere calcolato con due aliquote: 10% e 21% a seconda della tipologia contrattuale. In questo caso il prelievo sarà rispettivamente di 5'000 € e di 10'500 €. Se consideriamo ancora lo stesso reddito, ma proveniente da attività finanziarie (titoli, azioni, fondi, interessi su c/correnti, etc.) vediamo che nel caso di possesso di titoli di Stato il prelievo sul loro rendimento sarà del 12,50% e nel caso delle altre attività, del 26%, pari rispettivamente a 6'250 € e a 13'000 €.

In ultimo, un lavoratore autonomo soggetto a partita IVA per lo stesso reddito potrà optare per una aliquota del 5% - per i primi 5 anni – e del 15% (flat tax) se inferiore ad una data soglia (attualmente 65'000 €) con un prelievo fiscale di 2'500 € nel primo caso e di circa la metà di quello di un lavoratore dipendente, nel secondo caso, ovvero 7'500€.
Se uno dei principali obiettivi della riforma fiscale era stato individuato nella riduzione della tassazione sui redditi di lavoro, obiettivo recentemente raccomandato anche dall’Unione Europea, la direzione intrapresa dal Parlamento non pare vada nella stessa direzione. Il compito del legislatore delegato rischia dunque di presentarsi di difficile realizzazione nel caso in cui anche il Senato licenziasse il testo così come è stato approvato dalla Camera dei Deputati.

Dal resoconto sommario del 6 luglio 2022 del parere approvato dalla XI Commissione permanente del Senato sul Disegno di Legge n. 2651 (ex atto 3343 Camera dei Deputati) sembrerebbe che l’Assemblea del Senato sia orientata ad un ritorno al cosiddetto sistema “duale” perché si legge, tra l’altro: “Infine, allo scopo di garantire il principio di equità orizzontale all'interno del sistema fiscale, si auspica l'introduzione di un ulteriore criterio di delega all'articolo 2, onde favorire la riduzione delle disparità di trattamento causate dall'applicazione di aliquote medie e marginali diverse a fronte dello stesso ammontare di reddito, qualora derivi da lavoro dipendente, autonomo o da pensione”.

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