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Lo stato migliore non è quello dove sono le leggi migliori, ma quello dove sono gli uomini migliori.
(A. Genovesi, 1765)

Non ne posso più. Sono stanco di sentire ogni giorno persone che se la prendono con la classe politica.

Tutti pronti a formare il plotone d’esecuzione contro i ladri e i corrotti che stanno al potere. Come se fossero stati messi lì per volontà divina, anziché popolare. Sembrerebbe che nessuno li abbia eletti, nessuno li abbia votati, nessuno li abbia sostenuti. Eppure non mi sembra che i parlamentari, i ministri, i governatori delle regioni, i presidenti delle province, i sindaci, insomma tutti i politici, siano arrivati nelle “stanze dei bottoni” per diretta discendenza reale. E non vale la scusa che ci è stato tolto il voto di preferenza, sia perché questo accade soltanto per le elezioni politiche, ma anche perché quelli che hanno eliminato le preferenze erano stati eletti con le preferenze. Quindi?

Quindi smettiamola con questa ipocrisia. Abbiamo la classe politica che ci meritiamo, quella che abbiamo scelto, quella che abbiamo voluto. È quella che ha creato un gigantesco debito pubblico, quella che ha tollerato gli evasori fiscali, quella che ha incentivato i condoni edilizi e fiscali, quella del sistema delle tangenti e della corruzione, quella che è scesa a patti con le mafie, quella che promuove e pubblicizza i giochi d’azzardo, quella che ha cementificato il territorio, quella che ha consentito l’abusivismo edilizio, quella che ci ha portati sull’orlo del baratro, in questa situazione di degrado, di incertezza sul futuro. Questa classe politica l’abbiamo eletta e rieletta noi, negli ultimi 30 anni. E purtroppo ci assomiglia tantissimo: ha tutti i nostri vizi, amplificati dal potere.

E allora dovremmo metterci in ginocchio e recitare il “mea culpa”. Dovremmo riconoscere quanto siamo stati ignoranti e stolti. E per quanto tempo abbiamo continuato a ripetere clamorosi errori. E invece la storia non ci ha insegnato nulla. Siamo prontissimi a trovare il capro espiatorio nella classe politica. E alle prossime elezioni finiremo ancora per eleggere qualcuno, che molto probabilmente non sarà molto diverso dai precedenti. E così potremo sempre dare la colpa a quel qualcuno, se i conti non torneranno o se le cose andranno male. Insomma, siamo pronti a continuare nei nostri errori, come prima, anzi più di prima. Adesso abbiamo anche quell’arroganza dell’uomo della strada che si erge a paladino morale contro l’immoralità del potere. Sempre pronti a scagliare la prima pietra contro chi fino al giorno prima abbiamo utilizzato per tutelare i nostri interessi privati, anzi privatissimi.

Se vogliamo ridare dignità alla parola politica, cominciamo con un profondo esame di coscienza. Rivalutiamo la parola “aristocrazia”, che vuol dire “il governo dei migliori”, selezionando seriamente i candidati, sottoponendoli ad un severissimo esame preventivo (adesso per decidere le sorti del Paese non viene richiesto nulla, non è necessario dimostrare niente). Pretendiamo che ogni candidato ci spieghi per filo e per segno che cosa ha fatto di buono nella vita. Smettiamola di andare a votare senza conoscere la Costituzione (chi di noi darebbe un punteggio ad un calciatore senza conoscere nemmeno le regole del gioco del calcio?). Rendiamoci conto che la politica senza partecipazione non ha senso e diventa arbitrio del potere.

Occorre fare politica in prima persona ogni giorno, nel quartiere, nella scuola o in qualsiasi altro contesto. Solo allora potrebbe avere un senso esercitare il diritto di voto. Non oggi. Perché oggi le critiche alla politica servono soltanto come conferma della nostra irresponsabilità collettiva. Basti ricordare il debito pubblico, che pesa soprattutto sulle spalle dei nostri figli: già soltanto per questo dovremmo essere condannati. A pagarlo, subito, prima che sia troppo tardi. Invece, oggi si levano molte voci per dire che il debito non deve essere corrisposto, perché è lo Stato che è indebitato e perciò lo paghi lo Stato. Come se lo Stato non fosse l’organizzazione dei cittadini di questa Repubblica. Perciò dobbiamo riprenderci il senso autentico dello Stato e del sistema tributario, quello per cui “fiscus” significa “cesto” in cui ciascuno contribuisce secondo le proprie possibilità. Dove le tasse sono lo strumento civile della solidarietà e l’evasione fiscale un furto che sottrae risorse a tutti.

E per la politica lo scenario è identico: dobbiamo tentare di ridarle dignità. Per questo occorre che quasi tutti facciano molti passi indietro. Scegliamo di essere rappresentati dai saggi, dai giusti e dai profeti. Ce ne sono ancora. Andiamo a cercarli con la lanterna, anche se piove e fa freddo. Talvolta mi chiedono: e tu chi sceglieresti per governare? Io lo saprei bene. Posso fare l’elenco di alcune valide persone che metterei nei posti chiave. Persone che hanno già dimostrato con la vita di tenere molto di più al bene comune e ai più poveri che a se stessi e ai propri interessi. Io ne conosco tanti. E sono convinto che ognuno ne conosca qualcuno. Promuoviamo questi, quelli migliori di noi. Mi sembra l’unico modo coerente per smetterla di ripetere per l’ennesima volta la solita litania contro una classe politica impresentabile. O no?

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