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Data la mia età, assediata dalla strategia utilizzata dal Covid-19 nel decimare la nostra “riverita specie”, mi permetto di ricorrere a qualche cenno biografico per condividere con i giovani un breve ricordo del 25 aprile, festa della Liberazione.

C’ero anch’io

Avevo 9 anni, il 25 aprile del 1945, quando fui svegliato da un rombo di un corteo di carri armati, che passavano a cinquecento metri dalla casa in cui ero sfollato con la famiglia, sull’argine del Po, nella bassa reggiana. Ci riempiva di curiosità e di emozione il vociare concitato dei contadini che dicevano che era vero, che la guerra era finita davvero, e non come il 25 luglio del 1943, quando “era andato giù il Duce”, o l’8 settembre, quando Badoglio aveva annunciato l’armistizio con gli americani, ma poi se n’era scappato a Brindisi col Re, lasciando l’esercito italiano allo sbando, e dicendo che la guerra continuava. In aprile gli americani erano venuti sul serio a liberarci, perché tutti me lo dicevano, anche se io non avevo le idee molto chiare in proposito. 

C’era un sole radioso, perfino accecante, con l’aria fine e trasparente che si trova assai di rado da quelle parti. Mio fratellino ed io correvamo a perdifiato fra i campi, inseguiti da un branco di oche spaventate per il frastuono della colonna. Impolverati e sorridenti, i soldati americani ci salutavano con entusiasmo dalle torrette dei loro carri, talora fermandosi per regalarci cioccolate e gomme da masticare, e chiedendo in cambio insalata e rapanelli.

Avevamo vissuto le vicende dei bombardamenti, dei rastrellamenti, della comparsa più o meno inquietante di gruppi di tedeschi, di fascisti repubblichini e di partigiani, che alcuni chiamavano ribelli, nei tre anni della Resistenza armata. Ho saputo solo ieri, leggendo Avvenire, che il primo annuncio della Liberazione fu dato alle ore 22 del 25 aprile 1945 da una radio allestita alla meglio, che trasmetteva in onde corte.

Riascoltiamo quel messaggio, che iniziava con l’Inno del Piave: “Attenzione, attenzione. Qui Radio Busto Arsizio. Stiamo per trasmettere un importante comunicato: ‘Per proclama del Comandante della piazza militare di Busto Arsizio si dichiara decaduto il regime fascista repubblicano e si esorta la popolazione alla calma e al rispetto delle leggi civili e militari dell’8 settembre 1943 rientrate in vigore. Cittadino italiano, tu che hai sofferto per la tua Patria ancora una volta calpestata dal barbaro nemico, l’ora della tua liberazione è giunta! Lavoratore, ancora per qualche giorno controlla ogni tentativo di distruzione delle tue macchine, delle tue officine, delle centrali elettriche. Salva la tua ricchezza di domani… Industriali, disponete perché il lavoro continui, perché le mense aziendali non abbiano a subire interruzioni. Donne, siate degne dell’ora che volge, italiani tutti, al vostro posto di battaglia!”. Il giorno 26 aprile la notizia fu ripresa da radio e da giornali e fece il giro del mondo.

L’inizio di una presa di coscienza storica negli anni’50

Mi sembra di aver cominciato solo al liceo a rendermi conto dei fatti e dei problemi relativi alla guerra, alla resistenza, alla pace, alla difficile ricostruzione. Questo è avvenuto un giorno, quando il preside del Classico di Reggio Emilia, che si chiamava Ermanno Dossetti, ci convocò in Palestra, per parlarci della Costituzione, proprio alla vigilia del 25 aprile.

Allora ho avuto l’intuizione, anche se un po’ vaga, che la Costituzione fosse una cosa molto importante, un avvenimento che cambiava per sempre la nostra vita, un tesoro, che doveva essere conosciuto e messo a frutto non solo da parte delle istituzioni e dei politici, ma da tutti i cittadini, nella vita di tutti i giorni, se non si voleva tornare agli anni terribili della guerra. Negli anni successivi, anche come insegnante, sono tornato più volte su questo testo: sono restato e resto sempre più ammirato per la sua verità e la sua bellezza, ma anche amareggiato e deluso per il modo con cui in complesso l’abbiamo ignorata e trattata. 

È come se avessimo tenuto in cantina, in mezzo ai topi, un capolavoro di Leonardo. O come se avessimo ricevuto in eredità una Ferrari e l’avessimo fatta marciare solo in prima e in seconda.

È stato detto che le Costituzioni sono gli strumenti che gli uomini si danno nei tempi della saggezza, a valere per il momento della confusione. Il “capolavoro di saggezza” della Costituzione è stato scritto in 18 mesi, dal 2 giugno 1946 al 22 dicembre 1947. Il 2 giugno si tennero le prime votazioni a suffragio universale, comprese le donne, sia per rispondere al referendum in cui si decise la nascita della Repubblica Italiana, sia per eleggere l’Assemblea Costituente. Appare perciò storicamente corretto riconoscere la radice della Costituzione nella Resistenza e nella Liberazione, che hanno nel 25 aprile la loro genesi storica e simbolica. E chiedersi le ragioni della mancata o parziale attuazione dei suoi principi e delle sue norme fondamentali, per cercare di avanzare nella via della libertà, dell’uguaglianza e della solidarietà e per evitare di soccombere di fronte alle crisi epocali che dipendono in gran parte dalla nostra “dimenticanza” dei principi costituzionali.

Nulla è perduto con la pace, aveva detto Pio XII in un radiomessaggio del 1939, aggiungendo che tutto può essere perduto con la guerra. È possibile però anche dimenticare che allora una difficile pace è stata conquistata a prezzo di una guerra disastrosa; e che si può anche perderla di nuovo, se si dimentica quella terribile lezione della storia. Faccio ora un salto in avanti di quarant’anni dalla fine della guerra.

Il 25 aprile ricordato a Milano nel 1986, per leggere 14 lapidi 

Una mattina del 1986, quando abitavo a Milano, decidemmo, con mia moglie e mio figlio, che saremmo andati alla manifestazione organizzata dall’ANPI per ricordare il 25 aprile. C’erano solo 3 macchine con gli striscioni sul cofano, davanti alla sede del Consiglio di Zona di Porta Venezia. Col nostro arrivo, le macchine divennero 4 e così noi rappresentammo il 25% della delegazione che si preparava a visitare le 14 lapidi del Quartiere, per portare corone d’alloro ai martiri della Resistenza. Quando uno del gruppo, lamentando le assenze degli “altri”, disse che avrebbero potuto sfoderare le loro bandiere rosse, feci garbatamente valere le nostre ragioni di cittadini della parrocchia di San Gregorio. Sicché questo bastò a restituire al Tricolore il suo carattere di simbolo dell’unità nazionale.

Si prese atto che il nostro 25% in quel piccolo corteo possedeva due primati: mio figlio era il più giovane del gruppo e io ero il più alto. Lui ascoltò le commosse parole dell’anziano presidente dell’ANPI, che fu lieto di poter consegnare a un giovane il suo ricordo e il suo messaggio; io manovrai con discreta perizia il bastone che serviva per installare le corone vicino alle lapidi, poste molto al di sopra delle nostre teste, e forse per questo ignorate dai passanti e dagli abitanti del quartiere. Mia moglie, che aveva caldeggiato la nostra partecipazione, prendeva appunti. Registrava i nomi di quei giovani che erano stati fucilati a Milano o uccisi nei campi di concentramento, talora pochi giorni prima o dopo la Liberazione; e annotava le frasi con cui amici e parenti avevano voluto ricordare il senso di quei sacrifici.

Si scendeva dalle macchine, si sostava un istante, si poneva in alto la corona, come se si cercasse di cogliere il gesto, il sorriso, la smorfia di dolore di chi aveva offerto la sua vita perché noi potessimo conservare e sviluppare la nostra vita di cittadini liberi e democratici.

Poi si risaliva in auto e si ricominciava la piccola processione di quella via crucis civile che ci ha fatto sentire popolo italiano, come la via Crucis del Venerdì santo ci fa sentire popolo di Dio.

Fra una stazione e l’altra leggevamo qualche frase di un giornaletto dell’ANPI o ricordavamo qualche pensiero dei Condannati a morte della Resistenza. Sentivamo il bisogno di ringraziare il Signore, che aveva dato tanta forza a quei giovani, e di ringraziarlo per la libertà conquistata dal loro sacrificio, di cui molti hanno perso la memoria.

Al termine della visita, abbiamo aderito all’ANPI, per restare informati della loro attività e per condividere quel grande patrimonio di fede nella libertà e nella pace, che ha caratterizzato questo lungo dopoguerra. 

La pandemia del Covid-19 e gli appelli del Papa e del Segretario dell’ONU per un’alleanza globale per l’unità e per la pace

La strage pandemica di questo 2020 mette a dura prova la nostra speranza di indefinito benessere, per l’inedito scenario di morte, di paura, di solitudine, di crisi economica e d’incertezza che grava sul nostro futuro. D’altra parte questa lotta contro uno sciame invisibile di microbi patogeni che involontariamente ci trasmettiamo con la prossimità, inducendo le pubbliche autorità a imporre, in ordine sparso, lunghi e incerti lockdown per attuare un “distanziamento sociale”, e cioè per sottrarre “cibo” al virus, sta affamando anche parte di noi, ma anche risvegliando in altri le migliori energie che hanno consentito all’Italia di riemergere, attraverso la Resistenza e la Costituente, dal “crogiolo ardente” della guerra mondiale degli anni ’40. Papa Francesco e Antonio Gutierrez invocano con accorata energia l’unità europea, la cessazione delle guerre e la pace, in nome di un’umanità che riconosca il comune nemico non in un popolo, in uno stato o in un’ideologia, ma in uno dei tanti virus che abbiamo inconsapevolmente risvegliato, nella nostra pretesa di sfruttamento incontrollato della natura.

Per questo alla Pasqua cristiana possiamo associare la Pasqua civile che il nostro Paese celebra, anch’essa per la prima volta per via telematica, a 75 anni da quell’evento.

 

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