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Per ipotizzare e cercare di comprendere ciò che bolle nella pentola del fisco e del debito si potrebbero prendere come punto di riferimento le parole di Mario Draghi, cominciando da una decina d’anni fa.

Il primo segnale di cambiamento nelle strategie europee (e di conseguenza italiane) è stato il “whaterever it takes”, pronunciato il 26 luglio 2012 da Mario Draghi, all’epoca governatore della Banca Centrale Europea, che iniziò ad acquistare titoli di stato attraverso il “quantitative easing”, cioè ad offrire denaro a basso prezzo e a tenere bassi i tassi di interesse sul debito pubblico. Questa scelta espansiva ha consentito all’Italia di non affogare nell’oceano del debito a causa delle onde alte degli interessi, che avevano costretto il governo Berlusconi alle dimissioni nell’anno precedente.

Per quale ragione Draghi nel 2012 decise di andare controcorrente rispetto alle posizioni pro-austerity, sostenute dai “falchi” di molti Paesi europei, a cominciare dalla Germania? Una spiegazione potrebbe trovarsi nel fatto che le politiche di austerità hanno il fiato corto e che per i creditori (privati o istituzionali) non conviene che i debitori vadano in default. Il debito è un meccanismo che serve a redistribuire i soldi al contrario, cioè dai poveri ai ricchi. Ma funziona meglio se sta in equilibrio, con un debito abbastanza elevato ma sostenibile: non deve essere troppo basso (perché gli interessi sarebbero di poca entità), né troppo alto (perché c’è il rischio di perdere interessi e capitale).

Un discorso analogo a quello sul debito, si potrebbe fare per le disuguaglianze e per il sistema tributario. Le disuguaglianze vanno bene ma se non sono eccessive. Il fisco può essere progressivo, ma non molto. In questa logica si possono inquadrare alcune parole o decisioni prese da Mario Draghi negli ultimi mesi come presidente del Consiglio dei Ministri del governo italiano.

Al Social Summit di Porto il 7 maggio 2021 Mario Draghi ha dichiarato: “Il sogno europeo è di garantire che nessuno venga lasciato indietro. Questo sistema è profondamente ingiusto e costituisce un ostacolo alla nostra capacità di crescere e di innovare. Accogliamo con favore il piano d’azione della Commissione sul pilastro europeo e sui diritti sociali, che mettono insieme le esigenze del Mercato unico insieme a quelle di una strategia di crescita più sostenibile ed equa. Dobbiamo essere più inclusivi perché le società inclusive sono resilienti, quelle che non lo sono, sono fragili.”

Il 21 maggio 2021, in risposta al segretario del Partito Democratico Enrico Letta, che aveva proposto di introdurre un’imposta di successione del 20% sui patrimoni superiori a 5 milioni di euro, Mario Draghi ha precisato: “Non abbiamo mai parlato di tasse di successione: questo non è il momento di prendere i soldi ai cittadini, ma di darli.” Da notare il duplice registro: nessun aumento di tasse nemmeno per i più ricchi e politica economica espansiva o addirittura assistenziale.

Il 3 dicembre 2021 in un videomessaggio alla Convention della Fondazione Guido Carli, Mario Draghi rilancia: “Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza è un’occasione storica per rendere l’industria e l’economia più innovative e più sostenibili. Rappresenta anche un’opportunità straordinaria per ridurre le disuguaglianze di genere, di reddito, di generazione”. In questa prospettiva Mario Draghi ha ipotizzato di correggere la riforma fiscale, congelando la diminuzione di imposta sui redditi superiori ai 75'000 euro (si tratta di 270 euro), per utilizzare queste risorse per calmierare gli aumenti nelle bollette per l’energia. In questo caso non si sarebbe trattato di un aumento di tasse, ma di una mancata riduzione. Ma la proposta di Draghi non è passata: nella maggioranza che sostiene il governo ha prevalso la linea della riduzione di tasse per (quasi) tutti, super ricchi compresi. Infatti, se il Parlamento confermerà la proposta di riforma fiscale approntata dal Governo, gli unici che non avranno alcun beneficio sono i contribuenti più poveri, quelli con un reddito inferiore a 15'000 euro annui. Chi avrà maggior vantaggio (920 euro) saranno i possessori di un reddito di 50'000 euro. Una riforma che persino Mario Draghi sta cercando, finora senza successo, di correggere, poiché va nella direzione di un aumento delle disuguaglianze.

Mario Draghi è più scaltro e intelligente dei politici che lo circondano: sa che quando si tira troppo la corda c’è il rischio che si spezzi. E dietro l’angolo, dopo l’arrivo dei fondi europei, si profila un debito pubblico enorme che prima o poi andrà restituito. Il deficit annuo attuale è superiore al 10% e i tassi di interesse non potranno rimanere così bassi a lungo: il rischio di un ritorno all’austerità è concreto. Draghi lo sa, invece gli altri che lo circondano pensano soltanto alle prossime elezioni.

Guardando al futuro chi ritiene che la solidarietà sia un dovere inderogabile a mio avviso dovrebbe ridiscutere e rivedere le categorie finora spesso utilizzate a proposito del debito pubblico. Continuare sulla strada attuale significa mantenere il giogo che grava sui più poveri. Per evitare nuove politiche di austerità bisognerebbe necessariamente ridurre il debito pubblico, utilizzando il patrimonio privato accumulato in modo illegale (mafie, evasione fiscale, corruzione). Servirebbe una vera rivoluzione fiscale (mentre quella in cantiere è palesemente ridicola), che stabilisca anzitutto il cumulo di tutti i redditi come base imponibile e che tenga conto anche dei patrimoni legittimamente posseduti per determinare l’imposta. Insomma, occorrerebbe che le spese pubbliche siano finanziate dalla effettiva capacità contributiva di ciascuno. Sta scritto nella Costituzione, ma è giunto il tempo che queste parole diventino politica economica concreta.

Photo credits: “5:00 PM – Buzek meets Mario Draghi, the Governor of the Bank of Italy” by European Parliament is licensed under CC BY-NC-ND 2.0

Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 48 di Gennaio-febbraio 2022: “Cosa bolle in pentola?“

Fonte: https://www.attac-italia.org/una-vera-rivoluzione-fiscale/

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