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Lettera a Raffaele Morese*

*Ex Segretario generale della FIM-CISL ed ex- segretario generale aggiunto delle CISL

Caro Raffaele,

ho scelto te come interlocutore per i nostri trascorsi comuni alla guida della FIM-CISL e per una certa sintonia che provo nei tuoi confronti: i nostri percorsi si assomigliano, eccetto che per la parte finale.

Com’è la situazione attuale in Italia?

La mia impressione è che la mitica classe operaia, che ai tempi tuoi e miei era l’ultima della gerarchia sociale, si è un po’ sollevata fino a diventare la parte inferiore del cosiddetto ceto medio, andando ad occupare il posto di penultima.

I nuovi ultimi (riders, contratti precari, disoccupati, ecc.) non li rappresenta nessuno anche perchè sono di difficile rappresentanza, dispersi in piccole unità produttive, contagiati dal benessere da un lato (la maggioranza di loro ha le spalle coperte dai genitori) e dal crescente individualismo dall’altro.

Abbiamo contribuito anche noi, come sindacalisti, a migliorare la condizione dei lavoratori, gestendo le grandi conquiste di salari e diritti (prima conquistandole e poi difendendole) fino alla fine del secolo.

Oggi, se alziamo lo sguardo a tutto il mondo, constatiamo che gli operai e gli impiegati italiani hanno una condizione molto migliore dei loro omologhi sul pianeta. Noi stiamo bene.

I nuovi ultimi sono il 20% della popolazione e, se ci affidiamo alle sole regole democratiche, la schiacciante maggioranza è per perpetuare l’attuale sistema sociale. Ci vuole un surplus di senso etico, un ascolto delle voci profetiche, per realizzare una società più giusta e questo richiede tempi lunghi.

Se noi avessimo spazio nel bilancio pubblico, le ricette che circolano, anche a sinistra, per migliorare la situazione andrebbero bene. Ma purtroppo abbiamo uno dei più grandi debiti pubblici del mondo e gli spazi per spendere di più a favore degli ultimi sono molto ridotti.

D’altro canto bisogna ridurre il debito pubblico per non far pagare ai nostri figli e nipoti, che fanno parte dei nuovi ultimi, il suo costo. E anche questo obiettivo, se mai sarà posto seriamente tra le priorità del governo, richiede tempi lunghi.

Come sarà l’Italia tra 20-30 anni quando noi molto probabilmente non ci saremo più?

Ho in mente due esiti, contrapposti tra di loro.

Il primo è continuare a far pagare agli ultimi il costo della crisi, portandoli a essere non più il 20% ma il 25% o il 30%, riducendo il ceto medio, ma in modo tale che, applicando le sole regole “democratiche”, siano sempre in minoranza e privi di un’adeguata rappresentanza.

Il secondo è redistribuire la ricchezza creata (le vie sono molte) e pagare il debito pubblico, con una riforma del fisco che proceda su strade assai diverse da quella dell’attuale governo, rimettendo al centro la progressività di tutte le tasse.

La riforma fiscale è la via principale per riequilibrare la situazione in favore degli ultimi. La classica via contrattuale è infatti parzialmente preclusa perché il sindacato è debole nel terziario, che è il settore largamente maggioritario nell’economia (più del 70% dei lavoratori dipendenti vi è occupato) e in continua espansione. Dovrebbe investire molto più di quanto fa in questo settore e fra i nuovi ultimi, per avere un’adeguata rappresentanza anche in futuro.

Non si tratta di abbandonare la vecchia rappresentanza, ma di allargarla.

Per poter pagare il pesante debito pubblico occorre che l’eventuale avanzo di bilancio sia destinato a questo scopo, con una conseguente restrizione degli spazi di avanzamento delle condizioni della grande maggioranza della popolazione. Fa eccezione quel 20% che è in condizioni di povertà e che va aiutato anche da un intervento pubblico.
Per ottenere questo occorre un cambiamento di mentalità profondo, che richiede molti anni. Passare, come tu affermasti, da uno sviluppo “sostenuto” a uno sviluppo “sostenibile”, prendendo sul serio i vincoli derivanti dalla crisi ecologica e sociale. Perché se il livello di consumo che abbiamo anche in Italia non è alla lunga sostenibile dobbiamo ridurlo, a partire dai più ricchi.

Occorre ridimensionare le aspettative di un benessere crescente all’infinito, imparare ad accontentarsi di quello che abbiamo, che è molto in confronto al resto del mondo.

Ci riusciremo?

Il debito pubblico e la barca Italia

105 miliardi di euro: è l’aumento del debito pubblico italiano nel 2023 calcolato dalla Banca d’Italia. Infatti, il conto in rosso delle amministrazioni pubbliche era di 2'758 miliardi alla fine del 2002 ed è salito a 2'863 miliardi al termine del 2023. Questo aumento del 3,8% dello stock del debito è dovuto in gran parte al pagamento degli interessi. Nel 2022 la spesa per gli interessi passivi sul debito è stata di 83 miliardi di euro. Non è ancora disponibile il dato relativo al 2023, ma si stima che il costo sia vicino a 100 miliardi di euro.

Di conseguenza anche nel 2023 lo stato italiano ha chiuso il bilancio in perdita per gli interessi dovuti ai creditori. A causare l’aumento del debito è il debito stesso, in un circolo vizioso che si autoalimenta. Una classe politica responsabile – al di là delle regole del patto di stabilità europeo – dovrebbe porsi il problema di come uscire da questa spirale che comporta un enorme spreco di risorse. Invece, anche l’ultima manovra economica presentata dall’attuale governo è stata di 24 miliardi (cioè un quarto della spesa per interessi), di cui 16 miliardi a debito.

Di fronte a questa situazione ci si aspetterebbe un soprassalto di attenzione, una ripresa della consapevolezza che non è sensato continuare su questa falsariga. Tanto più che nei documenti di previsione dei prossimi anni è già indicato un ulteriore aumento del debito sia in termini assoluti sia in relazione alla ricchezza prodotta (rapporto debito/PIL). Dovrebbe scattare un allarme politico, perché chi è molto indebitato (e l’Italia ha il più grande debito in Europa) non dispone delle risorse necessarie per dare risposte concrete ai bisogni sociali e per garantire i diritti riconosciuti dalla Costituzione.

Periodicamente viene pubblicato il dato del nuovo record del debito pubblico, ma questa informazione fondamentale per le sorti del Paese, viene appresa come l’arrivo di una nuova perturbazione metereologica, che prima o poi passerà. Ma il debito resta con tutte le conseguenze negative. Eppure la notizia scivola via nell’indifferenza generale, come se non ci riguardasse. Chissà per quale ragione di fronte al problema del debito pubblico il patriottismo – spesso esibito con orgoglio – scompare.

Viene in mente la storiella raccontata da Piero Calamandrei agli studenti milanesi nel 1955 in un discorso sulla Costituzione: “Due emigranti, due contadini traversano l’oceano su un piroscafo traballante. Uno di questi contadini dormiva nella stiva e l’altro stava sul ponte e si accorgeva che c’era una gran burrasca con delle onde altissime, che il piroscafo oscillava. E allora questo contadino impaurito domanda ad un marinaio: «Ma siamo in pericolo?». E questo dice: «Se continua questo mare tra mezz’ora il bastimento affonda». Allora lui corre nella stiva a svegliare il compagno. Dice: «Beppe, Beppe, Beppe, se continua questo mare il bastimento affonda». Quello dice: «Che me ne importa? Non è mica mio!».”

Il debito pubblico sta creando grosse falle nella barca Italia e rischia di farla affondare. Massimiliano Dona, presidente dell'Unione Nazionale Consumatori, ha recentemente dichiarato: “Se considerassimo questo debito come un debito personale, sarebbe un livello di indebitamento da infarto, pari a 48.524 euro. Anche in questo caso, si tratta del dato peggiore mai registrato. Se fosse un debito familiare, in media ammonterebbe a 108.438 euro”. Forse è necessario far scattare questo “se” per passare dall’indifferenza alla responsabilità. Ogni genitore personalmente cerca di non lasciare debiti ai figli.

Collettivamente invece stiamo lasciando un carico pesante alle generazioni future. Non è una buona politica.

 

Debito pubblico e conti in ordine, l’Ocse ha indicato la strada, ma l’Italia va in un’altra direzione

Il rapporto OCSE sull’economia italiana.

L’OCSE è un’organizzazione internazionale di studi economici, apolitica e apartitica, che svolge prevalentemente un ruolo di assemblea consultiva per la risoluzione dei problemi comuni dei 36 Paesi membri.

Nel suo rapporto annuale sull’economia italiana, diffuso la scorsa settimana, l’OCSE ha rilevato che i mali del nostro Paese sono l’alto debito e la bassa crescita economica e demografica.

Si tratta di considerazioni che sostanzialmente non contraddicono quelle elaborate dal nostro Governo nel programma ufficiale di finanza pubblica. Anche se i dati rilevati dai tecnici dell’OCSE sono più pessimisti, sia nella crescita a breve termine, che per quest’anno il MEF fissa a +1,2% e i tecnici dell’OCSE a +0,7%, e sia rispetto al debito pubblico, che l’OCSE calcola al 141,4% del PIL (1,2 punti sopra l’indicazione del Governo italiano). Inoltre, secondo l’OCSE, in assenza di interventi strutturali sui conti, il debito pubblico nel 2040 raggiungerà quota 180% del PIL.

La ricetta anti-debito proposta dall’Organismo internazionale prevede un contributo di solidarietà sulle pensioni più alte che non sono sostenute integralmente dai contributi versati (le vecchie pensioni calcolate integralmente col retributivo, che rendono mediamente di più di quanto avrebbero reso se fosse stato loro applicato il metodo contributivo, soprattutto se frutto di pensionamenti anticipati).

Inoltre, l’OCSE prescrive di “spostare le imposte dal lavoro alla proprietà e all’eredità” (leggasi, patrimoniale) e di continuare a contrastare l’evasione fiscale, anche abbassando il tetto sui pagamenti in contanti.

I provvedimenti assunti dal Governo italiano.

Iniziamo dall’ultimo punto. Rispetto all’abbassamento del tetto sui pagamenti in contanti, l’Italia è andata nella direzione opposta. Infatti, uno dei primi provvedimenti assunti dal nuovo Governo è stato quello di innalzare il tetto all’uso del contante (insieme all’eliminazione dell’uso della moneta digitale per i pagamenti sotto i 60 euro). Dal 1° gennaio 2023, infatti, la soglia per il trasferimento di denaro contante nel nostro Paese è passata da mille a cinque mila euro. La Corte dei Conti, in quella occasione, ha sottolineato che innalzare il tetto al contante contrasta con la necessità di fare emergere il nero “in quei settori rivolti al consumatore finale ove più diffusi sono i fenomeni evasivi. (…) Una riduzione dell’uso del denaro contante, il cui trasferimento – per definizione – non è tracciabile, potenzia l’azione di controllo e, ancora prima, rende le attività criminose più difficili da compiere”.

Un ulteriore provvedimento assunto dal Governo si chiama “concordato preventivo”.
Il testo approvato dal Governo prevede che lo Stato faccia all’imprenditore una proposta di imposte da pagare per i prossimi due anni.

Se l’imprenditore accetta la proposta, non dovrà pagare nulla in più, anche se poi i ricavi si rivelassero di molto superiori e per due anni di fatto non verrà più controllato.

Inoltre, il testo prevede una specie di evasione fiscale programmata; ovverosia, prevede che chi occulta meno del 30% degli incassi non decada dal beneficio del concordato preventivo. Il provvedimento appare iniquo sotto diversi punti di vista. Da una parte fa un regalo a quei lavoratori autonomi i cui incassi sono superiore a quelli fissati dal concordato e dall’altra penalizza tutti gli altri i cui incassi sono inferiori a quelli stabiliti dal Governo, perché li costringe a pagare più imposte di quelle dovute per scongiurare il rischio dei controlli fiscali.

Valutazioni e proposte

C’è una parola che piace molto a questo Governo, la parola è “differenziata”. Purtroppo, questa parola in un recente disegno di legge è stata usata a sproposito. Infatti, l’autonomia differenziata farà aumentare le diseguaglianze sociali tra le regioni e l’ovvia conseguenza sarà un ulteriore grave sgretolamento della coesione sociale.

Al contrario, il nostro Paese in questo momento avrebbe bisogno di provvedimenti normativi che facciano recuperare solidarietà e coesione sociale. Dunque, piuttosto che differenziare i territori, andrebbero differenziati i contribuenti.

Insomma, l’Italia non ha bisogno di un’autonomia differenziata, bensì di una “patrimoniale differenziata”.

Una patrimoniale che tassi in maniera “differenziata” i patrimoni degli italiani in ragione della loro congruità.

Più nel dettaglio, si tratta di mettere a confronto la somma dei redditi dichiarati nel più lungo arco di tempo consentito dal sistema informativo dell’anagrafe tributaria (gli ultimi quindici, venti anni) con l’intero patrimonio nella disponibilità del contribuente.

Nulla da temere per chi non ha "scheletri nell'armadio", perché con questo metodo verrebbero alla luce solo i patrimoni intestati a prestanome, quelli provenienti da attività illecite e, in particolare, dall’autoriclaggio dell’evasione.

In questo modo ciascun cittadino contribuirebbe in modo molto diverso in base alla sua fedeltà fiscale. A tal proposito appare superfluo precisare che ogni anno l’evasione di imposte e contributi vale oltre 100 miliardi di euro.

Lo stesso discorso andrebbe esteso, come suggerito dall’OCSE, all’imposta di successione e donazione. Essa dovrebbe dipendere dalla congruità dell’asse ereditario al reddito dichiarato in vita dal de cuius.

Dunque, piuttosto che differenziare l’autonomia dei territori, andrebbero differenziati i contribuenti nei territori.

Nuovo patto di stabilità, dove l’Italia può tagliare

Con il nuovo Patto di stabilità chi ha un deficit superiore al 3% e un debito oltre il 60% deve porsi in una traiettoria di riduzione.

La quota nazionale di cofinanziamento dei programmi europei non rientra nel calcolo della spesa pubblica ed è il risultato della trattativa serrata condotta a Bruxelles dal governo italiano. Un compromesso che però non cambia la linea di fondo imposta da Germania e Paesi nordici: i governi del Sud Europa devono restare sotto tutela. Il bilancio a zero deficit rimane la stella polare della politica fiscale europea. Suona paradossale in tempi che richiedono interventi pubblici a sostegno della transizione energetica. Ma a Berlino l’esecutivo si è visto cancellare dalla Corte costituzionale 50 miliardi di euro perché considerati fuori bilancio. E questo con un Cancelliere che prima della sua elezione a capo del governo nel 2022 faceva di mestiere il ministro delle Finanze. A conferma che su questo tema non ci sono spazi di mediazione in Germania e di converso in Europa.

Questo genere di approccio porta vantaggio a chi ha bilanci in ordine e può disporre di maggiori margini di spesa. Nel caso tedesco solo a Intel sono stati garantiti 10 miliardi di sovvenzioni su un investimento complessivo di 30 miliardi di euro. Accanto alla fabbrica americana di semiconduttori sorgerà poi un parco altamente tecnologico per un indotto di diecimila posti di lavoro molto qualificati. L’ obiettivo è diventare un polo strategico nella ricerca e nella creazione di impianti di tecnologia elettronica. Altri 5 miliardi sono stati stanziati per TSMC, leader mondiale nei semiconduttori. A Dresda la multinazionale taiwanese crea nuovi impianti in collaborazione con Bosch, Infineon, NXP. La logica delle imprese private tedesche è: impara il mestiere e mettilo da parte.

In Italia ci si batte convulsamente tra una crisi industriale e l’altra nell’intento di mantenere attività tradizionali che verrebbero altrimenti chiuse come l’ex ILVA di Taranto o portate all’estero come le auto di Stellantis. Battaglie doverose ma che sanno di retroguardia. All’orizzonte mancano investimenti sul futuro, come per esempio la fabbrica di componenti per batterie elettriche promessa a Termoli ma ancora in alto mare. Lottare per una transizione ordinata dal motore endotermico all’elettrico aiuta molte industrie dell’indotto ma se poi non si investe sul nuovo che avanza inesorabile si finisce per perdere il treno dell’innovazione. Ecco perché una maggiore disponibilità di bilancio aiuterebbe nel dare un segnale a chi in Italia vuole investire nel nuovo modello di sviluppo. Con i debiti accumulati però l’Italia con il nuovo Patto di stabilità non può disporre di nuove risorse. O meglio potrebbe a saldi invariati, ovvero tagliando le spese infruttifere fino a intaccare le spese sociali.

C’è una variabile però che anche un governo di destra-centro non può più ignorare, ovvero l’evasione fiscale. È stato autorizzato dall’Unione europea l’uso dell’Intelligenza artificiale per scovare gli evasori fiscali e combattere il riciclaggio. È un punto dirimente. Secondo i dati CGIA di Mestre per il 2020, in Calabria su 100 euro di gettito fiscale ne vengono evasi il 21,3% , in Campania il 20%, in Sicilia il 19% e poi a seguire tutto il Sud mentre al Nord, Bolzano con il 9% e la Lombardia con il 9,5% sono a meno della metà. Anche nel Settentrione sappiamo che al riguardo c’è molto da fare e tuttavia rimane una divaricazione tra una parte del Paese a vocazione europea e un’anima rimasta bizantina per dirla con Giacomo Devoto. È dall’unità d’Italia che si dibatte il problema. E con questa storia e questi numeri è dura senza impegni vincolanti convincere i partner europei a diventare ultimo garante del debito pubblico italiano.

Fonte: https://www.ecodibergamo.it/stories/premium/Editoriale/nuovo-patto-stabilita-dove-litalia-puo-tagliare-o_2013401_11/

 

Il direttore del Mes: «Noi sorpresi dalla decisione di Roma di non ratificare, così rallenta tutto»

Prima di Natale, la Camera ha bocciato la ratifica della riforma del Meccanismo europeo di stabilità. Il direttore del MES, il lussemburghese Pierre Gramegna, ne parla qui per la prima volta in un’intervista.

La presidente del Consiglio Giorgia Meloni dice che il MES è obsoleto. Si sbaglia o c’è un fondo di verità?
«Più di dieci anni fa, durante la grande crisi finanziaria, non c’era uno strumento per aiutare i Paesi che avevano perso l’accesso ai mercati finanziari — risponde Gramegna in eccellente italiano —. Per questo abbiamo creato il MES, che ha aiutato cinque Paesi con il suo sostegno finanziario. Il MES è un atto di solidarietà nato dalla necessità, come spesso succede in Europa: un altro esempio è il programma Next Generation EU nato durante la pandemia. Il rischio che un Paese o più Paesi perdano l’accesso ai mercati finanziari o che questo sia troppo oneroso esisteva prima, esiste oggi e esisterà anche domani. Il MES mi fa pensare a un’assicurazione anti-incendio: se uno ce l’ha e la casa non gli va a fuoco è molto felice, però non disdice l’assicurazione; viceversa, quando la casa brucia, è contento di essersi assicurato. In quel senso l’espressione “obsoleto” non mi appare la più adatta».

Da direttore generale del MES ha fatto un giro delle 20 capitali dell’area euro per discutere ulteriori adeguamenti della sua istituzione. Può parlarcene?
«Le situazioni evolvono e c’è bisogno di modernizzare il MES. Le crisi degli ultimi tre o quattro anni, dal Covid alle guerre, sono diverse da quelle di dieci o quindici anni fa. Oggi abbiamo a che fare con fenomeni esogeni. Sono situazioni che i fondatori del MES non avevano in mente, ma anch’esse implicano rischi di instabilità finanziaria senza che i Paesi ne abbiano alcuna colpa. Non per niente gli emendamenti al Trattato, così come ratificato da 19 Paesi, miravano a modernizzare il MES in vari modi».

Può essere più preciso?
«La novità principale prevede di creare un paracadute al fondo di risoluzione delle banche. Questo permette di sostituire l’intervento diretto con capitale azionario in singole banche, previsto oggi nel Trattato del MES attualmente in vigore. Poi c’è l’aspetto preventivo: gli strumenti sono già previsti, ma vanno semplificati per rispondere meglio ai bisogni dei paesi membri. Il terzo punto è che abbiamo un accordo con la Commissione europea per trovare sinergie e più efficacia nella gestione dei programmi. Purtroppo queste tre riforme adesso non possono entrare in vigore. L’ho spiegato ai venti Paesi. L’ho anche spiegato alla presidente Meloni e al ministro Giancarlo Giorgetti».

Lei che idee ha per modernizzare il MES come chiede anche Meloni, adeguandolo alle esigenze attuali?
«Prima di tutto, l’idea è di utilizzare appieno il nuovo trattato quando sarà ratificato. Ma nel dialogo sono emerse tante ipotesi. Ci sono Paesi che hanno ricordato di essere vicini geograficamente alla Russia e non lontani dalla guerra in Ucraina. Come può aiutare il MES? Oggi non è previsto. Alcuni Paesi hanno certe idee e vorrei poterle discutere ulteriormente. Purtroppo diventa difficile, visto che la modernizzazione decisa nel 2021 non può ancora entrare in vigore».


Quindi prima di qualunque nuovo adeguamento del MES, come chiede l’Italia, serve la ratifica delle riforme già concordate? O si può usare l’occasione della mancata ratifica italiana per riaprire di nuovo il trattato?
«È un nodo complicato. Come direttore generale devo ascoltare tutti e venti i Paesi, perché il MES funziona per consenso. Il Ministro Giorgetti ci ha spiegato all’Eurogruppo lunedì scorso che vorrebbe una modernizzazione ulteriore dell’istituzione. Però ci sono diciannove Paesi che dicono che loro la modernizzazione l’hanno già ratificata. Ovviamente la mancanza di una ratifica italiana rallenta la discussione su ulteriori passi avanti. Noi dobbiamo adesso valutare come si vuole muovere l’Italia nei prossimi mesi e vedere con i differenti Paesi come vogliono organizzare la discussione. Noi del MES siamo aperti a tenere le discussioni necessarie, però i 19 Paesi non sono molto rassicurati dall’apertura di un nuovo negoziato, se non si può chiudere quello che già è stato fatto. In particolare perché c’è questa questione sul punto più importante della modernizzazione già decisa: il paracadute che il MES prevede per aiutare il fondo di risoluzione delle banche se questo non ha più risorse sufficienti ad affrontare una crisi».

Ma lei è rimasto sorpreso dalla mancata ratifica italiana?
«Sì, perché abbiamo avuto un dialogo regolare con il governo italiano. E il momento del voto sulla ratifica è stato spostato parecchie volte, perché si diceva che tutto dipendeva da altri elementi. Noi avevamo letto tutto questo in un modo abbastanza positivo. Rispettiamo la decisione del parlamento italiano, anche se è all’opposto degli 19 altri Paesi. Il ministro Giorgetti ha sottolineato all’Eurogruppo lunedì scorso che legalmente il governo italiano può ripresentare la ratifica al Parlamento, dopo sei mesi. Non ha detto che lo farà e per quello penso dobbiamo utilizzare anche i prossimi mesi per capire come l’Italia vuole muoversi, in modo che io stesso e i governi dei 19 Paesi possano trovare soluzioni. Il MES è una struttura molto, molto forte, con 81 miliardi di capitale versato e una capacità di prestito fino a 500 miliardi. Sarebbe bene utilizzarlo al meglio».

In sostanza credeva che, dopo l’accordo sul nuovo Patto di stabilità, ci sarebbe stata la ratifica dell’Italia?
«Sì, è stato detto dal governo parecchie volte che vedeva un legame fra le due cose. Quando dunque si è fatto l’accordo, me l’aspettavo».

Ritiene possibile un accordo per un MES riformato a 19 Paesi, senza l’Italia?
«Non riesco a immaginarmi un MES dove l’Italia non sia presente. Anche perché il MES protegge tutti, inclusa l’Italia. Una soluzione a 19 mi sembra poco sana e da un punto di vista politico, ma anche del diritto internazionale, quasi impossibile».

Immaginiamo che ci sia una crisi bancaria. L’attuale Fondo di risoluzione formato con i contributi delle banche può bastare? O serve anche il MES?
«Dipende del tipo di crisi: se una crisi tocca una sola banca, o se questa banca è così grande da produrre un effetto domino su altre banche dello stesso Paese o di altri Paesi. Oggi il Fondo di risoluzione ha 80 miliardi di euro. Se il paracadute venisse approvato, il MES potrebbe intervenire a prestargli altri 68 miliardi. Poi il Fondo delle banche dovrebbe rimborsare il MES, dunque il denaro dei contribuenti è protetto. Oggi la situazione è tranquilla, ma le crisi possono arrivare all’improvviso. Guardiamo cos’è successo al Credit Suisse e quanto è accaduto in America la primavera scorsa».

Il parlamento italiano ha negato la ratifica perché il MES è molto impopolare in Italia. Siamo certi che questi sospetti siano tutti immeritati?
«La ragione principale che spiega questa reputazione un po’ difficile del MES si deve al programma per la Grecia, il Paese che abbiamo aiutato di più. La Grecia aveva seguito politiche finanziariamente non sostenibili e aveva perso accesso al mercato. Ha dovuto essere aiutata molto. E gli altri Paesi, come previsto nel Trattato, hanno chiesto ad Atene di fare certe riforme che hanno anche portato a una politica fiscale restrittiva. Ne abbiamo tratto delle lezioni, ci sono state cose che magari oggi faremmo diversamente. Però la Grecia oggi è uno dei Paesi che riduce di più il suo debito, ha una crescita tra le più alte d’Europa e ha ritrovato la fiducia dei mercati e delle agenzie di rating. Anche gli altri Paesi che hanno avuto programmi del MES stanno crescendo più della media dell’area euro».

(tratto da corriere.it – 20 gennaio 2024)

Fonte: https://www.corriere.it/economia/finanza/24_gennaio_20/direttore-mes-noi-sorpresi-decisione-roma-non-ratificare-cosi-rallenta-tutto-8f24b8b4-b7cd-11ee-85fb-9c1176b99ad5.shtml

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