Indebitati di indifferenza

Doveva essere un ricordo sfocato. Invece è ancora un’emergenza. Effimeri successi annunciati. Venticinque anni fa, in occasione del giubileo del 2000, papa Giovanni Paolo II lanciò un appello accorato per la cancellazione del debito dei paesi impoveriti. Un quarto di secolo dopo, papa Francesco ha rinnovato quella stessa richiesta nel suo messaggio per la 58a Giornata mondiale della pace del 1° gennaio 2025, sottolineando la necessità di «tradurre la remissione dei debiti sul piano sociale». Due pontefici, due epoche diverse, ma un’identica urgenza che evidenzia quanto poco sia cambiato e, per certi versi, quanto la situazione sia addirittura peggiorata. 

Il divario tra il mondo ricco e quello povero, lungi dal ridursi come promettevano gli ottimisti della globalizzazione, si è infatti ampliato in modo drammatico. Le statistiche parlano chiaro: la ricchezza globale è sempre più concentrata nelle mani di pochi, mentre intere nazioni rimangono intrappolate in una spirale di sottosviluppo e dipendenza economica. II debito estero rappresenta il filo invisibile che lega questi paesi a un sistema che continua a estrarre risorse senza generare un reale sviluppo endogeno.

I nuovi creditori

La natura del debito si è trasformata in questi venticinque anni, assumendo forme più insidiose e difficili da affrontare. Se nel 2000 erano principalmente gli stati o istituzioni come Banca mondiale e Fondo monetario internazionale a detenere i crediti verso i paesi poveri – situazione che permetteva soluzioni politiche coordinate come la cancellazione – oggi una quota crescente del debito, soprattutto in Africa, è nelle mani di fondi d’investimento e banche commerciali. Entità il cui unico obiettivo è il ritorno economico e che non hanno alcun interesse a considerare le implicazioni sociali o umanitarie delle loro pretese.

Ed è proprio nel rapporto con la finanza globale che si gioca oggi la partita più critica. L’architettura finanziaria internazionale privilegia parametri di efficienza che raramente integrano considerazioni di giustizia sociale o di benessere collettivo. I paesi impoveriti si trovano a dover servire debiti a tassi di interesse spesso esorbitanti e da restituire in tempi rapidi, sottraendo risorse vitali a molti servizi, dalla sanità, all’educazione, alle infrastrutture. Un circolo vizioso che perpetua la povertà e l’instabilità. 

Viene invece eclissato nel dibattito pubblico un concetto scomodo ma innegabile: quello di “debito ecologico”. I paesi industrializzati hanno accumulato nei secoli un enorme debito ambientale verso quelle nazioni che oggi subiscono maggiormente gli effetti del cambiamento climatico pur avendovi contribuito in misura minima. Se contabilizzassimo questo debito ecologico, molti dei crediti finanziari vantati dal Nord verso il Sud risulterebbero ampiamente compensati, se non superati. 

La cancellazione del debito non è dunque una concessione, ma un necessario atto di giustizia. E deve essere accompagnata da una riforma profonda del sistema finanziario internazionale che includa meccanismi automatici di ristrutturazione in caso di crisi, una preferenza per le donazioni rispetto ai prestiti per i paesi più vulnerabili, e il riconoscimento del debito ecologico come fattore di compensazione. 

E l’Italia? È stato il primo paese a dotarsi di una legge – la 209 del 2000, nata proprio sull’onda dell’appello giubilare – che consente la cancellazione di debiti divenuti insostenibili o di riformularne le condizioni. Operazione contabilizzata come aiuto allo sviluppo che non rappresenta un trasferimento diretto di risorse, ma aiuta ad alleggerire le casse dei paesi beneficiari. Nel periodo 2018-2022, la riduzione del debito ha rappresentato I’8% delle risorse totali dell’Aiuto pubblico bilaterale italiano. Per il Belpaese, il picco di riduzione si è avuto nel 2021 con una quota del 24% del bilancio annuale, pari a 615 milioni di dollari. Un valore eccezionalmente alto rispetto a quelli storici, inferiori al 5% e dovuto, in gran parte, all’estinzione di 574 milioni di dollari di debito della Somalia. Quello italiano è un impegno sufficiente? L’impressione è che l’applicazione della 209 rimanga episodica e inadeguata. 

Inaccettabile disinteresse

Il timore, ora, è che il nuovo appello di papa Francesco rimanga solo una preoccupazione pastorale. Non si tratta di chiedere più carità o una generosità occasionale, ma di un monito alla politica e all’economia affinché si ripensino radicalmente le regole di un gioco economico/finanziario che continua a produrre disuguaglianze insostenibili. E di fronte alle grandi ingiustizie strutturali del nostro tempo, l’indifferenza non è un’opzione eticamente accettabile. 

Come risposta all’esortazione del vescovo di Roma è nata la Campagna del giubileo sul debito intitolata Cambiare la rotta. Iniziativa che cerca di mobilitare la società civile, le comunità religiose e le istituzioni intorno a un obiettivo comune. In Italia, la legge 209 venne approvata all’unanimità da entrambi i rami del parlamento in un clima di forte consenso nell’opinione pubblica e con una forte motivazione etica. Oggi non è così: nel nostro tempo è la mitologia bellica (e la sua applicazione pratica, purtroppo) a sedurre. Ma la cancellazione del debito non può essere un tema che imbocca strade periferiche. Non si può sgonfiare con secchiate di freddo realismo. È invece un tema non più negoziabile. Non più rinviabile. La cancellazione è semplicemente necessaria.

(tratto da Nigrizia, aprile 2025)