Logo ARDeP

Debito

La stretta dell’Europa sui conti pubblici

Lo scorso 10 febbraio i negoziatori del Parlamento e del Consiglio UE hanno raggiunto un accordo sulla riforma del vecchio patto di stabilità.

In merito alle nuove regole definite, delle quali si parla molto in questi giorni e spesso a sproposito, sarebbe opportuno chiedersi se siano più o meno severe rispetto a quelle sospese nella primavera del 2020 a causa del COVID. Il nuovo accordo prevede che i Paesi con un debito eccessivo dovranno essere soggetti a una riduzione del passivo in media dell’1% all’anno se il debito è superiore al 90% del PIL e dello 0,50% se il debito è compreso tra il 60% e il 90% del PIL. Si tratta di disposizioni meno restrittive rispetto a quelle del precedente accordo, peraltro mai applicato, secondo cui ogni Paese, per garantire la sostenibilità del debito, lo doveva ridurre annualmente di 1/20 dell’eccedenza al di sopra del 60%. Risultano tuttavia più restrittivi i requisiti riferiti al rapporto deficit PIL, che in precedenza era stato fissato al 3% e che con la nuova riforma dovrà tendere all’1,5% del PIL, al fine di creare riserve di bilancio.

Ciò comporterà per l’Italia l’impossibilità di ricorrere al «deficit», così come avvenuto per l’ultima legge finanziaria (14 miliardi) e l’eventualità di essere assoggetta a una «procedura di deficit eccessivo», in quanto il deficit pubblico quest’anno e nel 2025 è previsto che tenda ben al di sopra del 3% del PIL (4,5%). Sull’applicazione di questi ultimi requisiti è prevalsa la consueta linea dura dei Paesi nordeuropei, che è stata fortemente contrastata da quelli più indebitati come il nostro. Questi ultimi hanno alla fine ottenuto che nel valutare le deviazioni rispetto al percorso stabilito la Commissione dovrà tenere conto degli investimenti già decisi in precedenza, in modo che il Paese interessato possa fornire argomentazioni contro l’applicazione di un’eventuale procedura. È stato inoltre previsto che ogni Paese membro potrà chiedere un’estensione del periodo di aggiustamento del bilancio - da quattro a sette anni - se realizzerà determinate riforme e investimenti che migliorino la resilienza e il potenziale di crescita, se sosterrà la sostenibilità del bilancio e se affronterà le priorità comuni dell’Unione che comprendono la transizione verde e digitale, la crescita economica e anche lo sviluppo delle capacità di difesa.

Non è stata accettata la richiesta di estendere il periodo di aggiustamento del bilancio a dieci anni, ma è stata prevista la possibilità di prolungare la vita degli stessi piani, di anno in anno, in presenza di circostanze eccezionali. Sul fronte degli investimenti è stata accolta la richiesta di escludere dal conteggio delle spese dei governi i fondi destinati a cofinanziare i programmi Ue, primi tra tutti quelli per la coesione. Questi fondi, unitamente a quelli strutturali europei, sono lo strumento finanziario principale attraverso il quale vengono attuate le politiche per lo sviluppo della coesione economica, sociale e territoriale e la rimozione degli squilibri economici e sociali. Rispetto alla proposta di riforma inizialmente avanzata dalla Commissione, gradita ai Paesi più indebitati, i Paesi del Nord - i cosiddetti «falchi» - hanno certamente recuperato terreno. Quella proposta avrebbe comportato che Commissione e singoli paesi potessero concordare un piano di rientro fatto su misura Paese per Paese.

I piani su misura sono stati confermati, ma i «falchi», non fidandosi di eccessive concessioni da parte della Commissione, hanno insistito affinché questi piani rispettassero i parametri rigidi predefiniti. In realtà, questi nuovi parametri non risultano particolarmente stringenti in materia di correzione dei conti e gli stessi Paesi del Nord si sono dimostrati meno spietati di quanto lo siano stati in passato. L’intesa raggiunta dovrà essere ratificata dal Parlamento e dal Consiglio europeo prima delle elezioni di giugno. Proprio questo importante evento, però, potrebbe indurre alcuni Paesi più indebitati a ostacolare tale ratifica, nella speranza che una nuova maggioranza nel Parlamento europeo possa rendere possibili ulteriori modifiche all’accordo in termini meno rigidi. La partita è quindi tutt’altro che terminata.

Fonte: https://www.ecodibergamo.it/stories/premium/Editoriale/la-stretta-delleuropa-sui-conti-pubblici-o_2076097_11/

Lettera a Raffaele Morese*

*Ex Segretario generale della FIM-CISL ed ex- segretario generale aggiunto delle CISL

Caro Raffaele,

ho scelto te come interlocutore per i nostri trascorsi comuni alla guida della FIM-CISL e per una certa sintonia che provo nei tuoi confronti: i nostri percorsi si assomigliano, eccetto che per la parte finale.

Com’è la situazione attuale in Italia?

La mia impressione è che la mitica classe operaia, che ai tempi tuoi e miei era l’ultima della gerarchia sociale, si è un po’ sollevata fino a diventare la parte inferiore del cosiddetto ceto medio, andando ad occupare il posto di penultima.

I nuovi ultimi (riders, contratti precari, disoccupati, ecc.) non li rappresenta nessuno anche perchè sono di difficile rappresentanza, dispersi in piccole unità produttive, contagiati dal benessere da un lato (la maggioranza di loro ha le spalle coperte dai genitori) e dal crescente individualismo dall’altro.

Abbiamo contribuito anche noi, come sindacalisti, a migliorare la condizione dei lavoratori, gestendo le grandi conquiste di salari e diritti (prima conquistandole e poi difendendole) fino alla fine del secolo.

Oggi, se alziamo lo sguardo a tutto il mondo, constatiamo che gli operai e gli impiegati italiani hanno una condizione molto migliore dei loro omologhi sul pianeta. Noi stiamo bene.

I nuovi ultimi sono il 20% della popolazione e, se ci affidiamo alle sole regole democratiche, la schiacciante maggioranza è per perpetuare l’attuale sistema sociale. Ci vuole un surplus di senso etico, un ascolto delle voci profetiche, per realizzare una società più giusta e questo richiede tempi lunghi.

Se noi avessimo spazio nel bilancio pubblico, le ricette che circolano, anche a sinistra, per migliorare la situazione andrebbero bene. Ma purtroppo abbiamo uno dei più grandi debiti pubblici del mondo e gli spazi per spendere di più a favore degli ultimi sono molto ridotti.

D’altro canto bisogna ridurre il debito pubblico per non far pagare ai nostri figli e nipoti, che fanno parte dei nuovi ultimi, il suo costo. E anche questo obiettivo, se mai sarà posto seriamente tra le priorità del governo, richiede tempi lunghi.

Come sarà l’Italia tra 20-30 anni quando noi molto probabilmente non ci saremo più?

Ho in mente due esiti, contrapposti tra di loro.

Il primo è continuare a far pagare agli ultimi il costo della crisi, portandoli a essere non più il 20% ma il 25% o il 30%, riducendo il ceto medio, ma in modo tale che, applicando le sole regole “democratiche”, siano sempre in minoranza e privi di un’adeguata rappresentanza.

Il secondo è redistribuire la ricchezza creata (le vie sono molte) e pagare il debito pubblico, con una riforma del fisco che proceda su strade assai diverse da quella dell’attuale governo, rimettendo al centro la progressività di tutte le tasse.

La riforma fiscale è la via principale per riequilibrare la situazione in favore degli ultimi. La classica via contrattuale è infatti parzialmente preclusa perché il sindacato è debole nel terziario, che è il settore largamente maggioritario nell’economia (più del 70% dei lavoratori dipendenti vi è occupato) e in continua espansione. Dovrebbe investire molto più di quanto fa in questo settore e fra i nuovi ultimi, per avere un’adeguata rappresentanza anche in futuro.

Non si tratta di abbandonare la vecchia rappresentanza, ma di allargarla.

Per poter pagare il pesante debito pubblico occorre che l’eventuale avanzo di bilancio sia destinato a questo scopo, con una conseguente restrizione degli spazi di avanzamento delle condizioni della grande maggioranza della popolazione. Fa eccezione quel 20% che è in condizioni di povertà e che va aiutato anche da un intervento pubblico.
Per ottenere questo occorre un cambiamento di mentalità profondo, che richiede molti anni. Passare, come tu affermasti, da uno sviluppo “sostenuto” a uno sviluppo “sostenibile”, prendendo sul serio i vincoli derivanti dalla crisi ecologica e sociale. Perché se il livello di consumo che abbiamo anche in Italia non è alla lunga sostenibile dobbiamo ridurlo, a partire dai più ricchi.

Occorre ridimensionare le aspettative di un benessere crescente all’infinito, imparare ad accontentarsi di quello che abbiamo, che è molto in confronto al resto del mondo.

Ci riusciremo?

Nuovo patto di stabilità, dove l’Italia può tagliare

Con il nuovo Patto di stabilità chi ha un deficit superiore al 3% e un debito oltre il 60% deve porsi in una traiettoria di riduzione.

La quota nazionale di cofinanziamento dei programmi europei non rientra nel calcolo della spesa pubblica ed è il risultato della trattativa serrata condotta a Bruxelles dal governo italiano. Un compromesso che però non cambia la linea di fondo imposta da Germania e Paesi nordici: i governi del Sud Europa devono restare sotto tutela. Il bilancio a zero deficit rimane la stella polare della politica fiscale europea. Suona paradossale in tempi che richiedono interventi pubblici a sostegno della transizione energetica. Ma a Berlino l’esecutivo si è visto cancellare dalla Corte costituzionale 50 miliardi di euro perché considerati fuori bilancio. E questo con un Cancelliere che prima della sua elezione a capo del governo nel 2022 faceva di mestiere il ministro delle Finanze. A conferma che su questo tema non ci sono spazi di mediazione in Germania e di converso in Europa.

Questo genere di approccio porta vantaggio a chi ha bilanci in ordine e può disporre di maggiori margini di spesa. Nel caso tedesco solo a Intel sono stati garantiti 10 miliardi di sovvenzioni su un investimento complessivo di 30 miliardi di euro. Accanto alla fabbrica americana di semiconduttori sorgerà poi un parco altamente tecnologico per un indotto di diecimila posti di lavoro molto qualificati. L’ obiettivo è diventare un polo strategico nella ricerca e nella creazione di impianti di tecnologia elettronica. Altri 5 miliardi sono stati stanziati per TSMC, leader mondiale nei semiconduttori. A Dresda la multinazionale taiwanese crea nuovi impianti in collaborazione con Bosch, Infineon, NXP. La logica delle imprese private tedesche è: impara il mestiere e mettilo da parte.

In Italia ci si batte convulsamente tra una crisi industriale e l’altra nell’intento di mantenere attività tradizionali che verrebbero altrimenti chiuse come l’ex ILVA di Taranto o portate all’estero come le auto di Stellantis. Battaglie doverose ma che sanno di retroguardia. All’orizzonte mancano investimenti sul futuro, come per esempio la fabbrica di componenti per batterie elettriche promessa a Termoli ma ancora in alto mare. Lottare per una transizione ordinata dal motore endotermico all’elettrico aiuta molte industrie dell’indotto ma se poi non si investe sul nuovo che avanza inesorabile si finisce per perdere il treno dell’innovazione. Ecco perché una maggiore disponibilità di bilancio aiuterebbe nel dare un segnale a chi in Italia vuole investire nel nuovo modello di sviluppo. Con i debiti accumulati però l’Italia con il nuovo Patto di stabilità non può disporre di nuove risorse. O meglio potrebbe a saldi invariati, ovvero tagliando le spese infruttifere fino a intaccare le spese sociali.

C’è una variabile però che anche un governo di destra-centro non può più ignorare, ovvero l’evasione fiscale. È stato autorizzato dall’Unione europea l’uso dell’Intelligenza artificiale per scovare gli evasori fiscali e combattere il riciclaggio. È un punto dirimente. Secondo i dati CGIA di Mestre per il 2020, in Calabria su 100 euro di gettito fiscale ne vengono evasi il 21,3% , in Campania il 20%, in Sicilia il 19% e poi a seguire tutto il Sud mentre al Nord, Bolzano con il 9% e la Lombardia con il 9,5% sono a meno della metà. Anche nel Settentrione sappiamo che al riguardo c’è molto da fare e tuttavia rimane una divaricazione tra una parte del Paese a vocazione europea e un’anima rimasta bizantina per dirla con Giacomo Devoto. È dall’unità d’Italia che si dibatte il problema. E con questa storia e questi numeri è dura senza impegni vincolanti convincere i partner europei a diventare ultimo garante del debito pubblico italiano.

Fonte: https://www.ecodibergamo.it/stories/premium/Editoriale/nuovo-patto-stabilita-dove-litalia-puo-tagliare-o_2013401_11/

 

Il debito pubblico e la barca Italia

105 miliardi di euro: è l’aumento del debito pubblico italiano nel 2023 calcolato dalla Banca d’Italia. Infatti, il conto in rosso delle amministrazioni pubbliche era di 2'758 miliardi alla fine del 2002 ed è salito a 2'863 miliardi al termine del 2023. Questo aumento del 3,8% dello stock del debito è dovuto in gran parte al pagamento degli interessi. Nel 2022 la spesa per gli interessi passivi sul debito è stata di 83 miliardi di euro. Non è ancora disponibile il dato relativo al 2023, ma si stima che il costo sia vicino a 100 miliardi di euro.

Di conseguenza anche nel 2023 lo stato italiano ha chiuso il bilancio in perdita per gli interessi dovuti ai creditori. A causare l’aumento del debito è il debito stesso, in un circolo vizioso che si autoalimenta. Una classe politica responsabile – al di là delle regole del patto di stabilità europeo – dovrebbe porsi il problema di come uscire da questa spirale che comporta un enorme spreco di risorse. Invece, anche l’ultima manovra economica presentata dall’attuale governo è stata di 24 miliardi (cioè un quarto della spesa per interessi), di cui 16 miliardi a debito.

Di fronte a questa situazione ci si aspetterebbe un soprassalto di attenzione, una ripresa della consapevolezza che non è sensato continuare su questa falsariga. Tanto più che nei documenti di previsione dei prossimi anni è già indicato un ulteriore aumento del debito sia in termini assoluti sia in relazione alla ricchezza prodotta (rapporto debito/PIL). Dovrebbe scattare un allarme politico, perché chi è molto indebitato (e l’Italia ha il più grande debito in Europa) non dispone delle risorse necessarie per dare risposte concrete ai bisogni sociali e per garantire i diritti riconosciuti dalla Costituzione.

Periodicamente viene pubblicato il dato del nuovo record del debito pubblico, ma questa informazione fondamentale per le sorti del Paese, viene appresa come l’arrivo di una nuova perturbazione metereologica, che prima o poi passerà. Ma il debito resta con tutte le conseguenze negative. Eppure la notizia scivola via nell’indifferenza generale, come se non ci riguardasse. Chissà per quale ragione di fronte al problema del debito pubblico il patriottismo – spesso esibito con orgoglio – scompare.

Viene in mente la storiella raccontata da Piero Calamandrei agli studenti milanesi nel 1955 in un discorso sulla Costituzione: “Due emigranti, due contadini traversano l’oceano su un piroscafo traballante. Uno di questi contadini dormiva nella stiva e l’altro stava sul ponte e si accorgeva che c’era una gran burrasca con delle onde altissime, che il piroscafo oscillava. E allora questo contadino impaurito domanda ad un marinaio: «Ma siamo in pericolo?». E questo dice: «Se continua questo mare tra mezz’ora il bastimento affonda». Allora lui corre nella stiva a svegliare il compagno. Dice: «Beppe, Beppe, Beppe, se continua questo mare il bastimento affonda». Quello dice: «Che me ne importa? Non è mica mio!».”

Il debito pubblico sta creando grosse falle nella barca Italia e rischia di farla affondare. Massimiliano Dona, presidente dell'Unione Nazionale Consumatori, ha recentemente dichiarato: “Se considerassimo questo debito come un debito personale, sarebbe un livello di indebitamento da infarto, pari a 48.524 euro. Anche in questo caso, si tratta del dato peggiore mai registrato. Se fosse un debito familiare, in media ammonterebbe a 108.438 euro”. Forse è necessario far scattare questo “se” per passare dall’indifferenza alla responsabilità. Ogni genitore personalmente cerca di non lasciare debiti ai figli.

Collettivamente invece stiamo lasciando un carico pesante alle generazioni future. Non è una buona politica.

 

Debito pubblico e conti in ordine, l’Ocse ha indicato la strada, ma l’Italia va in un’altra direzione

Il rapporto OCSE sull’economia italiana.

L’OCSE è un’organizzazione internazionale di studi economici, apolitica e apartitica, che svolge prevalentemente un ruolo di assemblea consultiva per la risoluzione dei problemi comuni dei 36 Paesi membri.

Nel suo rapporto annuale sull’economia italiana, diffuso la scorsa settimana, l’OCSE ha rilevato che i mali del nostro Paese sono l’alto debito e la bassa crescita economica e demografica.

Si tratta di considerazioni che sostanzialmente non contraddicono quelle elaborate dal nostro Governo nel programma ufficiale di finanza pubblica. Anche se i dati rilevati dai tecnici dell’OCSE sono più pessimisti, sia nella crescita a breve termine, che per quest’anno il MEF fissa a +1,2% e i tecnici dell’OCSE a +0,7%, e sia rispetto al debito pubblico, che l’OCSE calcola al 141,4% del PIL (1,2 punti sopra l’indicazione del Governo italiano). Inoltre, secondo l’OCSE, in assenza di interventi strutturali sui conti, il debito pubblico nel 2040 raggiungerà quota 180% del PIL.

La ricetta anti-debito proposta dall’Organismo internazionale prevede un contributo di solidarietà sulle pensioni più alte che non sono sostenute integralmente dai contributi versati (le vecchie pensioni calcolate integralmente col retributivo, che rendono mediamente di più di quanto avrebbero reso se fosse stato loro applicato il metodo contributivo, soprattutto se frutto di pensionamenti anticipati).

Inoltre, l’OCSE prescrive di “spostare le imposte dal lavoro alla proprietà e all’eredità” (leggasi, patrimoniale) e di continuare a contrastare l’evasione fiscale, anche abbassando il tetto sui pagamenti in contanti.

I provvedimenti assunti dal Governo italiano.

Iniziamo dall’ultimo punto. Rispetto all’abbassamento del tetto sui pagamenti in contanti, l’Italia è andata nella direzione opposta. Infatti, uno dei primi provvedimenti assunti dal nuovo Governo è stato quello di innalzare il tetto all’uso del contante (insieme all’eliminazione dell’uso della moneta digitale per i pagamenti sotto i 60 euro). Dal 1° gennaio 2023, infatti, la soglia per il trasferimento di denaro contante nel nostro Paese è passata da mille a cinque mila euro. La Corte dei Conti, in quella occasione, ha sottolineato che innalzare il tetto al contante contrasta con la necessità di fare emergere il nero “in quei settori rivolti al consumatore finale ove più diffusi sono i fenomeni evasivi. (…) Una riduzione dell’uso del denaro contante, il cui trasferimento – per definizione – non è tracciabile, potenzia l’azione di controllo e, ancora prima, rende le attività criminose più difficili da compiere”.

Un ulteriore provvedimento assunto dal Governo si chiama “concordato preventivo”.
Il testo approvato dal Governo prevede che lo Stato faccia all’imprenditore una proposta di imposte da pagare per i prossimi due anni.

Se l’imprenditore accetta la proposta, non dovrà pagare nulla in più, anche se poi i ricavi si rivelassero di molto superiori e per due anni di fatto non verrà più controllato.

Inoltre, il testo prevede una specie di evasione fiscale programmata; ovverosia, prevede che chi occulta meno del 30% degli incassi non decada dal beneficio del concordato preventivo. Il provvedimento appare iniquo sotto diversi punti di vista. Da una parte fa un regalo a quei lavoratori autonomi i cui incassi sono superiore a quelli fissati dal concordato e dall’altra penalizza tutti gli altri i cui incassi sono inferiori a quelli stabiliti dal Governo, perché li costringe a pagare più imposte di quelle dovute per scongiurare il rischio dei controlli fiscali.

Valutazioni e proposte

C’è una parola che piace molto a questo Governo, la parola è “differenziata”. Purtroppo, questa parola in un recente disegno di legge è stata usata a sproposito. Infatti, l’autonomia differenziata farà aumentare le diseguaglianze sociali tra le regioni e l’ovvia conseguenza sarà un ulteriore grave sgretolamento della coesione sociale.

Al contrario, il nostro Paese in questo momento avrebbe bisogno di provvedimenti normativi che facciano recuperare solidarietà e coesione sociale. Dunque, piuttosto che differenziare i territori, andrebbero differenziati i contribuenti.

Insomma, l’Italia non ha bisogno di un’autonomia differenziata, bensì di una “patrimoniale differenziata”.

Una patrimoniale che tassi in maniera “differenziata” i patrimoni degli italiani in ragione della loro congruità.

Più nel dettaglio, si tratta di mettere a confronto la somma dei redditi dichiarati nel più lungo arco di tempo consentito dal sistema informativo dell’anagrafe tributaria (gli ultimi quindici, venti anni) con l’intero patrimonio nella disponibilità del contribuente.

Nulla da temere per chi non ha "scheletri nell'armadio", perché con questo metodo verrebbero alla luce solo i patrimoni intestati a prestanome, quelli provenienti da attività illecite e, in particolare, dall’autoriclaggio dell’evasione.

In questo modo ciascun cittadino contribuirebbe in modo molto diverso in base alla sua fedeltà fiscale. A tal proposito appare superfluo precisare che ogni anno l’evasione di imposte e contributi vale oltre 100 miliardi di euro.

Lo stesso discorso andrebbe esteso, come suggerito dall’OCSE, all’imposta di successione e donazione. Essa dovrebbe dipendere dalla congruità dell’asse ereditario al reddito dichiarato in vita dal de cuius.

Dunque, piuttosto che differenziare l’autonomia dei territori, andrebbero differenziati i contribuenti nei territori.

formiche

banner ARDeP 2016 compressor