Logo ARDeP

Debito

Il messaggio di Mattarella sui primi 30 anni dell'ARDeP

Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha voluto esprimere con un messaggio personale inviato a Luciano Corradini, Presidente emerito dell’ARDeP (Associazione per la riduzione del debito pubblico) le sue felicitazione per il trentennale della nascita dell'associazione. Dal Quirinale sono arrivate parole di apprezzamento per le attività promosse in merito alla “divulgazione e sensibilizzazione sulle problematiche economiche del nostro Paese, avanzando utili proposte per un utilizzo sempre più consapevole e solidale delle risorse a disposizione del soddisfacimento dei bisogni della comunità, raccolte a mezzo del sistema tributario”, auspicando lo stesso impegno dell’Associazione nel realizzare ulteriori proficue iniziative”.

Un riconoscimento importante per l’ARDeP e per chi continua a credere nella sua missione, già raccontata in un libro pubblicato nell'ottobre del 2003 con cui si documentava l’esordio dell’associazione e i primi dieci anni d'attività, durante i quali persone diverse, per formazione, cultura e posizione professionale, hanno trasferito sul piano associativo, sociale e politico un disagio “civico” dovuto alle condizioni della finanza pubblica. I proventi di quel libro “La Tunica e il Mantello – debito pubblico e bene comune: provocare per educare” scritto da Luciano Corradini, sono stati poi versati nel “Fondo per l’ammortamento dei titoli di Stato”.

Sensibilizzare il Paese sui rischi del debito pubblico

La storia dell'ARDeP - una “pulce”, come viene definitiva del libro, nata all’indomani della grande crisi finanziaria e morale che ha colpito l'Italia nei primi anni ’90 - è quella di chi si è proposto di aiutare il Paese, pericolosamente uscito dallo SME (Sistema monetario europeo) nel 1992, ad entrare nel recinto dell’Euro costruito a Maastricht; una “pulce” che non si è sentita tranquilla neppure dopo questo ingresso avvenuto nel 1999, perché il “topo” roditore del debito pubblico è ancora all’opera, nonostante la rete protettiva del “patto di stabilità”. Ed è anche la storia di un professore di pedagogia, Luciano Corradini, che è nonno di dieci nipoti a cui ha voluto raccontare la vicenda vissuta con un manipolo di “volontari fiscali”, arruolati per combattere contro l’invisibile, ma vorace “topo”, perché noi italiani si sia potuto far parte, con dignità e responsabilità, non solo dell’Europa monetaria, ma anche di quella civile e politica che si sta costruendo. Infine, è la storia di un esperimento sociale che ha cercato di trasformare il “male comune del debito”, in capitale sociale di fiducia e solidarietà.

Sono parole, queste, mutuate dal libro, che non rappresenta però come potrebbe sembrare, la testimonianza della conclusione dell’attività dell’ARDeP, perché oggi, dopo altri vent’anni di esperienza sul campo, l’Associazione non ha abbassato la guardia. Anche perché il debito, che per un po’ di anni dopo l’esperienza raccontata è rimasto in cima ai pensieri dei ministri, dei politici e anche di molti cittadini, oggi è stato dimenticato ed ha continuato a crescere raggiungendo vette pericolose, come ci ha raccontato il nostro presidente Rocco Artifoni in un recente articolo pubblicato sulla Porta di Vetro.[1]

L’auspicio del Presidente Mattarella che l’Associazione continui a realizzare “ulteriori proficue iniziative“ è pertanto da accogliere con tutta la cura che merita e con tutta l’energia di quel manipolo di “volontari fiscali” che proseguono nella loro opera di sensibilizzazione e di provocazione, anche dialogando, spesso invano, con i pubblici poteri non solo per il raggiungimento dei propri obiettivi statutari ma perché lo Stato siamo noi.

“Resta la speranza – scrive Luciano Corradini – che alcune delle bottiglie in cui abbiamo tenacemente infilato messaggi, possano galleggiare tanto da giungere e a restare in mani esperte e concorrere in qualche modo ad aumentare il “capitale finanziario” del nostro Paese, mentre noi abbiamo avuto in mente soprattutto il suo “capitale sociale”. Ossia quel complesso di convinzioni, di atteggiamenti e di comportamenti che implicano senso della giustizia, rispetto delle leggi e volontà di migliorarle a beneficio di tutti, fiducia in se, negli altri e nelle istituzioni, resistenza alle provocazioni dei furfanti , dovunque annidati, disponibilità a fare la propria parte a favore dello sviluppo, dell’equità e della solidarietà”.

Fonte: https://www.laportadivetro.com/post/il-messaggio-di-mattarella-sui-primi-30-anni-dell-ardep

Il ministro Giorgetti e i numeri del DEF

Quasi 150 miliardi di euro. È il dato dell’indebitamento netto nel 2023 delle amministrazioni pubbliche rilevato nel Documento di Economia e Finanza (DEF) recentemente varato dal Governo italiano. In particolare la cifra è dovuta alla somma del disavanzo primario (71 miliardi) e degli interessi sul debito (79 miliardi). Detto in un altro modo, è la differenza tra il totale delle spese (1'146 miliardi) e il totale delle entrate (996 miliardi).

Si tratta di una cifra enorme, che rappresenta oltre il quintuplo dell’ultima manovra finanziaria (circa 28 miliardi di euro) e il 7,2% del Prodotto Interno Lordo (PIL). La spesa per interessi è il 3,8% del PIL e questa percentuale è prevista in aumento nei prossimi quattro anni, fino a raggiungere il 4,4% nel 2027.

Di conseguenza anche il rapporto tra debito e PIL è previsto in aumento: dal 137,3% del 2023 al 139,6% del 2027. Non solo: il 139,6% è considerato il dato minimo. A causa del rischio sui tassi di cambio si potrebbe arrivare nel 2027 al 143% e considerando i rischi finanziari al 145,1%.

Dato che il 2027 segna il limite “normale” dell’attuale legislatura, chi allora verrà scelto per governare il Paese troverà una situazione finanziaria peggiore. Alla faccia di chi sostiene che bisognerebbe lasciare ai posteri una situazione migliore di quella che si è trovata.

È interessante anche il dato del debito della pubblica amministrazione, che è formato sostanzialmente da due voci: il debito centrale e quello locale. Nel 2023 il debito statale ha raggiunto 2'798 miliardi, mentre quello delle amministrazioni locali è stato di 112 miliardi, cioè meno del 4% del totale. In prospettiva il divario si accentuerà: nel 2027 il debito centrale salirà a 3.248 miliardi, mentre quello locale scenderà a 104 miliardi.

Una nota positiva si può trovare nei dati relativi al contrasto all’evasione fiscale, poiché nel 2023 è stato raggiunto il valore più elevato degli ultimi anni in termini di recupero di gettito. L’Agenzia delle entrate ha infatti riscosso complessivamente 24,7 miliardi di euro.

Il dato è coerente con la diminuzione del “tax gap”, ossia la differenza tra quanto si stima che si sarebbe dovuto versare e quanto effettivamente è stato versato, che nel 2021 aveva raggiunto il livello più basso da decenni con 83,65 miliardi di euro. I passi avanti nel contrasto a chi non versa il dovuto al fisco sono evidenti, ma resta ancora molto da fare, visto che le cifre recuperate rappresentano meno del 30% di quanto evaso.

Ultima annotazione: nella premessa al DEF Giancarlo Giorgetti, Ministro dell’Economia e delle Finanze, scrive: “Le azioni del Governo saranno rivolte a migliorare non solo i saldi di competenza, ma anche quelli di cassa, abbassando così il profilo del rapporto debito/PIL già nel breve periodo”. Visti i dati contenuti nel DEF viene il dubbio che il ministro non l’abbia letto con la dovuta attenzione.

 

Il debito pubblico, paragone sbagliato

Il debito pubblico giapponese, pari al 258% del PIL, è il più alto al mondo ed è stato fatto costantemente lievitare negli ultimi trent’anni con l’obiettivo di stimolare la crescita dell’economia. Si tratta tuttavia di un debito che non ha mai suscitato preoccupazioni da parte degli investitori internazionali.

Questa particolare condizione del Giappone sta diventando un caso di scuola in Italia, dove alcuni politici e, soprattutto, qualche economista della Lega si sono spinti fino a sostenere che anche il ragguardevole debito pubblico italiano, pari al 140% del PIL, possa non rappresentare un problema. Si tratta di affermazioni preoccupanti e per varie ragioni prive di fondamento. Cominciamo col dire che il debito pubblico giapponese è in gran parte detenuto dalla Banca Centrale e per la restante parte da investitori giapponesi. Questi ultimi non hanno alcun interesse a diventare creditori ostili al proprio Paese.

Il nostro debito, invece, è detenuto per un quarto dalla Banca d’Italia, per un quarto dalle banche nazionali, per un quarto da investitori internazionali e per un ultimo quarto da assicurazioni, fondi pensione, residenti privati e aziende. Un rilevante nocciolo duro dei detentori del nostro debito è quindi molto attento al rapporto (spread) tra i titoli pubblici italiani e i bond tedeschi, giudicati i più affidabili in ambito europeo, tanto che proprio all’andamento di questo rapporto è continuamente ricondotto il livello di affidabilità nazionale.

Un secondo aspetto è che da tempo il «deficit» del bilancio giapponese, cioè la differenza tra le entrate dello Stato e le spese, è costantemente in calo e ciò contribuisce a non far crescere il debito. Nel caso dell’Italia, viceversa, il deficit è in costante crescita. Attualmente è pari al 7% del PIL. Questo comporta una spesa per interessi superiore ai 60 miliardi l’anno che provoca un continuo aumento del debito. Non a caso, le regole contenute nel nuovo Patto di stabilità sono particolarmente severe riguardo al deficit dei Paesi membri, prevedendone una necessaria, anche se graduale, riduzione fino all’1,5% del PIL. Altra grande differenza tra noi e il Giappone è che la loro spesa pensionistica è del tutto sostenibile dalla finanza pubblica interna, nonostante una popolazione che, come la nostra, ha un’aspettativa di vita sempre maggiore. Ciò, grazie a una serie di riforme che hanno portato l’età pensionabile a settant’anni. Il sistema pensionistico italiano, per motivi soprattutto politici legati a una spasmodica ricerca del consenso, non è stato quasi mai oggetto di riforme sostanziali che riuscissero a renderlo meno oneroso per le future generazioni.

Altro aspetto da non trascurare è che, secondo calcoli dell’Osservatorio dei conti pubblici italiani, lo Stato giapponese possiede attività non finanziarie, come gli immobili, per un valore che va oltre il 100% del PIL e titoli finanziari per il 112% del PIL. Lo Stato italiano detiene attività non finanziarie pari al 52% del PIL e attività finanziarie pari al 28% del PIL.

Il patrimonio è da sempre il principale strumento a disposizione dei creditori e lo Stato, in caso di necessità, può vendere immobili e titoli finanziari per ripagare il proprio debito. Il Giappone vendendo soltanto una parte del patrimonio potrebbe già dimezzare il debito. Non è un caso che fino ad oggi non abbia mai vissuto una crisi di fiducia da parte degli investitori, così come accaduto all’Italia durante la crisi dei debiti sovrani del 2011 e 2012. C’è poi la gestione dei conti pubblici, dove il Giappone si è sempre dimostrato prudente, riuscendo a contenere la spesa corrente e a rendere efficiente l’apparato dello Stato. Ha, tra l’altro, adottato una riforma fiscale che prevede aliquote che vanno dal 5% al 45% a seconda dell’ammontare del reddito e un’aliquota forfettaria del 23,9% per le società. Questa scelta di progressività fiscale, che tende alla redistribuzione della ricchezza, ha reso irrilevante l’evasione che nel nostro Paese ammonta a oltre 90 miliardi l’anno. Ecco perché, per tutto questo insieme di oggettive, differenti storie ed esperienze socioeconomiche, appare quanto mai inopportuno ogni accostamento del debito giapponese al nostro.

Fonte: https://www.ecodibergamo.it/stories/premium/Editoriale/il-debito-pubblico-paragone-sbagliato-o_2126623_11/

 

Intrappolato dal debito pubblico annaspa il governo di G. Meloni

L’ultimo DEF che il ministro dell'economia e delle finanze Giancarlo Giorgetti dovrà predisporre e inviare al Parlamento - entro il 10 di aprile - prima dell’entrata in vigore, a settembre, delle nuove regole comunitarie del "Patto di Stabilità e Crescita" si profila non scevro da difficoltà, sia per il contesto politico in cui si pone, sia per lo stato dei conti pubblici del nostro Paese.

Il contesto politico. E' già certo, per stessa ammissione del responsabile del dicastero economico, l’invio di una “raccomandazione della Commissione Europea al Consiglio per l’apertura di una procedura di disavanzo eccessivo nei confronti dell’Italia, ma anche nei confronti di altri paesi”. Si suppone siano una decina o forse più sul totale dei ventisette Paesi. Ed è una procedura che imporrà loro, insieme con l’Italia, di ridurre dello 0,5 per cento all’anno la spesa pubblica “netta”, ovvero quella che esclude gli interessi sul debito pubblico e altre spese straordinarie.

Nel mentre, il ministro Matteo Salvini sembra non essere particolarmente turbato dalla notizia perché alcuni giorni fa ha annunciato l'ennesimo “condono”, questa volta edilizio, un piano “Salva Casa”, per sanare lievi irregolarità che bloccano le transazioni nel settore immobiliare – di cui si sa ancora poco, se non che il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha rivendicato che analoga proposta, presentata dal suo partito “Forza Italia”, è già incardinata nella programmazione dei lavori del Senato. Pare che gli abusi da sanare siano quattro milioni...

A complicare la situazione è il ritorno delle regole del Patto di Stabilità e di Crescita, sospeso per gli anni della pandemia e della guerra. Rispettare il nuovo Patto - con i vincoli addizionali voluti dalla Germania che lo hanno reso più incisivo, rispetto alla proposta originaria della Commissione Europea - sarà più difficile per l’Italia, anche se per il prossimo triennio il governo italiano ha potuto ottenere qualche agevolazione. Ma è prevedibile che problemi più seri li avranno i prossimi governi, dopo la conclusione dell’attuale legislatura.

I conti. Non sarà un esercizio facile per Giorgetti presentare il nuovo documento di economia e finanza in presenza di una situazione dei conti pubblici nazionali piuttosto deteriorata, con un deficit (differenza tra entrate e spese) a chiusura dell’esercizio 2023 di 40 miliardi maggiore del previsto – causa principale, sempre secondo il ministro, il superbonus edilizio costato 114 miliardi in tre anni e mezzo e che pare si attesterà alla fine sopra i 210 miliardi di euro; con una crescita del Prodotto Interno Lordo (la ricchezza del Paese) nel 2024 minore delle previsioni fatte nello scorso ottobre e, di conseguenza, con un rialzo prevedibile del debito pubblico.

Un anno fa le previsioni del deficit si attestavano al 4,5%, salito al 5,3% con la nota di aggiornamento di settembre 2023, e stimato dall’ISTAT a marzo scorso al 7,2% in rapporto al PIL. Ma pare che salirà ancora, forse oltre l’8% per effetto dell’aggiornamento dei conti del ministero connessi alla spesa del superbonus edilizio.

Giova ricordare che il nuovo patto di stabilità e di crescita europeo ha mantenuto fermo il rapporto deficit/PIL al 3%. Ma non è più sufficiente garantire che il rapporto deficit/PIL rimanga sotto il 3% perché per i Paesi con debito/PIL maggiore del 90% il disavanzo (o deficit) deve scendere sotto l’1,5% del PIL. Così come il rapporto debito/PIL ha mantenuto, con le nuove regole, la percentuale del 60%. Al momento la previsione dell’ammontare del debito pubblico per l’Italia si aggira tra il 138 e il 140 per cento del PIL, ovvero più di due volte tanto il parametro imposto dalla UE. In valore nominale, al 31 marzo 2024 il debito pubblico italiano è pari a 2'436 miliardi di Euro.

Incertezza sul cuneo fiscale. In questo quadro appare molto improbabile poter trovare i soldi per garantire il taglio del cuneo fiscale (riduzione delle imposte e dei contributi) ai lavoratori, finanziato solo per il 2024 e poter dare risposte efficaci, soprattutto in vista dei prossimi appuntamenti elettorali e delle pressioni politiche inevitabili da parte dei membri del Governo. Ma sembrerebbe che il DEF in preparazione sarà il risultato di un documento “asciutto” dove, per sottrarsi all'onere di spiegare agli italiani la reale situazione dei conti pubblici, il governo rinvierà all’autunno ogni decisione, compresa quella sul finanziamento del taglio sul cuneo fiscale (quindici miliardi di Euro finanziati “una tantum”).

La stretta dell’Europa sui conti pubblici

Lo scorso 10 febbraio i negoziatori del Parlamento e del Consiglio UE hanno raggiunto un accordo sulla riforma del vecchio patto di stabilità.

In merito alle nuove regole definite, delle quali si parla molto in questi giorni e spesso a sproposito, sarebbe opportuno chiedersi se siano più o meno severe rispetto a quelle sospese nella primavera del 2020 a causa del COVID. Il nuovo accordo prevede che i Paesi con un debito eccessivo dovranno essere soggetti a una riduzione del passivo in media dell’1% all’anno se il debito è superiore al 90% del PIL e dello 0,50% se il debito è compreso tra il 60% e il 90% del PIL. Si tratta di disposizioni meno restrittive rispetto a quelle del precedente accordo, peraltro mai applicato, secondo cui ogni Paese, per garantire la sostenibilità del debito, lo doveva ridurre annualmente di 1/20 dell’eccedenza al di sopra del 60%. Risultano tuttavia più restrittivi i requisiti riferiti al rapporto deficit PIL, che in precedenza era stato fissato al 3% e che con la nuova riforma dovrà tendere all’1,5% del PIL, al fine di creare riserve di bilancio.

Ciò comporterà per l’Italia l’impossibilità di ricorrere al «deficit», così come avvenuto per l’ultima legge finanziaria (14 miliardi) e l’eventualità di essere assoggetta a una «procedura di deficit eccessivo», in quanto il deficit pubblico quest’anno e nel 2025 è previsto che tenda ben al di sopra del 3% del PIL (4,5%). Sull’applicazione di questi ultimi requisiti è prevalsa la consueta linea dura dei Paesi nordeuropei, che è stata fortemente contrastata da quelli più indebitati come il nostro. Questi ultimi hanno alla fine ottenuto che nel valutare le deviazioni rispetto al percorso stabilito la Commissione dovrà tenere conto degli investimenti già decisi in precedenza, in modo che il Paese interessato possa fornire argomentazioni contro l’applicazione di un’eventuale procedura. È stato inoltre previsto che ogni Paese membro potrà chiedere un’estensione del periodo di aggiustamento del bilancio - da quattro a sette anni - se realizzerà determinate riforme e investimenti che migliorino la resilienza e il potenziale di crescita, se sosterrà la sostenibilità del bilancio e se affronterà le priorità comuni dell’Unione che comprendono la transizione verde e digitale, la crescita economica e anche lo sviluppo delle capacità di difesa.

Non è stata accettata la richiesta di estendere il periodo di aggiustamento del bilancio a dieci anni, ma è stata prevista la possibilità di prolungare la vita degli stessi piani, di anno in anno, in presenza di circostanze eccezionali. Sul fronte degli investimenti è stata accolta la richiesta di escludere dal conteggio delle spese dei governi i fondi destinati a cofinanziare i programmi Ue, primi tra tutti quelli per la coesione. Questi fondi, unitamente a quelli strutturali europei, sono lo strumento finanziario principale attraverso il quale vengono attuate le politiche per lo sviluppo della coesione economica, sociale e territoriale e la rimozione degli squilibri economici e sociali. Rispetto alla proposta di riforma inizialmente avanzata dalla Commissione, gradita ai Paesi più indebitati, i Paesi del Nord - i cosiddetti «falchi» - hanno certamente recuperato terreno. Quella proposta avrebbe comportato che Commissione e singoli paesi potessero concordare un piano di rientro fatto su misura Paese per Paese.

I piani su misura sono stati confermati, ma i «falchi», non fidandosi di eccessive concessioni da parte della Commissione, hanno insistito affinché questi piani rispettassero i parametri rigidi predefiniti. In realtà, questi nuovi parametri non risultano particolarmente stringenti in materia di correzione dei conti e gli stessi Paesi del Nord si sono dimostrati meno spietati di quanto lo siano stati in passato. L’intesa raggiunta dovrà essere ratificata dal Parlamento e dal Consiglio europeo prima delle elezioni di giugno. Proprio questo importante evento, però, potrebbe indurre alcuni Paesi più indebitati a ostacolare tale ratifica, nella speranza che una nuova maggioranza nel Parlamento europeo possa rendere possibili ulteriori modifiche all’accordo in termini meno rigidi. La partita è quindi tutt’altro che terminata.

Fonte: https://www.ecodibergamo.it/stories/premium/Editoriale/la-stretta-delleuropa-sui-conti-pubblici-o_2076097_11/

formiche

banner ARDeP 2016 compressor