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articolo tratto da Il Foglietto della ricerca
di Franco Mostacci

E’ da molto tempo che Padoan continua a ripetere che il debito pubblico diminuirà e lo ha ribadito anche la scorsa settimana a Washington, durante la riunione del Fondo Monetario Internazionale, promettendo una discesa significativa nel 2018.

Per evitare equivoci, chiariamo che il ministro dell’Economia non intende dire che negli anni a venire possa scendere il livello dello stock di debito, ma solo che lo stesso possa ridursi rispetto al Pil. In pratica, se il debito crescerà, ma in misura minore di quanto aumenterà il Pil, il rapporto tra i due – che secondo le regole europee dovrebbe convergere verso la soglia del 60% - cala.

A dir la verità, nel 2015 il rapporto è già sceso per la prima volta dal 2007 a 131,5% (era 131,8% nel 2014), ma solo a seguito di una revisione al rialzo del Pil, resa nota di recente dall’Istat.

Tra il 2008 e il 2016, l’ammontare complessivo del debito pubblico è aumentato di 612,5 miliardi di euro, nonostante un avanzo primario di 181,2 miliardi, in quanto nello stesso periodo sono stati pagati interessi per 665,2 miliardi e flussi finanziari per 128,5 miliardi (di cui 35 di derivati sul debito).

La spesa per interessi, che aveva raggiunto gli 83 miliardi di euro nel 2012, quando lo spread era ai massimi, si è progressivamente ridotta grazie soprattutto agli acquisti di titoli di Stato da parte della Bce, prima direttamente e poi per il tramite della Banca d’Italia.

L’epoca del Quantitative easing volge, però, ormai al termine e, non appena la Bce – forse anche entro la fine di quest’anno - avrà reso note le modalità del tapering (l’uscita graduale), i tassi di interesse riprenderanno a salire, gravando ulteriormente sul debito pubblico.

Né troppo si può sperare nell’aiuto dell’inflazione, per due motivi. Il primo è che le prospettive di medio periodo non indicano una ripresa sostanziale dei prezzi (a meno di un’impennata del petrolio, che però porterebbe più sciagure che benefici). Il secondo deriva dal fatto che se è vero che una maggiore inflazione fa aumentare il Pil in termini nominali, riducendo quindi il rapporto, è altrettanto vero che fa crescere anche i tassi di interesse nominali, che lo Stato paga per rinnovare il debito in scadenza o finanziarne di nuovo.

Per lo Stato, quindi, costretto a ricorrere continuamente ai mercati finanziari, non c’è lo stesso vantaggio derivante da una maggiore inflazione, che hanno le famiglie (o le imprese) che hanno sottoscritto un mutuo a tasso fisso.

Insomma, tutti gli sforzi di risanamento fiscale condotti finora, sono stati divorati dalla spesa per interessi e non si vede come si possa uscire da questa spirale che alimenta il debito (a meno di ricorrere a strumenti non convenzionali), visto che anche secondo le stime del Governo, la crescita reale si manterrà abbastanza contenuta negli anni a venire.

Per il 2017, che volge ormai al termine, il valore obiettivo previsto dalla Nota di aggiornamento al Def per il debito pubblico è di 2.258,8 miliardi di euro, che dovrebbe garantire un livello di 131,6% rispetto al Pil, qualche decimale in meno dello scorso anno.

Sulla base dei dati preliminari sul fabbisogno dello Stato e sulla gestione della liquidità è possibile prevedere che a settembre toccherà i 2.284 miliardi di euro. Pur volendo considerare che dall’inizio dell’anno il conto di Tesoreria si è incrementato di circa 10 miliardi, non si scende al di sotto dei 2.274 miliardi. Sono 15 in più del previsto, quando mancano ancora tre mesi.

A pesare sul fabbisogno 2017 sono gli aiuti finanziari concessi alle Banche in deroga al bail in e che - a meno di recuperi clamorosi di fine anno dal lato delle entrate tributarie e contributive – non consentiranno ancora una volta al Governo di rispettare gli impegni presi sul debito pubblico.

franco.mostacci@ilfoglietto.it
www.francomostacci.it
twitter: @frankoball

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