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La Corte dei Conti ha certificato che nel 2016 la spesa complessiva dello stato italiano ha totalizzato 829 miliardi coperti per l’86,5% da entrate fiscali, ossia ricchezza prelevata ai cittadini, e per il restante 13,5% da altre entrate come affitti, concessioni, vendite di immobili, indebitamento.

Le entrate fiscali comprendono tre grandi categorie: i contributi sociali, le imposte dirette e le imposte indirette. I contributi sociali sono prelievi sulla produzione, in parte a carico dei lavoratori, in parte dei datori di lavoro, e sono utilizzati per pensioni e altre provvidenze di carattere sociale. Le imposte dirette sono prelievi sugli introiti dei cittadini. Le imposte indirette sono prelievi sugli acquisti per beni e servizi. L’analisi dei dati rivela che oggi i tre settori contribuiscono al gettito fiscale in misura quasi paritaria. Più precisamente nel 2016 i contributi sociali hanno rappresentato il 31% del gettito fiscale, le imposte dirette il 35%, quelle indirette il 34%. Situazione piuttosto diversa da quella del 1982 quando i contributi sociali rappresentavano il 40% di tutte le entrate fiscali, le imposte dirette il 35%, quelle indirette il 25%.

Ma per capire come sia cambiata la politica fiscale in Italia, più che concentrarci sulla composizione del gettito fiscale, conviene focalizzarci sulla pressione fiscale, il valore che indica la porzione di prodotto nazionale assorbita dal prelievo. Nel 2016 la quota complessiva prelevata dalla pubblica amministrazione è stata pari al 42,9% del Pil, il 10,5% in più di quella prelevata nel 1982 quando era al 32,4%. Ma l’aumento non è stato omogeneo per i tre canali. Per la verità la pressione fiscale dei contributi sociali è rimasta pressoché stabile nel tempo al 13% del Pil. Il vero balzo in avanti l’hanno fatto le imposte indirette che dal 1982 al 2016 hanno visto aumentare la propria pressione del 6,1%, passando dall’8,1% al 14,4% del Pil. Quanto alle imposte dirette, nello stesso periodo la loro pressione è aumentata solo del 3,6% passando dall’11,2 al 14,8% del Pil.

Il lotto e il gioco d’azzardo ci hanno messo del loro per fare crescere il gettito delle imposte indirette, ma il ruolo principale l’ha svolto l’IVA, l’imposta sui consumi che rappresenta il 60% dell’intero gettito indiretto. Lo dimostra l’andamento dell’aliquota ordinaria che è passata dal 18% nel 1982 al 22% nel 2016. Un aumento odioso pagato principalmente dalle categorie più povere che per definizione consumano tutto ciò che guadagnano. Uno schiaffo che brucia ancora di più se consideriamo che sulle imposte dirette è stata operata una certa regressività a vantaggio dei redditi più alti. Si prenda come esempio l’IRPEF, l’imposta sul reddito delle persone fisiche che rappresenta il 73% dell’intero gettito diretto. Quando venne introdotta, nel 1974, era formata da 32 scaglioni, il più alto dei quali al 72% oltre 252mila euro. Una grande parcellizzazione dovuta non alla bizzarria dei parlamentari, ma al rispetto dell’articolo 53 della Costituzione che espressamente recita: “Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”. Purtroppo non passò molto tempo e già si cominciò a picconare la progressività riducendo gli scaglioni e le aliquote sui redditi più alti. E se nel 1983 gli scaglioni erano già diventati 9, col più alto al 65% oltre 258mila euro, nel 2016 li troviamo a 5 col più alto al 43% oltre 75mila euro. Il risultato è che se nel 1983 su un imponibile di 252mila euro, non da lavoro dipendente, si pagavano 143mila euro di IRPEF, oggi se ne pagano 104 mila, praticamente 40mila euro in meno. Al contrario chi guadagnava 13mila euro nel 1983, 3mila euro pagava allora e 3mila euro paga oggi. Stante la situazione non deve sorprendere se l’82% dell’intero gettito IRPEF è pagato da lavoratori dipendenti e pensionati.

I ricchi sono stati favoriti non solo grazie all’accorpamento e all’abbattimento delle aliquote, ma anche perché non tutti i redditi concorrono al reddito complessivo su cui si calcola l’IRPEF. Un esempio è rappresentato dagli affitti su cui si può scegliere di pagare una cedolare secca del 21%. Altri esempi sono gli interessi bancari o i dividendi obbligazionari, su cui si applica un prelievo secco del 26%. E se è impossibile calcolare la perdita per le casse pubbliche di questa serie di favori accordati alle classi più agiate, di sicuro si può dire che contribuiscono ad aggravare le disuguaglianze perché favoriscono l’accumulo di ricchezza nelle mani di una minoranza. Basti dire che l’1% più ricco degli italiani possiede il 21,5% del patrimonio privato, mentre il 60% più povero non arriva al 15%. E poiché lo scandalo si fa sempre più grave, perfino l’OCSE invita a considerare l’introduzione di un’imposta progressiva sul patrimonio. In particolare sostiene che «ci potrebbe essere lo spazio per una tassa patrimoniale nei Paesi in cui la tassazione sul reddito da capitale è bassa e dove non ci sono tasse di successione». Un’esortazione che sembra diretta in maniera particolare all’Italia dal momento che non sono previsti cumuli, né per i redditi da capitale né per i valori patrimoniali, mentre l’imposta di successione è quasi inesistente. Se seguissimo il consiglio dell’OCSE, renderemmo un servizio non solo all’equità, ma anche alla sostenibilità dei conti pubblici da tutti invocata in nome del debito pubblico. Finalmente dalla parte dei cittadini più deboli come prescrive la Costituzione.

Originale su Avvenire del 18/4/18

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