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Debito

UE, parte l'iter per il nuovo Patto di Stabilità. L'Italia nel mirino.

Il vice presidente esecutivo della Commissione Europea, il lettone Valdis Dombrovskis, ha presentato ieri, 26 aprile 2023, le nuove proposte dei due Regolamenti del Patto di Stabilità e Crescita, (PSC) ,“preventivo” e “correttivo”, che l’esecutivo comunitario ha appena varato e che dovranno essere discusse dal Parlamento di Strasburgo e dai 27 stati membri. [1]

Il Patto, nato nel 1997 a seguito della firma del trattato di Maastricht del 1992, (che ha aperto la strada alla introduzione dell’Euro come moneta unica europea), limita per i paesi membri i disavanzi pubblici al 3 per cento[2] e i livelli del debito pubblico[3] al 60 per cento del prodotto interno lordo; la condivisione e il rispetto di tali regole è presupposto necessario per rafforzare il coordinamento delle politiche economiche e di bilancio nazionali e dell’intera Unione. Negli anni successivi, il Patto è stato perfezionato, rivisto ed emendato soprattutto con l’obiettivo di rafforzare il suo legame tra riforme strutturali, investimenti e responsabilità di bilancio, a sostegno dell’occupazione e della crescita.
Le proposte presentate dalla Commissione rappresentano pertanto il risultato di un lungo periodo di riflessione e di un ampio processo di consultazione, sospeso nel 2020 all’inizio della pandemia e rilanciato a ottobre del 2021, quando, una volta affrontate le carenze del quadro attuale, sono stati rilevati i punti di forza e rese evidenti le necessarie aree di miglioramento.

L’obiettivo è quello di rendere l’UE più competitiva dopo la crisi provocata dalla pandemia, di ridurre i livelli di debito pubblico notevolmente cresciuti in tale periodo e di preparare l’UE alle sfide future sostenendo i progressi verso una economia verde, digitale, inclusiva e resiliente in tutti gli Stati membri attraverso riforme e investimenti.

Viene prevista una maggiore “titolarità” nazionale secondo la quale i rispettivi governi dovranno presentare piani a medio termine definendo obiettivi di bilancio, misure per affrontare gli squilibri macroeconomici, riforme e investimenti prioritari per un periodo di almeno quattro anni. Tali piani saranno valutati dalla Commissione e approvati dal Consiglio sulla base di criteri comuni dell'UE, tenendo però conto delle diverse peculiarità di ogni paese.

Attualmente è prevista la riduzione del debito del 5% annuo (un ventesimo del gap tra valore e 60% PIL); prescrizione impossibile da rispettare, soprattutto per i paesi con un debito come l’Italia, secondo paese UE, dopo la Grecia, con debito più elevato (147% del PIL con un debito monetario di 2.743 miliardi di Euro ) perché vorrebbe dire 81 miliardi all’anno di riduzione.

Gli Stati membri beneficeranno di un percorso di aggiustamento di bilancio più graduale, rispetto alle regole attuali, se si impegneranno nei loro piani a favore di riforme e investimenti conformi a criteri specifici e trasparenti, attraverso percorsi “personalizzati”, per il rientro dei rispettivi deficit e la riduzione del loro stock di debito.

Tali percorsi prevedono che ogni Paese si ritrovi alla fine di ogni piano pluriennale un debito inferiore al livello iniziale, e che venga effettuato un aggiustamento fiscale dello 0,5% del PIL all’anno fintanto che il deficit di bilancio resta superiore al 3%, senza fissare valori specifici a cui tendere ma stabilendo regole più semplici. Come ad esempio utilizzando la spesa primaria al netto degli interessi per il calcolo del deficit, che per l’Italia valgono più di 60 miliardi all’anno.

La proposta dei due nuovi regolamenti resta tuttavia condizionata al consenso unanime di tutti i Paesi membri, che dovranno approvarla per renderla operativa già nel 2024. Già i cosiddetti paesi “frugali” (Germania e Paesi Bassi) hanno chiesto che i paesi ad alto debito lo riducano di almeno l’ 1% del PIL annuo (16 miliardi per l’Italia) a cui aggiungere il mantenimento della spesa pubblica annuale al di sotto della crescita potenziale del PIL (1%) (e non al di sotto del 3% del 3% come proposto dalla Commissione).

Resta in vigore l’apertura della procedura “per disavanzi eccessivi”, fatta salva la clausola di salvaguardia in caso di fattori “esterni” che permetteranno ai Paesi UE di avere un tempo più lungo per rientrare nei parametri.

Note

[1]Patto di Stabilità e Crescita (PSC). Tale patto si prefigge di garantire che la disciplina di bilancio dei paesi dell'Unione europea (UE) continui dopo l'introduzione della moneta unica. Formalmente, il patto di stabilità e di crescita è costituito da una risoluzione del Consiglio europeo (adottata nel 1997) e da due regolamenti del Consiglio del 7 luglio 1997 che ne precisano gli aspetti tecnici (controllo della situazione di bilancio e del coordinamento delle politiche economiche; applicazione della procedura d'intervento in caso di deficit eccessivi). L'applicazione, tuttavia, è stata debole, con conseguenti gravi squilibri di bilancio in alcuni paesi dell'UE, esposti quando la crisi economica e finanziaria ha colpito nel 2008.

[2] Disavanzo o deficit pubblico. Si manifesta quando il saldo tra entrate (gettito fiscale) e uscite (spesa pubblica più interessi sul debito già contratto) registra un valore negativo.

[3] Debito pubblico: quando la spesa pubblica supera l’ammontare del gettito fiscale lo stato ricorre al debito pubblico per finanziare il deficit o disavanzo che si è determinato. Il debito può anche definirsi come la “stratificazione, negli anni dei deficit” .Lo Stato finanzia il debito vendendo propri titoli in cambio di denaro che viene prestato da cittadini, banche o da stati esteri (questi ultimi lo detengono per circa un terzo) .

 

Fonte: https://www.laportadivetro.com/post/ue-parte-l-iter-per-il-nuovo-patto-di-stabilità-l-italia-nel-mirino

 

La lezione di Guido Carli su stabilità e crescita

Confermò l’applicazione dei parametri fissati dal Trattato di Maastricht (7 febbraio 1992), ossia deficit pubblico al di sotto del 3% del PIL e debito pubblico non superiore al 60% del PIL. Ribadì che gli Stati membri non rispettosi di questi criteri dovessero essere sottoposti alla «procedura per deficit eccessivo». Fino ad oggi la Commissione ha avviato varie procedure d’infrazione, ma nessuna procedura ha mai portato a una sanzione. Nel 2011, in presenza di un consistente livello del debito pubblico europeo, fu introdotto il «Fiscal Compact» (patto di bilancio), con la finalità di avviare un più celere rientro del debito dei vari Paesi attraverso l’inserimento nelle Costituzioni nazionali di alcune clausole, quali: obbligo del perseguimento del pareggio di bilancio; obbligo di non superamento della soglia di deficit strutturale superiore allo 0,5% del PIL; riduzione del rapporto debito pubblico-PIL, pari ogni anno a un ventesimo della parte eccedente il 60% del PIL; impegno a coordinare i piani di emissione del debito con gli organi europei.

Il Fiscal Compact, soggetto oggi a molte critiche perché considerato eccessivamente rigido, fu approvato rapidamente dal nostro Parlamento senza un doveroso approfondimento. La sua applicazione è stata sospesa a seguito dei problemi economici e sociali provocati dalla pandemia ed è stata prorogata nel maggio scorso fino alla fine del 2023 per le condizioni di estrema incertezza determinate dall’invasione russa dell’Ucraina e dall’aumento dell’inflazione. In previsione di questa scadenza, lo scorso novembre la Commissione ha presentato una nuova proposta di modifica del PSC che si propone di «contemperare la stabilità con la crescita». Di fatto, però, la proposta conferma il rispetto dei parametri in vigore senza tener conto che attualmente il debito di quasi tutti i Paesi è prossimo o superiore al 100%.

Da qui la richiesta di questi Paesi, tra cui Francia e Italia, di prevedere un sensibile aumento del parametro del 60% del PIL, nonché un allungamento dei termini per il rientro dal debito per approfittare di possibili fasi di crescita sostenuta. Per un Paese come il nostro, che ha un debito pubblico intorno al 145% del PIL, il mantenimento del rientro al 60% del rapporto debito-PIL in vent’anni implicherebbe l’adozione di manovre finanziarie così restrittive da impedire la destinazione di sufficienti risorse per la crescita. Trovare un accordo tra i vari Paesi che concili «stabilità e crescita» sembra assai arduo perché Germania e Olanda pongono in primo piano l’esigenza della stabilità. La Commissione si appresta ad avanzare alcune modifiche, richieste dai Paesi in disavanzo eccessivo, tra cui il nostro, improntate a una maggiore flessibilità che, da quanto è dato sapere, terrebbero conto della «sostenibilità» del debito e introdurrebbero un criterio annuo di calo del debito dello 0,5%, su cui si oppone la Germania.

Sull’opportunità di adottare criteri di maggiore flessibilità si batté, a suo tempo, Guido Carli nel corso del negoziato per il Trattato di Maastricht. L’allora ministro del Tesoro, già Governatore della Banca d’Italia dal 1960 al 1975, riuscì, in virtù della propria autorevolezza, a fare inserire nel testo del Trattato la clausola del 3% del PIL, onde consentire agli Stati più indebitati un più graduale avvicinamento al 60% del rapporto debito-PIL. Questo criterio di convergenza graduale, che consentì all’Italia di entrare in Europa, garantiva la flessibilità necessaria per osservare il rispetto della sostenibilità della finanza pubblica senza soffocare la spesa per investimenti, indispensabile per la crescita. In realtà, di questa flessibilità l’Italia non ha saputo giovarsi. Oggi, Giorgia Meloni è determinata nel sostenere che «sarebbe tragico tornare ai parametri precedenti» annunciando «una lotta serrata in sede di trattative». Purtroppo, in quella sede non ci basterà «battere i pugni sul tavolo», perché ci presenteremo poco credibili non avendo tenuto in alcun conto la lezione di Guido Carli di cui quest’anno ricorre il trentennale della morte.

Fonte: https://www.ecodibergamo.it/stories/premium/Editoriale/la-lezione-di-guido-carli-su-stabilita-e-crescita_1475165_11/

 

Il preoccupante aumento degli interessi sul debito pubblico

Il Governo ha presentato il nuovo DEF (Documento di Economia e Finanza), che prevede una crescita del PIL (Prodotto Interno Lordo) dell’1% nel 2023, dell’1,5% nel 2024, dell’1,3% nel 2025 e dell’1,1% nel 2026.

Sembrano dati abbastanza positivi, ma se andiamo a vedere le previsioni del DEF sull’aumento degli interessi sul debito pubblico, la preoccupazione è notevole. Questo incremento del costo del debito è dovuto al rialzo dei tassi di interesse fissati dalla BCE (Banca Centrale Europea). Ovviamente ne risentono di più i Paesi più indebitati e l’Italia - purtroppo - è in cima alla classifica.

La spesa per interessi sul debito dello stato italiano, che negli ultimi anni si era attestata intorno ai 60 miliardi di euro all’anno, si prevede che sarà di 75 miliardi nel 2023, 86 miliardi nel 2024, 91 miliardi nel 2025 e 100 miliardi nel 2026.

Si tratta di risorse pubbliche che potremmo definire “sprecate”, poiché non verranno utilizzate per fare investimenti o per finanziare servizi ai cittadini, ma finiranno nelle tasche di chi possiede titoli di stato, cioè dei creditori. Di conseguenza, nei prossimi anni tendenzialmente ci saranno sempre meno risorse a disposizione per politiche sociali, sanitarie, scolastiche, ambientali, ecc., poiché verranno sempre più erose dagli interessi da pagare sul debito.

Di fatto il debito pubblico è la principale palla al piede dell’Italia. Ogni anno viene chiuso il bilancio in deficit a causa degli interessi sui debiti pregressi. Ogni anno si spera che l’economia cresca, cioè in un aumento del PIL per contenere il rapporto debito/PIL.

“Soltanto con la crescita riusciremo a risolvere il problema del debito pubblico italiano”: è questo il mantra che abbiamo sentito negli ultimi decenni. In realtà, se la crescita non arriva o peggio si materializza una crisi, ci troviamo immediatamente nei guai. E infatti il debito nel frattempo non è diminuito.

Il DEF prevede che il rapporto debito/PIL nel 2023 sia del 142,1% e che scenda molto lentamente negli anni successivi fino al 140,4% nel 2026. Insomma, anche nel 2026 la condizione debitoria dell’Italia sarà simile a quella attuale.

Una classe politica seria dovrebbe porre questo tema all’ordine del giorno e cercare di trovare una soluzione strutturale. Da almeno 15 anni non accade. E così continuiamo a galleggiare sereni sulle onde del debito fino al prossimo maremoto. Sapendo che i più ricchi se la caveranno comunque. Gli altri no.

 

L’Italia verso il 2070 secondo il DEF

Nel Documento di Economia e Finanza (DEF) approvato l’11 aprile scorso dal Consiglio dei Ministri ci sono alcune interessanti tabelle con dati e grafici, soprattutto per le proiezioni fino all’anno 2070. Il confronto tra i dati attuali e quelli previsti nei prossimi 50 anni, rivela qual è la prospettiva e la visione dell’Italia che verrà.

Anzitutto è previsto che fino al 2070 le spese pubbliche saranno superiori alle entrate pubbliche. Il che significa che il bilancio dello stato italiano continuerà a chiudere in rosso ogni anno.

Nel 2020 le spese sono state il 57% del Prodotto Interno Lordo (PIL), mentre le entrate sono arrivate soltanto al 47,3%. Nel 2045 si prevede una spesa del 55% ed entrate pari al 47,6%. Nel 2070 le spese scenderanno al 51,5%, mentre le entrate resteranno al 47,6%. Ci sarà comunque ogni anno un deficit.

Di conseguenza non stupisce la previsione del costo per gli interessi sul debito pubblico. Nel 2020 è stata del 3,5% del PIL, nel 2045 arriverà al 7,1% (il doppio!) e nel 2070 scenderà al 6,4%. La media della spesa per interessi tra il 2020 e il 2070 sarà superiore al 6% annuo rispetto al PIL. In 50 anni significa che l’Italia sborserà oltre il 300% del PIL per rimborsare gli interessi sul debito accumulato, cioè l’intero PIL ogni 16 anni!

Entrando più in dettaglio rispetto alla tipologia di spese, per la sanità nel 2020 si è speso il 7,4% del PIL. Nel 2025 si prevede di scendere al 6,2%, per poi risalire lentamente fino al 7,2% del 2050 e 2070. La drastica riduzione di 1,2 punti di PIL prevista tra il 2020 e il 2025 (cioè oltre 20 miliardi di euro di differenza) è impressionate. A quanto pare la pandemia non ha insegnato nulla.

La spesa socio-assistenziale salirà dall’1,1% del 2020 all’1,4% del 2050 e 2070. Un aumento probabilmente insufficiente se si considera che in Italia la popolazione anziana (over 65 anni) era del 23,2% nel 2020 e sarà al 33% nel 2070.

La spesa per le pensioni è stata del 16,9% del PIL nel 2020 e si prevede che scenda al 15,8% nel 2050 e al 13,8% nel 2070. Il dato sembra in contraddizione con il notevole incremento dell’indice di dipendenza degli anziani (cioè il rapporto tra pensionati e lavoratori attivi), che dal 36,4% del 2020 arriverà sopra il 60% già nel 2045 e rimarrà sostanzialmente stabile fino al 2070. Dato che il numero di pensionati in percentuale è destinato ad aumentare, se ne deduce che la media del valore delle pensioni tenderà ad abbassarsi.

Uno dei pochi dati che si possono considerare positivi è la partecipazione delle donne al lavoro. Nel 2020 è stata del 54,1%, nel 2030 dovrebbe raggiungere il 60% e si prevede al 62,6% nel 2070.

La spesa per l’istruzione è stata del 4% del PIL nel 2020. Si prevede che scenda al 3,4% nel 2035 e fino al 2070. La diminuzione viene giustificata con il calo degli studenti indotto dalle dinamiche demografiche, ma probabilmente senza tenere conto della evidente necessità di aumentare il tempo dell’obbligo scolastico e l’investimento per l’istruzione.

Il debito pubblico, che nel 2020 è stato del 155% rispetto al PIL, dovrebbe toccare il punto più basso (circa il 140%) nel 2026, raggiungere il record assoluto (circa il 180%) nel 2055, per poi ridiscendere (a circa il 165%) nel 2070. I dati sono assai preoccupanti, poiché l’Italia non è mai stata così indebitata.

Molto interessante l’influsso delle politiche migratorie rispetto allo sviluppo del debito pubblico previsto nel DEF: “Si osserva un impatto particolarmente rilevante, in quanto, data la struttura demografica degli immigrati che entrano in Italia, l’effetto è significativo sulla popolazione residente in età lavorativa e quindi sull’offerta di lavoro. Il rapporto debito/PIL nei due scenari alternativi a fine periodo arriva a variare rispetto allo scenario di riferimento di oltre 30 punti percentuali”.

Secondo i calcoli del DEF se gli immigrati aumentassero del 33% rispetto al ritmo attuale, nel 2070 il debito pubblico sarebbe più basso di almeno 30 punti rispetto al PIL (cioè circa 135% anziché 165%). Se invece il flusso degli immigrati calasse del 33%, nel 2070 il debito aumenterebbe di oltre 30 punti sul PIL (cioè dal 165% a circa il 200%). Dati e scenari che dovrebbero far riflettere.

Note sulla situazione economica italiana

Introduzione

Condivido la riflessione di Luciano Corradini che ha definito l’Italia un paese distorto e penso che anche la situazione economica italiana debba essere esaminata con sincerità e franchezza perché, nelle analisi correnti, vedo tanta confusione, che scambia le variabili dipendenti con quelle dipendenti nelle correlazioni e, di conseguenza la dinamica e la lettura degli avvenimenti. Inoltre, questa distorsione può diventare funzionale alla difesa di ciò che Keynes chiamava gli “interessi costituiti” e suggerire indicazioni inefficaci per la soluzione dei problemi economici e sociali del Paese. 

Le questioni interrelate, che qui affronto brevemente, sono due: la politica della crescita, misurata dalla dinamica del PIL, e quella del debito pubblico, finalizzata al controllo del suo rapporto con il PIL, da cui dipende la stabilità finanziaria del Paese. I traguardi immediati da perseguire sono due:

  1. tornare alla crescita (unico modo per creare reddito ed occupazione);
  2. risolvere nel medio e lungo periodo il problema dei debiti delle pubbliche amministrazioni.

 

La mancata crescita economica in Italia

Secondo le previsioni, per quanto riguarda il 2020 che si sta chiudendo, il Paese perderà il 9 per cento del PIL e, per capire l’importanza di questa recessione, ricordo che nel quinquennio 2008 – 2013, in piena crisi economica e finanziaria internazionale, l’Italia perdette il 9 per cento del PIL. Ma questa perdita di reddito, seppure imponente, non è il problema più grave di questo Paese, che vede una stagnazione della sua produttività da trent’anni; dalla firma del trattato di Maastricht, nel 1992, il valore di questa variabile, che prevale in quest’ultimo trentennio, è lo zero. 

Per tornare alla crescita, da quarant’anni la comunità internazionale si è dotata di uno strumento, utilizzato per decenni nei Paesi in via di sviluppo (PVS) e in quelli emergenti, più recentemente anche dalla Banca centrale europea (BCE) ed ora anche dalla Commissione europea (CE): il finanziamento dello “sviluppo strutturale”, ossia di riforme ed investimenti per innescare un “circuito virtuoso” di crescita. Tali sono i vari Piani nazionali di ripresa e resilienza (PNRR). Con l’avvio del periodo di programmazione 2021-2027 e il potenziamento mirato dell’Unione europea (UE), decisi lo scorso luglio, l’attenzione viene posta sulla nuova politica di coesione e sullo strumento finanziario temporaneo da 750 miliardi di euro, denominato NextGenerationEU. Esso è stato pensato per stimolare una “ripresa sostenibile, uniforme, inclusiva ed equa”, volta a garantire la possibilità di fare fronte a esigenze impreviste. Si tratta del più grande pacchetto per stimolare l’economia mai finanziato dall’UE.

In questo contesto si inserisce il PNRR italiano, lo strumento che traccia gli obiettivi, le riforme e gli investimenti che l’Italia intende realizzare grazie all’utilizzo dei fondi europei, per attenuare l’impatto economico e sociale della pandemia e rendere l’Italia un Paese più equo, verde e inclusivo, con un’economia più competitiva, dinamica e innovativa. 

A questa considerazione si aggiunge la novità importante della sospensione del Patto di stabilità e crescita (PSC) e, di conseguenza, la questione della sostenibilità del nostro debito pubblico attraverso la repressione finanziaria1); ma tale problema si ripresenterà, con i rischi di sofferenza sociale che abbiamo visto imposti dalla Troika alla Grecia, una volta che saremo fuori dall’emergenza condivisa della crisi pandemica, se la nostra politica economica e la nostra struttura produttiva non cambieranno. Fare conto sull’approdo a un’unione fiscale europea è una fuga dalla realtà, quanto quella di pensare a un’unione politica vicina nel tempo; questa illusione ingenua, o colpevole, trascura l’assenza storicamente determinata delle condizioni necessarie per realizzare l’utopia di Altiero Spinelli e che sono declinate rispetto alla cultura, alla religione, alla lingua e soprattutto alla mentalità.

Il Meccanismo europeo di stabilità (MES)2) riformato avrà esiti di eterodirezione politica ben più cogenti delle regole formali poco efficaci (PSC sospeso e Fiscal Compact, finora rinviato), una volta che il nostro sistema bancario indebolito dai Non Performing Loans precedenti e posteriori a questa crisi dovesse imporre il Private Sector Involvement già codificato3).

Da diversi decenni, ormai, si sente parlare pubblicamente di riforme strutturali per favorire la crescita economica italiana4), ma quelle realizzate si sono rivelate insufficienti, soprattutto quelle per la lotta all’evasione fiscale e all’economia sommersa. Negli anni trascorsi, altre riforme sono state fatte ma poche sono state utili e positive, mentre molte inutili o peggiorative. Se si guarda al mondo dell’istruzione, ne è un esempio negativo il decennio compulsivo delle riforme dell’Università, che ha visto una riforma comunque necessaria inverarsi in una serie di provvedimenti che hanno peggiorato, piuttosto che migliorato, la preparazione dei nostri studenti5). Se si guarda alla scuola secondaria, si constata che il disconoscimento del merito è rimasto uno dei grandi handicap del Paese. Ma i problemi non riguardano solo la scuola e l’Università, ma anche la pubblica amministrazione. Anche qui, la produttività degli addetti viene meno e la speranza di un futuro migliore si spegne, se manca un’adeguata valutazione del merito. In questo senso, la nostra generazione ha disperso, in molti casi, un’eredità che avrebbe meritato un maggiore rispetto. 

Se non si fa chiarezza su queste cose continueremo a vedere contraddizioni gravi nella lettura della situazione economica e sociale e, di conseguenza, sulle azioni di politica economica necessarie per migliorarla. Molti intellettuali ed esperti continuano a lamentare che l’Italia abbia troppi pochi laureati e a fare paragoni con Francia, Germania e Regno Unito a questo riguardo.  Ma come si conciliano queste affermazioni con il fatto che molti dei migliori laureati italiani devono andare a cercare opportunità di lavoro all’estero, perché le imprese italiane non gliele offrono? Allora, sono pochi o sono troppi?

Negli ultimi decenni, la difesa degli interessi costituiti ha ostacolato le riforme strutturali necessarie. In assenza di queste, una parte consistente delle nostre imprese rischia molto insieme alle relative conseguenze occupazionali. Se questi problemi non vengono risolti, il declino del Paese non si arresterà6). Con le riforme inutili e peggiorative si è dato seguito a quanto Tomasi di Lampedusa narrava, oltre sessanta anni fa, sui cambiamenti avvenuti in Sicilia dopo la spedizione dei Mille. Tutto ciò ha contribuito, in modo gattopardesco, a un inquietante mascheramento delle responsabilità politiche interne negli ultimi decenni. A ciò si deve anche la scarsa consistenza degli investimenti diretti stranieri in un Paese gravato dai malfunzionamenti nei servizi essenziali, come la giustizia civile o l’universalità delle prestazioni spiegata dal Paradosso di Buchanan7), o l’ingente cuneo fiscale. Sappiamo inoltre, e da molti anni, che la competitività della nostra produzione non riguarda solo le imprese ma l’intero sistema paese. Ciò premesso, la stagnazione della produttività e quella, conseguente, della dinamica salariale hanno fatto sì che, negli ultimi venti anni i costi unitari del lavoro in Italia siano aumentati, invece che diminuiti, rispetto a quelli dei nostri partner comunitari.

Può essere una semplificazione, ma con la fine degli anni `60 finisce un periodo e ne inizia un altro, in cui anche la forbice tra i redditi del Mezzogiorno e quelli del Centro-Nord, che si era ridotta nel ventennio precedente, si è riaperta progressivamente8). Da allora sono passati cinquant’anni e si deve sperare che la pandemia, con la sua gravità, possa fare da levatrice ad un mutamento antropologico, a partire dai comportamenti politici, che restituisca fiducia alla popolazione e agli operatori perché è di questo che il Paese ha bisogno. 

Certamente, in questo mezzo secolo, l’Italia ha visto lunghi periodi di scioperi dei lavoratori ma anche periodi, ancora più lunghi, di “scioperi” degli investimenti. È noto a tutti che, nel nostro Paese, a crescere in modo continuo, è il flusso di risparmio, ma aumentano i depositi bancari, risorse che, se ci fosse fiducia, potrebbero essere spese in investimenti e consumi. Bisogna indurre coloro che hanno risorse a togliere i soldi dalle banche per portarli nell’economia reale, abbandonando il comodo, anche se rischioso, ricorso all’economia finanziaria per trovare rendimenti. Federico Caffe era contrario alla liberalizzazione dei capitali. Temeva ciò che poteva accadere a chi si sarebbe avvicinato ai mercati finanziari pur essendo ignaro dei rischi nascosti. Di fatto, a partire dagli anni ’80 del secolo scorso, diverse generazioni di risparmiatori sono state esposte a perdite consistenti, anche se a questi rischi non si sono sottratte nemmeno alcune istituzioni dedicate. Fare investimenti, dare occupazione, portare digitalizzazione e green economy, è questo lo “sciopero” che la politica deve interrompere. Anche il sindacato deve resistere, insieme al Governo, alla fuga dall’Italia della grande impresa di cui, dopo l’ultimo mezzo secolo, è rimasto solo qualche brandello. 

 

La politica del debito pubblico

Per la crisi da debito pubblico la strada maestra è l’allungamento delle scadenze dei titoli, in modo che esso venga smaltito man mano che si consolida il processo di crescita. Ha senso, a questo punto, pensare ad un consolidamento o alla cancellazione del debito pubblico? oppure ricorrere ad un’imposta patrimoniale? 

Sulla proposta recente di cancellazione del debito pubblico europeo, contratto per rispondere all’emergenza Covid-19, David Sassoli è restato solo ma ha tenuto il punto. Dopo il no della BCE, anche quelli di Gentiloni e Gualtieri: "Il debito si riduce con la crescita". Ma lui ha insistito: "È il momento del coraggio". L’entusiasmo è durato soltanto tre giorni: la sua proposta, lanciata domenica 14 novembre, ha avuto il merito di alimentare un vivace dibattito tra gli economisti, ma sul fronte politico si è già scontrata contro un muro perché non ci sono le basi giuridiche per una cancellazione del debito da parte della BCE9). Con questa ragione formale, la BCE e la CE hanno fermato sul nascere ogni ipotesi di eliminare parte dei debiti degli Stati membri e il governo italiano, che avrebbe potuto - teoricamente - trarre qualche vantaggio da tale dibattito visto il suo ammontare di debito pubblico, ha fatto capire che non intendeva assecondarlo.  Il presidente del Parlamento Europeo è rimasto così isolato nelle istituzioni comunitarie. 

Ora, con la pandemia, le condizioni di povertà si stanno ampliando nonostante il rapporto Debito pubblico/PIL dell’Italia sia vicino al 160%. Perciò il problema del debito pubblico italiano resta sul tavolo, anche se accantonato in questa fase di emergenza. 

Chi, tra economisti e politici, sostiene che il debito pubblico italiano non sarà mai pagato senza conseguenze, compie una sorta di rimozione, a una fuga dalla realtà10). Dimentica la drammatica esperienza, ancora abbastanza recente, della Grecia, iniziata nel 2009 e conclusasi formalmente nel 2018. Il governo greco fece l’amaro esperimento di dichiarare lo stato di insolvenza sul debito pubblico, che fu tagliato drasticamente del 70% nel 2012. In seguito a questo default, il Paese subì una recessione pesantissima, lunga quasi sette anni con una perdita di PIL del 25% e una disoccupazione salita oltre il 40%. I greci furono costretti a prendere i soldi dalla Cina, in cambio di alcune infrastrutture importanti, perché l’Europa non voleva darne altri, e Germania, Francia e Svizzera cercavano di recuperare quelli già dati. Lo scenario di lasciare l’Eurozona, reintrodurre la dracma e svalutarla per beneficiare di un vantaggio competitivo (per sua stessa natura transitorio) sarebbe stato molto più costoso. Il costo del debito denominato in euro sarebbe stato più alto e il Paese avrebbe perso l’accesso al sostegno del FMI e delle istituzioni europee. Inoltre, adottando misure protezionistiche e attuando politiche di repressione finanziaria (controlli sui capitali, gestione dei tassi di interesse, introduzione di obblighi di acquisti di titoli di Stato per banche e compagnie assicurative), avrebbe costretto la Grecia a uscire dall’UEM. L’esito del referendum del 2015 riflesse queste preoccupazioni. 

Questa è la situazione che anche l’Italia potrebbe avere davanti alla fine della pausa di cui si sta godendo la serenità, ma è una pausa che deve servire per cambiare politica economica, struttura produttiva e comportamenti degli operatori economici, se si vuole allontanare questi rischi. Infatti il problema si ripresenterà, con la non remota possibilità che si verifichi di nuovo, questa volta nel nostro Paese, quella sofferenza sociale che abbiamo visto al di là della sponda del Mediterraneo. Le posizioni ottimistiche, ma illusorie, cui si è fatto riferimento, non tengono conto del fatto che il debito pubblico eccessivo è la zavorra della politica economica che rende difficili gli interventi anti crisi.

Altrettanto si può dire per la proposta di alcuni anni fa, da parte di economisti italiani neomarxisti e sraffiani, di non perseguire il rientro del debito, bensì di stabilizzare il rapporto Debito/PIL e destinare al sostegno degli investimenti e del welfare le risorse da impegnare per il rimborso del debito, di trasformare, in altre parole, il debito pubblico italiano in debito “irredimibile”. Ma, a differenza di un passato in cui tutti gli strumenti di politica economica nazionale (sovranità monetaria, fiscale e valutaria) erano disponibili, da anni questi non lo sono più e i tassi di rendimento determinati dai mercati finanziari internazionali riflettono, con gli spread sui rendimenti dei titoli pubblici, la reputazione internazionale di cui gode il Paese. Inoltre, va ricordato che il debito pubblico è ricchezza privata e quindi gli effetti attesi dalla perdita di disponibilità di questa ricchezza partono dai consumi e procedono, drammaticamente, sul clima di fiducia di cui abbiamo tanto bisogno.

Infine, la tesi sostenuta da Luigi Pasinetti, con il suo modello dinamico della sostenibilità del debito pubblico, ipotizza implicitamente la possibilità di controllare il tasso d’interesse e il tasso di crescita11). Questa possibilità è invece in larga parte vanificata in presenza di un’ampia mobilità dei capitali e di un’economia aperta, anzi globalizzata, che non tollera regole. Sono illuminanti, in questo senso, le difficoltà poste all’introduzione della Tobin Tax, una tassa da lui proposta nel 1972, che prevedeva di colpire, con un’aliquota tra lo 0,5 e l’1 per cento, tutte le transazioni sui mercati valutari per stabilizzarli, penalizzando lievemente le speculazioni valutarie a breve termine e contemporaneamente per procurare entrate da destinare ai PVS.

Si dice, inoltre, che il debito italiano (oltre 2500 miliardi di euro nel 2020) non sarà mai pagato, come quello mondiale complessivo, 226 trilioni di dollari a dicembre 2020 di dollari, rispetto al PIL mondiale che era pari a 85 trilioni di dollari (il che vuol dire che il rapporto stimato del debito globale/PIL è pari al 250%12) ), e che, però, il sistema finanziario non crollerà perché i creditori non sono interessati a riscuoterlo. Infatti, l’eventuale sua restituzione li priverebbe degli interessi e soprattutto del potere che hanno sui debitori.

Trascurando la temporaneità di questo momento di pausa, qualcuno è andato oltre, tornando ad invocare l’unione fiscale e dimenticando che, nella storia, questa è legata all’unione politica, la sola che si può accompagnare alla disponibilità degli altri paesi a condividere i debiti. Ma sostenere che questa unione sia vicina nel tempo è solo un modo ingenuo, o colpevole, di ingannare la gente. Si deve prendere atto che ancora mancano le condizioni storiche affinché l’utopia di Altiero Spinelli si avveri. Manca la comunione, la condivisione della declinazione culturale, linguistica e religiosa. Manca soprattutto una visione unitaria. 

Infine, diversi economisti e politici italiani continuano, ancora oggi, a sostenere che il problema del debito pubblico è nato in Italia negli anni ’80 a causa dell’innalzamento dei tassi d’interesse e che la politica non ne ha colpa. I dati Eurostat mostrano, invece, che il rapporto debito pubblico/PIL in Italia, inferiore alla media europea fino al 1970, iniziò il suo percorso deviante da quel decennio, in cui la contestazione dello Stato e del sistema produttivo condusse la classe politica ad utilizzare diverse forme di illusione finanziaria e fiscale per mantenere il consenso13). Da allora sono passati cinquant’anni. Pertanto, se prima si è parlato di una stagnazione trentennale della nostra economia adesso si deve parlare di cinquanta anni di cattiva politica economica e finanziaria italiana.

Il recente balzo del rapporto debito pubblico/PIL dal 130% al 160%, dovuto soprattutto alle misure contro la pandemia, diventa grave perché si verifica, come si è detto, in una situazione trentennale di sostanziale stagnazione dell’economia italiana. Edwin Domar diceva che il debito non è un problema grave e irresolubile. Non lo è se un Paese cresce, lo diventa se il paese stagna se rimane fermo dinamicamente14). 

E nemmeno un’imposta patrimoniale generale servirebbe a scongiurare i rischi ricordati in precedenza, che sarebbero invece allontanati da uno Stato efficiente15). Il dibattito sulla patrimoniale non è nuovo in Italia, le sue applicazioni risalgono agli anni dell’Unità e proseguono fino ai nostri giorni. Nel Paese, vi sono già alcune imposte patrimoniali, che colpiscono la ricchezza liquida e finanziaria (imposta di bollo sui conti bancari), i beni mobili registrati (bollo auto e su natanti) e i beni immobili (imposta di registro e IMU). E ammesso che si introduca un’imposta che colpisca i patrimoni complessivi degli operatori, la sua aliquota non potrebbe che essere minima per non abbattere i prezzi degli assets colpiti, generando basse entrate. Ciò la renderebbe, quindi, inadeguata allo scopo di mettere in sesto i conti pubblici, i cui problemi sono dovuti anche a mezzo secolo di preferenza per la spesa corrente, a volte inefficiente, a discapito degli investimenti pubblici che si sono ridotti senza soluzione di continuità, nonostante l’aumento della pressione fiscale. 

Il punto è che questa situazione, che ho cercato di riassumere, viene vissuta da una popolazione senza fiducia e senza speranza, che sperimenta, da qualche decennio, una crisi demografica causata dal calo inesorabile delle nascite. Dove i figli non nascono vuol dire che molte coppie non li mettono al mondo, pur desiderandoli, perché hanno difficoltà a mantenerli e a farli crescere bene e non vedono prospettive di miglioramento che li motivano a farlo. Intanto si respingono gli immigrati che riescono a sbarcare sulle coste italiane o li si maltratta peggio che fossero schiavi. E, se un imprenditore, che ha milioni in banca, non li impiega per scommettere su un progetto dell’economia reale, come reagirà se gli si chiede di sostenere un’imposta sul suo patrimonio?

Da queste considerazioni discende che la strada salutare da percorrere per risanare la finanza pubblica italiana è quella di una ripresa della crescita, più che l’invocazione della cancellazione di una parte del debito o l’introduzione di un’ulteriore imposta patrimoniale. Ma, come si è detto, quel problema non viene affrontato seriamente da decenni, ed è diventato più arduo da quando non si sono più potuti mascherare gli esiti di una cattiva politica economica attraverso l’inflazione, la svalutazione della moneta e una politica incontrollata del debito. E, a partire dalla crisi greca, non è più neanche il tempo in cui l’appartenenza a un’Unione Monetaria consentiva di mascherare il rischio Paese alle Agenzie di Rating e ai mercati finanziari.

Voglio solo ricordare, in conclusione, che ci sono stati due studiosi americani che hanno fatto una ricerca quantitativa, a livello mondiale, per dare una risposta agli effetti del debito pubblico. Guardando a 150 paesi, essi hanno mostrato, con tutti i limiti della loro ricerca, che il finanziamento dell’economia in deficit, quello auspicato da Keynes in tempi di crisi (che in Italia invece è stato usato per troppi in senso prociclico), è una leva positiva per il sistema economico fino a quando il rapporto debito/PIL raggiunge la soglia del 90%, ma muta di segno (da positivo a negativo), quando la supera. Al di sopra di quella percentuale, il debito diventa un peso, una zavorra. Anche se il bilancio pubblico è in pareggio, la variazione del rapporto debito pubblico/PIL dipende dalla differenza tra il tasso di crescita reale del sistema economico e il tasso d’interesse reale16).

L’Italia è un paradiso fiscale, non solo per quanto riguarda i reati di evasione delle tasse, ma anche per quanto riguarda le imposte di successione, come ha ricordato Nicola Paglietti. Questo ci pone davanti a problemi di equità e di efficienza. L’imposta di successione tiene conto dell’incentivo a produrre per chi lascia in eredità un patrimonio, piuttosto che per chi lo riceve, se non quello, eventuale, di essere stato educato a gestirlo. Per quanto riguarda le imprese, i problemi del capitalismo famigliare non sono una novità per il nostro Paese.

 

Conclusioni

Certamente non bisogna abbandonare la lotta contro il debito. Ma quali strade rimangono da seguire per risanare la finanza pubblica italiana? È stato ricordato che la strada maestra è quella di tornare alla crescita della produttività e del valore aggiunto (pur con tutti i suoi limiti). Ma il debito pubblico è cresciuto, negli ultimi cinquant’anni, nonostante l’aumento della pressione fiscale. Certo c’è l’evasione, ma il debito pubblico non è cresciuto solo perché sono migliorati i servizi17). 

Si impone una svolta che non può prescindere da un cambiamento antropologico, a partire dalla politica. Andando in Danimarca, ci si sorprende del fatto che spesso, il cittadino, quando muore, piuttosto che a figli e nipoti, preferisce lasciare l’eredita allo Stato per il modo in cui vengono gestiti i servizi per la comunità. È un’applicazione della Bourdieu Economics18), rara nel nostro Paese. 

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Gian Cesare Romagnoli: Università degli Studi Roma Tre.
Email: giancesare.romagnoli@uniroma3.it

Questo è il testo rivisto dell’intervento al Comitato Direttivo dell’ARDeP (Associazione per la riduzione del debito pubblico), Brescia, 12 dicembre 2020. 

1 Con questa azione di politica economica si intende una situazione economica in cui il risparmio genera rendite molto basse, inferiori al tasso di inflazione. Di conseguenza il tasso di interesse reale dei titoli del debito pubblico è negativo. Si tratta quindi di una forma indiretta e non esplicita di ristrutturazione del debito pubblico.

2 Il MES, detto anche Fondo salva Stati, è un'organizzazione europea, nata nel 2012, per la stabilità finanziaria della zona euro, che avrebbe dovuto funzionare come fonte permanente di assistenza finanziaria per gli Stati membri in difficoltà, con una capacità di prestito massima di € 500 miliardi. L'assistenza conferita sarebbe però sottoposta a condizioni, trattandosi di uno strumento a disposizione dell'Unione economica e monetaria (UEM) affinché gli Stati adottino le misure necessarie per la stabilità economica, avendo come punto fermo il principio della responsabilità delle finanze pubbliche.  

3  Il Private Sector Involvement è una perifrasi per ristrutturazione del debito, ovvero un accordo con il quale le condizioni originarie di un prestito (tassi, scadenze, divisa, periodo di garanzia) vengono modificate per alleggerire l'onere del debitore. Ciò vuol dire che il MES farebbe credito sia a paesi il cui debito è giudicato sostenibile, ma che sono colpiti da shock esogeni al di fuori del loro controllo (a fronte di una semplice lettera di intenti) sia, sotto condizione, a paesi che non soddisfano tutti i requisiti, a fronte della sottoscrizione di un vero e proprio Memorandum of Understanding (ovvero un accordo bilaterale dettagliato tra il MES e lo Stato membro in difficoltà dell’Eurozona).

4 Vedi, a questo riguardo, Gnesutta C., Rey G.M., Romagnoli G.C. (2008), L’Italia non deve rinunciare alla crescita, in Gnesutta C., Rey G.M., Romagnoli G.C. (a cura di), Capitale industriale e capitale finanziario nell’economia globale, Il Mulino, Bologna.

5 Vedi Corradini L., Romagnoli G.C., (2014), Com’è cambiata l’università: la crisi di un modello e i tentativi di riforma, Dialoghi, n. 2, 30-38., pubblicato anche in Caimi L., De Martin G.C. (a cura di), Dalla scuola all’università, Quaderni di Dialoghi, 7, AVE, Roma, 2015, 79-86.

6 Vedi Romagnoli G.C. (2004), Istituzioni economiche e ristagno, in Salleo F. (a cura di), L’Italia, un paese in declino? Quarantennale delle Borse di Studio “Marco Fanno”, MCC, Roma, 79-90 e Idem (2006), Il declino economico relativo dell’Italia e la Legge Finanziaria 2006, in G. Trupiano (a cura di), Gli aspetti rilevanti della Legge Finanziaria 2006, Aracne, Roma, 31-45. 

7 Vedi Romagnoli G.C. (2018), Lezioni di politica economica, Franco Angeli, Milano, 216.

8 Vedi Romagnoli G.C. (1993), Le politiche di sviluppo nel Mezzogiorno, in C. Santoro Lezzi e A. Trono (a cura di), Atti del Seminario Internazionale: “1992 e Periferia d’ Europa. Prospettive regionali del Mercato Unico”, Patron Editore, Bologna, 617-34.

9 Questo perché l’articolo 123 del Trattato (TFUE) sancisce il divieto di operazioni di finanziamento da parte della Bce a favore dei Paesi membri. 

10 Vedi, ad esempio, l’articolo recente di Vincenzo Visco a sostegno della proposta di Sassoli: Visco V. (2020), I grandi debiti non si rimborsano, è la storia che lo dice, Il Sole 24 Ore, dicembre. Va ricordato, però, che, nel 2001, quando era Ministro del Tesoro, Visco aveva promosso la partecipazione dell’Italia alla cancellazione del debito estero di 22 paesi poveri con circa 4 miliardi di lire.

11 Vedi Pasinetti L. (1998), The Myth (or Folly) of the 3% Deficit/GDP Maastricht Parameter, Cambridge Journal od Economics, 22, 103-116.

12 Vedi FMI (2020), Record stimato del debito mondiale, Fiscal Monitor, Washington.

13 Vedi Romagnoli G.C. (2016), Debito pubblico e declino economico dell’Italia, Qualeducazione, n. 86,103-127.

14 Vedi Domar E.D. (1946), Capital Expansion, Rate of Growth and Employment, Econometrica, April.

15 Vedi Romagnoli G.C. Le funzioni economiche dello Stato in Italia”, in N. Acocella, G.M. Rey, M. Tiberi (a cura di), Saggi di politica economica in onore di Federico Caffé, volume III, Angeli, Milano 1999, pp.171-200 e Idem (2006), (2006), Istruzione e cambiamenti economici e sociali in Italia”, in L. Corradini (a cura di), Pedagogia e cultura educativa, Saggi in onore di Giuseppe Serio, Luigi Pellegrini Editore, Cosenza, 2006, pp.239-50.

16 Vedi Romagnoli G.C. (2018), Lezioni di politica economica… cit. 302-305.

17 Vedi Romagnoli G.C. (2016), Debito pubblico e declino…. cit. 

18 Vedi Bourdieu P. (1980), Le capital social: Notes provisoires, Actes de la rechehrche en sciences sociales, 31, 2-3.

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