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Bassi salari e precarietà bloccano crescita e dignità del paese

Lo sciopero generale promosso da CGIL e UIL, un successo nelle piazze, ha posto, al di là delle polemiche e delle strumentalizzazioni tipiche di ogni sistema politico, e dello strappo (si confida momentaneo) con la CISL una nuova attenzione per le condizioni dei lavoratori italiani, sempre più precari e sfruttati, sempre più esposti per assenze di tutele e prevenzioni a infortuni mortali sul lavoro (ieri se ne sono registrati 4, di cui due hanno riguardato persone che lavoravano in nero), ma soprattutto alle prese con un potere d’acquisto in caduta libera.

Ebbene sì, i lavoratori italiani sono oggi mediamente più poveri di 30 anni fa. E nel caso non se ne fossero accorti (ne dubitiamo), a ricordarlo sono i dati statistici e quelli dei rapporti di organismi nazionali e internazionali, ultimo quello elaborato e appena pubblicato dal CENSIS (il 55esimo) sulla situazione sociale del bel Paese.

Italia al 13° posto in Europa per salari medi annuali

Ma non basta, perché gli stessi dati ci raccontano che la perdita del potere d’acquisto dei lavoratori italiani (-2,9%) è unica in Europa nel confronto con tutti gli altri stati membri, in particolare con quelli a noi fisicamente più vicini come la Germania e la Francia, dove la crescita dei salari medi lordi nel trentennio della globalizzazione (1990–2020) è stata rispettivamente del 33,7% e del 31,1%. Mentre all’inizio degli anni ’90 l’Italia era al settimo posto nella classifica degli Stati europei con il salario medio annuale più alto, adesso si posiziona al tredicesimo posto superata anche dalla Spagna.

Intanto ritorna prepotente l’inflazione

Oggi, a fronte di una attesa stangata sulle tariffe di luce, gas, carburanti ed anche generi alimentari, i salari più bassi, che non saranno particolarmente beneficiati dai prossimi sgravi fiscali, verranno erosi da una nuova tassa occulta: quella dell’inflazione. Una contraddizione che appare insopportabile. Quali le cause e gli effetti di questa regressione dell’Italia su scala europea. Intervenendo all’Assemblea di Confindustria il presidente del Consiglio Mario Draghi ha messo sul piatto il progetto di un nuovo patto sociale tra Governo, Confindustria e sindacati. A memoria di chi scrive l’ultimo patto del genere nella storia italiana è stato quello del 1993, che ha sancito la disdetta della scala mobile, meccanismo di adeguamento automatico dei salari all’inflazione. O meglio: i rinnovi contrattuali non sarebbero più stati, da allora, adeguati al tasso di inflazione reale, ma a quello programmato fissato dal Governo nel Documento di Economia e Finanza.

Il pesante impatto dell’Euro sui prezzi al consumo

L’impatto dell’inflazione negli anni dell’Euro1 – il big bang è andato in scena il 1 gennaio 1999 con il debutto dell’Euro come moneta virtuale – ha influito, più che sugli altri 11 paesi inizialmente aderenti all’Euro, proprio sull’Italia. Avvenne per effetto degli aumenti percentuali cumulati dai prezzi dei beni di consumo (44%) rivelatisi maggiori rispetto alle variazioni percentuali cumulate sui redditi nominali disponibili delle famiglie italiane (38,5%). La diminuzione del reddito disponibile reale divenne così pari al 3,8%, l’unico con il potere di acquisto in calo in tutta l’area Euro. Fenomeno che appare del tutto italiano a fronte di un evento comune a tutta l’area europea.

I fattori che hanno pesato sono molteplici a cominciare allo smantellamento dei Comitati Provinciali Euro. Tali organismi, sia pure non abilitati direttamente al controllo dei prezzi nel delicato passaggio dalla lira all’euro, avrebbero potuto intervenire, segnalando eventuali abusi. Evidentemente, a mio avviso, gli abusi non soltanto non furono tempestivamente segnalati, ma contribuirono per effetto transitivo a dare l’assicurazione di impunità assoluta dinanzi all’innalzamento ingiustificato dei prezzi. Altri fattori possono essere rinvenibili durante l’ultimo ventennio, nella bassa produttività e crescita del PIL, nell’abbandono della politica industriale, nella crisi del 2008, nella politica fiscale e, in ultimo, nell’emergenza sanitaria.

Libere osservazioni sul salario minimo

Dallo stesso rapporto del CENSIS, che ci rivela l’esistenza di un mercato del lavoro sempre più sclerotizzato, emerge anche che tra i fattori che impediscono l’inserimento professionale ci sono le retribuzioni disincentivanti che i datori di lavoro – compresa la Pubblica Amministrazione – offrono in cambio di prestazioni lavorative caratterizzate da competenze e capacità adeguate, oggi possedute soprattutto dai giovani. Non deve stupire quindi la fuga di “cervelli” verso altri paesi europei in grado di offrire maggiori opportunità non solo di lavoro, ma anche di retribuzioni più adeguate e anche qui, per effetto transitivo, di maggiore dignità professionale.

Oggi l’Italia si trova tra i 6 Paesi su 27 dell’Unione Europea a non aver adottato un salario minimo universale. Secondo il criterio adottato dall’Unione Europea tale salario dovrebbe essere tra il 50% e il 60% dello stipendio mediano per essere proporzionale al costo della vita (fra 5,60 e 6,70 euro all’ora). In questi giorni la Commissione Lavoro del Senato ha avviato la discussione sulla proposta di legge che dovrebbe dare attuazione alle previsioni dell’art. 36 della Costituzione affinché ogni lavoratore abbia “diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro ed in ogni caso sufficiente ad assicurare a se e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.

Dopo 73 anni si discute ancora sull’applicazione di una norma costituzionale! Si tratta di capire se fissare a 9 euro – come si prospetta al Senato – la paga oraria al di sotto della quale il lavoro diventa sfruttamento può risolvere il problema o se non sono piuttosto la precarizzazione del lavoro, soprattutto giovanile, il lavoro sommerso e deprivato del contratto, il part – time involontario (imposto per riduzione dei costi) oggetto di intervento legislativo per affrontare nella sua complessità il tema dei bassi salari.

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1) L’Euro, valuta comune di diciannove stati membri dell’Unione europea, fu introdotto per la prima volta nel 1999 (come unità di conto virtuale); la sua introduzione sotto forma di denaro contante avvenne per la prima volta nel 2002, in dodici degli allora quindici Stati dell’Unione. Negli anni successivi la valuta è stata progressivamente adottata da altri stati membri, portando all’attuale situazione in cui diciannove dei ventisette stati UE (la cosiddetta Zona euro) riconoscono l’euro come propria valuta legale in: https://it.wikipedia.org/wiki/Storia_dell%27introduzione_dell%27euro

Fonte: https://www.laportadivetro.org/bassi-salari-e-precarieta-bloccano-crescita-e-dignita-del-paese/

La crescita del potere delle multinazionali

Le multinazionali hanno più potere degli stati nazionali. La frase può sembrare scontata, ma può risultare vera soltanto se viene documentata. A questo provvede meritoriamente il Centro Nuovo Modello di Sviluppo coordinato da Francesco Gesualdi, che pubblica da undici anni un report - ben strutturato anche graficamente - con aggiornamenti sulle 200 più importanti multinazionali a livello planetario.

Analizzando i dati relativi all’anno 2020 emergono aspetti rilevanti. Anzitutto che tra le prime 100 entità economiche mondiali, 30 sono governi di stati e 70 sono multinazionali. Il che dimostra la correttezza della frase iniziale. In questo confronto tra entrate pubbliche e fatturati privati in cima alla classifica ci sono gli USA, seguiti da Cina e Germania. La Walmart, al primo posto tra le multinazionali, si colloca al 9° posto, precedendo stati come Spagna, Russia, India, Australia e Brasile.

Il 2020 - a causa della pandemia - è stato un anno orribile. Tutti i bilanci degli stati hanno chiuso con forti deficit. Non è accaduto lo stesso alle multinazionali: soltanto 30 tra le prime 200 hanno chiuso in perdita, mentre 170 hanno registrato utili. Questi dati mostrano con chiarezza da quale parte stia pendendo la bilancia del potere economico e finanziario.

È anche interessante verificare quali siano le multinazionali che hanno avuto una crescita consistente negli ultimi 10 anni. Anzitutto Amazon che nel 2010 era al 269° posto, cioè fuori dalla classifica dei Top 200 e che l’anno scorso troviamo incredibilmente al 3° posto assoluto. Notevole anche la performance di Apple, che dal 111° di dieci anni fa è passata al 6° posto nel 2020.

Raggruppando le multinazionali per settori, in base al fatturato il 22% si occupa di commercio e trasporti, il 21% di finanza e assicurazioni, l’11% di energia e petrolio, il 10% di elettronica e computer, l’8% di autoveicoli. La prima multinazionale nel settore del commercio è la Walmart con un fatturato di 559 miliardi di dollari. Nel settore dell’energia il primo posto è occupato dalla China National Petroleum con un fatturato di 284 miliardi. Tra i costruttori di auto in cima alla classifica si attesta la Toyota Motor con 257 miliardi di dollari.

Il dossier curato dal Centro Nuovo Modello di Sviluppo contiene anche schede di approfondimento sulle multinazionali dei farmaci e dei vaccini, su Amazon, sull’economia dei militari in Egitto e Myanmar, sulla comunicazione dei grandi gruppi che cercano di presentarsi con la faccia pulita di chi ha a cuore le persone, l’ambiente, ecc.

Da segnalare la scheda dedicata agli stipendi d’oro nel 2020 dei top manager italiani, pubblici e privati, che non sembrano aver risentito della crisi. Michael Manley di Stellantis ha ricevuto un compenso di 11,7 milioni, John Elkann di EXOR 8,5 milioni, Francesco Starace di ENEL 7,5 milioni e Claudio Descalzi di ENI 6,0 milioni. La media degli stipendi dei top manager delle società quotate alla Borsa di Milano è di circa 2 milioni di euro, cioè 36 volte la retribuzione media degli altri lavoratori di queste società.

Questi dati dovrebbero far riflettere, poiché è evidente che il potere economico privato sta crescendo a discapito dell’interesse pubblico. In questa prospettiva non risulta fuori luogo quanto scriveva Louis D. Brandeis, membro della Suprema Corte degli Stati Uniti: “Possiamo avere la democrazia o la ricchezza concentrata nelle mani di pochi, ma non possiamo avere entrambe le cose”.

Il report completo del Centro Nuovo Modello di Sviluppo si può leggere qui:

http://www.cnms.it/categoria-argomenti/17-imprese-e-consumo-critico/200-top-200-2021

La riforma del catasto è ricerca di verità

Se qualcuno proponesse di pagare le imposte sulla base dei redditi di 30 anni fa, probabilmente si procederebbe con un TSO (Trattamento Sanitario Obbligatorio), una cura medica contro la volontà del proponente. Se per ipotesi assurda, infatti, la proposta venisse attuata, ci sarebbero contribuenti che oggi non pagherebbero nulla, poiché 30 anni fa non avevano reddito. Altri, invece, pagherebbero il doppio, poiché adesso percepiscono una pensione minima, mentre tre decenni fa avevano un stipendio più elevato. Insomma, si creerebbero piccole o grandi disparità, poiché in 30 anni la situazione personale può essere cambiata anche notevolmente. Tutti saremmo concordi nell’affermare che si tratterebbe di un’ingiustizia fiscale incostituzionale!

Se al posto dei redditi applicassimo la proposta alle rendite catastali degli immobili, il risultato sarebbe del tutto analogo. Ci sono case che 30 anni fa avevano un discreto pregio, ma che oggi sono fatiscenti. E altre che hanno acquistato valore, poiché il contesto è cambiato. Ci sono anche immobili che 30 anni fa non risultavano al catasto (costruiti abusivamente) e che oggi, rilevati, si potrebbero inserire nell’archivio catastale. In altre parole, anche per le rendite degli immobili si creerebbe un’evidente ingiustizia che troverebbe la contrarietà di ogni cittadino di buon senso.

Ma sappiamo tutti che le due situazioni sono differenti: attualmente per i redditi si tiene conto dell’aggiornamento annuale, all’opposto, per le rendite catastali i valori sono bloccati da oltre tre decenni. Ma la sostanza del ragionamento non cambia. Per ragioni di equità e correttezza si dovrebbe procedere all’aggiornamento dei valori catastali per avvicinarli il più possibile al valore reale di mercato.

Tuttavia, è curioso rilevare che in Italia proprio chi professa la libertà di mercato è contrario ad aggiornare il catasto ai prezzi di mercato. Liberisti ad oltranza soltanto quando conviene? Se si procedesse davvero all’attualizzazione del catasto, ovviamente non bisognerebbe ripetere l’errore di procedere una tantum, lasciando poi invariati i valori per altri decenni. Occorre introdurre un metodo che ogni anno aggiorni i valori effettivi, come si fa per i redditi.

In Francia, per non spingersi molto distante, funziona già così. E a nessun francese passa per l’anticamera del cervello che aggiornare i valori del catasto si traduca necessariamente in un aumento delle imposte. Si potrebbe anche decidere di lasciare sostanzialmente invariato il gettito proveniente dagli immobili, ma di rideterminare l’imposta corretta che ogni proprietario deve pagare sulla base della condizione reale degli immobili. Qualcuno pagherà di più, altri verseranno di meno. Non a caso, la Costituzione la chiama capacità contributiva, che deve essere anzitutto equa.

Poi si può discutere se le imposte sugli immobili siano troppo alte o troppo basse, se debbano essere proporzionali o progressive, se sia giusto utilizzare gli stessi criteri per un proprietario di due appartamenti e per un altro che ne possiede venti. In Italia sarebbe già una rivoluzione se le norme (in questo caso i valori catastali) fossero adeguate alla realtà. Tommaso d’Aquino, nel trovare corrispondenza con gli insegnamenti di Aristotele, scriveva che “veritas est adaequatio intellectus et rei”. Pertanto, quando i criteri non sono adeguati alla realtà, permaniamo nella falsità. Già, ma quanti politici italiani amano la “veritas”?

Fonte: https://www.laportadivetro.org/la-riforma-del-catasto-e-ricerca-di-verita/

Etica e “battaglie fiscali” del professor Corradini

In una società dove c’è chi non si vaccina perché tanto l’immunità di gregge la garantiscono i vaccinati, dove c’è chi fa di tutto per non pagare le tasse perché tanto i servizi pubblici li usa lo stesso, dove la furbizia trionfa sull’onestà e il consenso politico viene pagato con i soldi dei cittadini onesti, la lezione del prof. Luciano Corradini1, deve far riflettere sul mondo in cui vogliamo vivere e quello in cui vogliamo che vivano i nostri figli e nipoti. Luciano Corradini, insigne studioso, ha ricevuto l’ 11 ottobre 2021 il premio “Donato Menichella”, storico Governatore della Banca d’Italia dal 1946 al 1960. Anna Paschero, che ha partecipato alla premiazione ha tracciato questo ritratto di un personaggio poco noto, ma sicuramente fuori dal comune e di grande coerenza morale.

A 86 anni il professore continua la sua battaglia con la vivacità e lungimiranza di sempre. Non contano gli anni, ma la voglia di cambiare veramente questo Paese, dimostrando che l’indifferenza e le delusioni non devono far venir meno la voglia di combattere per un mondo più giusto. “Alla ricerca di un Tesoro nell’educazione” – il titolo della sua lezione raccontata “a braccio” per necessità di sintesi alla platea presente per la consegna del Premio “Donato Menichella”, alla sua ventesima edizione – parte dal rapporto all’Unesco della Commissione Internazionale sull’Educazione per il XXI secolo di Jacques Delors, europeista, ministro delle finanze della Repubblica francese durante la presidenza Mitterand a metà degli anni Ottanta, presidente della Commissione europea per dieci anni, dal 1985 al 1995. L’Educazione non come ideale cui tendere, ma come mezzo concreto per promuovere una forma più completa e armoniosa dello sviluppo umano; per ridurre povertà, esclusione, ignoranza, oppressione e anche la guerra. Non solo come processo continuo di miglioramento della conoscenza, ma come mezzo straordinario per favorire lo sviluppo personale e per costruire rapporti tra individui, gruppi e nazioni del mondo. L’Educazione per affrontare i “mali” che sono diventati più acuti, nonostante l’avanzare del progresso e della scienza, come l’esclusione sociale e la disoccupazione sempre più crescenti nei paesi ricchi e le disuguaglianze sempre più crescenti in tutto il mondo.

L’Educazione come mezzo per affrontare le minacce che incombono sul pianeta a fronte delle quali, nonostante l’opinione pubblica e la coscienza internazionali, non sono state ancora stanziate risorse né individuati rimedi. L’Educazione come attività permanente da svolgere per tutto l’arco della vita umana per consentire a tutti di sviluppare i propri talenti e la propria coscienza: imparare per tutta la vita rappresenta – come ha sostenuto Delors nel suo rapporto – una delle chiavi d’ingresso nel XXI Secolo. Imparare a vivere insieme, imparare a conoscere, imparare a fare, imparare ad essere, sono i quattro pilastri messi in risalto dalla Commissione Delors e richiamati dal prof. Corradini nel corso della sua lezione. Il Tesoro, con la T maiuscola, rappresenta i talenti che sono nascosti – come un tesoro sepolto in un campo – in ognuno di noi. Questo tesoro deve essere utilizzato per il bene di tutti. Il premio Donato Menichella di cui il Prof. Corradini è stato appena insignito rappresenta un riconoscimento non solo per la sua esperienza professionale, ma soprattutto per l’opera di “volontariato fiscale” da lui concretamente svolta (per ridurre la distanza tra la teoria e la pratica e tra la vita che si pensa e quella che si vive) con il versamento mensile per 15 mesi consecutivi, del 10% della sua retribuzione di docente universitario all’Erario.

Egli, in una lettera inviata all’allora presidente del Consiglio Giuliano Amato, nel settembre del 1992 si definiva “cittadino colpito dalle misure amare della cosiddetta manovra decisa dal Suo Governo, finché perdureranno le attuali difficoltà dell’Italia. Pur avendo stima per la Sua persona e per quella di alcuni suoi ministri, non intendo giurare sulla validità della Sua politica, né farmi prendere da quel tipo di emotività che portava le generazioni delle nostre madri a consegnare la vera alla patria, con l’esito che sappiamo. Sto cercando di imparare il mestiere di cittadino, rischiando ovviamente di sbagliare, in un senso o nell’altro”.

L’improvviso collasso della lira dell’estate del 1992, infatti, e la speculazione internazionale che ne seguì, aveva condotto il nostro Paese sull’orlo della bancarotta. La Banca d’Italia bruciò 30.000 miliardi di lire nella vana speranza di difendere la propria valuta. E pensare che all’inizio degli anni ’60 la lira italiana era stata insignita dalla Giuria del Financial Time Internazionale, dell’Oscar come valuta più stabile al mondo! Che cosa era successo? Un quindicennio di spesa facile per evitare tensioni sociali e l’esplodere del fenomeno di “Tangentopoli” cui i cittadini assistettero sgomenti e con rabbia nei confronti della classe politica dirigente alla quale venivano imputate non solo le ruberie delle tangenti, ma scelte economiche scellerate.

Il debito pubblico salì al 117% del prodotto interno lordo nazionale e indusse il presidente del Consiglio Amato a correre ai ripari con il blocco degli stipendi del pubblico impiego e con un prelievo fiscale straordinario di 11.000 miliardi. Con la manovra di bilancio di 93.000 miliardi di lire venne decretato il blocco delle spese dei Ministeri tra cui quelle del Ministero della Pubblica Istruzione. “Mentre la nave imbarcava acqua e rischiava di affondare (il marco passò da 750 a 900 lire), si levarono le voci di Bossi e Miglio che minacciavano lo sciopero fiscale e il rifiuto di procedere all’acquisto di BOT e dei CCT, gli strumenti con i quali un governo con l’acqua alla gola cercava di far fronte di giorno in giorno al peso degli interessi sul debito”.2

In questo clima morale, politico e giudiziario, il prof. Corradini diede vita nel 1993 all’Associazione per la Riduzione del debito pubblico (ARDeP), nata attraverso una “provocazione” di volontariato fiscale, ma che prosegue tuttora il suo impegno cercando di far riflettere sulle interconnessioni tra fenomeni finanziari, economici e politici e il legame che esiste tra comportamenti individuali, collettivi e scelte istituzionali. L’Educazione resta al centro dell’impegno dell’ARDeP, che si è prodigata attraverso il suo presidente emerito prof. Corradini per la reintroduzione nelle scuole, avvenuta solo di recente, dell’obbligo dell’educazione civica. “Se i cittadini non conoscono le istituzioni del Paese come si può pensare di impartire loro una educazione finanziaria?”. Le reazioni scomposte, non solo di gruppi di cittadini ma anche di esponenti politici, all’introduzione nella riforma fiscale della revisione del catasto dimostra quanto sia urgente una formazione in questo senso.

Se dovesse capitarvi di chiedere improvvisamente ad un amministratore locale o ad un esponente di partito o ad un eletto nel Parlamento nazionale a quanto ammontano le entrate e spese dell’Ente o del bilancio dello Stato, o a quanto ammontano gli interessi che dobbiamo pagare per il servizio del debito e a quanto ammonta quest’ultimo, non stupitevi se non riceverete una risposta. Anzi verrete tacciati di essere dei “ragionieri” e che la politica è ben altra cosa. Ma ne siamo proprio sicuri, quando si è alla guida finanziaria ed economica del Paese e si decide del destino dei suoi cittadini?

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1Il prof. Luciano Corradini, pedagogista, docente universitario, autore di numerose pubblicazioni sull’educazione e sull’insegnamento, per anni vice Presidente del Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione, è stato sottosegretario all’Istruzione nel governo Dini (1995-1996).
2Da La tunica e il mantello. Debito pubblico e bene comune: provocare per educare, Euroma La Goliardica, 2003

Il valore dell’Educazione civica e la storia dell’insegnamento. Intervista con Luciano Corradini

Abbiamo chiesto a Luciano Corradini, già docente universitario di Pedagogia Generale e autore del volume "Educazione alla cittadinanza e Insegnamento della Costituzione" edito da Vita e Pensiero sul tema dell'Educazioni civica, di parlarci del valore di questo insegnamento e della sua storia dentro la scuola italiana.

Qual è il valore didattico e pedagogico dell’insegnamento dell’educazione civica?

Potrei risponderle con questa frase che Aldo Moro scrisse nella premessa al decreto del ’58 che porta il suo nome: «La consapevolezza che la dignità, la libertà, la sicurezza non sono beni gratuiti come l'aria, ma conquistati, è fondamento dell’educazione civica». Anche se io preferisco un’altra espressione per definire questo complesso insegnamento sui generis.

Cioè?

Alla formula “insegnamento dell’educazione civica” ancora in uso nella recente legge 92 /2019 (ripresa dal dpr Moro del 1958) preferisco “insegnamento della Costituzione e educazione alla cittadinanza: perché afferma la distinzione e la connessione fra insegnamento di un contenuto disciplinare, ritenuto importante come le altre materie canoniche, da insegnare e da studiare, e educazione a promuovere nei ragazzi conoscenze, atteggiamenti, comportamenti, abitudini e competenze connesse con quell’insegnamento e con tutte le discipline o attività che fanno parte del curricolo e in genere della vita scolastica.

Perché è importante questa distinzione?

Per evitare le difficoltà concettuali e le incertezze normative e didattiche che si sono susseguite negli anni, con discussioni riemergenti, nonostante alcune norme chiarificatrici siano state raggiunte, ma non fatte pazientemente oggetto di “manutenzione”, di cura e di memoria, in sede linguistica, pedagogica e normativa.

Alludo alle discussioni fra coloro che vedono alternative fra l’istruire e l’educare, fra i saperi e le educazioni, fra l’insegnare e l’apprendere, fra i saperi freddi e i saperi caldi: alternative che tendono a semplificare i problemi, concentrandosi per esempio sulle poche materie che “contano” sul piano della tradizione culturale o che “rendono” sul piano del mercato del lavoro.

Vedere dei drastici aut aut invece che dei ragionevoli et et fra le proposte educative di una scuola che si faccia carico della complessità del vivere e del sopravvivere insieme in una società democratica tende a dividere anche i meglio intenzionati in tentennanti, benaltrismi, negazionismi, disciplinaristi, trasversalisti ecc.

Posizioni che non aiutano lo sforzo leale di comprendersi e di “sortirne insieme”, in e per una scuola che aiuti le nuove generazioni a spendere le loro energie in vista del futuro che le attende. Ricordo i termini con cui nel nostro ordinamento, ma anche in altri paesi, si sono definite queste tematiche nella scuola: Educazione civica, Educazione alla convivenza democratica, Educazione civica e cultura costituzionale, Educazione alla convivenza civile, Cittadinanza e Costituzione. Anche se a dire la verità, il primo termine utilizzato per quest’area dal primo disegno di legge Gonella era ancora un altro…

Quale?

Educazione Civile, così definita: “Lo spirito democratico della Costituzione e la conoscenza della struttura stessa dello Stato democratico costituiscono elementi necessari per la formazione di una coscienza civile nazionale. L’educazione civile è, quindi, un supremo interesse della società democratica, ed è condizione del consolidamento di una libera democrazia, al di sopra e al di fuori delle distinzioni dei partiti […] L’educazione civile si svolge secondo un duplice processo, che è informativo e formativo della coscienza civile, per culminare nella piena partecipazione della persona alla vita della comunità”.

Possiamo aggiungere che civiltà significa non solo cultura in senso antropologico, ma anche interiorizzazione di atteggiamenti e sintesi di valori. Implica non solo il riferimento a comportamenti più o meno apprezzati e condivisi, ma anche una valutazione che distingue una civiltà dall’altra, cercando non lo scontro ma la reciproca comprensione, emulazione e cooperazione, in vista di un bene comune che tenga conto anche delle forme di inciviltà e di regressione che ci affliggono, nel mondo vicino e lontano. Le virtù pubbliche necessarie a rendere un popolo civile non possono reggersi a lungo sui vizi privati. Senza civile convivenza, la cittadinanza diventa materia di polizia e di tribunali, di muri divisori e di carceri, di bandiere bruciate, di sequestri e di suicidi-omicidi, più che garanzia di pacifico esercizio di diritti e doveri.

Perché ritiene ancora fondamentale il DPR Moro?

Se al tempo del fascismo il Ministero si chiamava “dell’Educazione nazionale” e se di fatto si pretendeva che la scuola educasse i fanciulli a “credere, obbedire e combattere”, secondo la concezione fascista dello Stato guidato da un “duce che ha sempre ragione”, i padri costituenti capirono che la scuola democratica non poteva limitarsi a rinunciare alla retorica del ritorno ai fasti dell’impero romano, insegnando in modo neutrale le classiche materie scolastiche, ma doveva far conoscere e capire l’approdo alla Costituzione della lunga storia passata e in particolare la nostra tragica esperienza novecentesca ed educare ai valori da essa riconosciuti e proposti come condizione per ottenere e per assicurare anche per il futuro libertà, uguaglianza, solidarietà e pace.

Il DPR Moro costituisce il prototipo di un modello di pedagogia e didattica, che ha dato una prima interpretazione corretta e coerente del rapporto tra Costituzione, Repubblica democratica e scuola.

Cosa dice in sostanza?

La scuola, istituita dalla Repubblica, o da essa riconosciuta come paritaria, vi è intesa come istituzione in certo senso figlia, ma anche madre della Repubblica, perché è, per dirla con Calamandrei, come l’organo che produce il sangue per far vivere e rinnovare continuamente l’organismo della Repubblica. Nella Premessa al DPR Moro si dice esplicitamente che se “la scuola giustamente rivendica il diritto di preparare alla vita […] è da chiedersi se, astenendosi dal promuovere la consapevolezza critica della strutturazione civica, non prepari piuttosto solo a una carriera”.

Inoltre legava le dimensioni etica, civile, sociale e politica dell’educazione, che di fatto sono indissociabili, con l’invito a un costante riferimento alla Costituzione della Repubblica, che “rappresenta il culmine della nostra attuale esperienza storica e nei cui princìpi fondamentali si esprimono i valori morali che integrano la trama spirituale della nostra civile convivenza”. Insomma il titolo del DPR del’58 voleva affermare che la scuola doveva non solo insegnare materie, ma educare persone.

Tra gli articoli della Costituzione qual è a suo avviso quello che tutti gli studenti dovrebbero aver presente?

Il fine più alto di tutto l’ordinamento è indicato a mio parere dall’art. 3: questo infatti, riconosciuta la “parità sociale dei cittadini” e la loro “eguaglianza davanti alla legge”, impegna la Repubblica a rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale (e implicitamente anche culturale in senso lato), che limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica economica e sociale del Paese”. Questo era il senso dell’ordine del giorno presentato da Moro e altri all’Assemblea Costituente, che l’approvò unanime l’11 dicembre 1947. Il testo diceva: “L’Assemblea Costituente esprime il voto che la nuova Carta Costituzionale trovi senza indugio adeguato posto nel quadro didattico della scuola di ogni ordine e grado, al fine di rendere consapevole la giovane generazione delle raggiunte conquiste morali e sociali che costituiscono ormai sacro retaggio del popolo italiano”.

Non c’era il rischio di fare della Costituzione una sorta di catechismo di Stato o un libretto dei sogni?

A dire il vero c’è ancora qualcuno che si pone questi interrogativi, a mio parere infondati, mentre altri pensano che i riferimenti alle esperienze e alle conquiste “del passato” non servano a niente. Nel libro che abbiamo scritto e curato col collega e amico, purtroppo scomparso, Giuseppe Mari, dal titolo Educazione alla cittadinanza e Insegnamento della Costituzione (edito da Vita e Pensiero) abbiamo cercato di argomentare, in sede pedagogica, storica e giuridica, la possibilità teorica e pratica di affrontare nella scuola sia le discipline scolastiche, ciascuna dotata di propri oggetti e metodi di indagine e d’insegnamento, sia i principi, i valori e le norme costituzionali, che sono ad esse “trasversali”, come dice la legge 92.

I rischi connessi ad aspetti “caldi” e controversi della vita (e anche per l’oggettiva possibile impreparazione non solo giuridica ed economica di un certo numero d’insegnanti) sono inevitabili. Occorre essere consapevoli di questi rischi e cercare di affrontarli con coraggio, come si è cominciato a fare dai pionieri degli anni ’50 e ’60, se non si vuole limitarsi alla retorica di affermazioni nobili, lasciando svaporare di fatto, per l’ennesima volta, il diritto di cittadinanza attiva che alla Costituzione spetta nel curricolo scolastico, essendo lei la fonte dei doveri della Repubblica e delle istituzioni, in primis la scuola, che concorrono a perseguirne le finalità.

Nel volume che ha citato - Educazione alla cittadinanza e insegnamento della Costituzione (Vita e Pensiero) - lei parla di un “crescente bisogno di una buona politica e di una buona educazione civica”. Che cosa intende?

Rispondo partendo dal recente anniversario del ritrovamento del cadavere di Aldo Moro, in Via Caetani, a Roma, il 9 maggio 1978, ucciso dalle BR, dopo il rapimento in Via Fani e un oscuro “processo del popolo” durato 55 giorni. Erano passati vent’anni dal Dpr 1958. Il presidente Mattarella ha ricordato che in questi oltre 40 anni la democrazia ha vinto. È vero, ma questo martirio è anche la conseguenza di una tragica incomprensione dei valori e dei limiti della Costituzione e delle ragioni e dei limiti del diritto internazionale dei diritti umani, da cui si fecero travolgere estremisti e poteri occulti di destra e di sinistra, annidatisi anche in organismi deviati degli Stati democratici.

Lo stesso 9 maggio 1978 è stato ucciso dalla Mafia a Cinisi (Palermo) il giornalista Peppino Impastato, figura esemplare di militante per la libertà di espressione e di denuncia del malaffare mafioso, a partire da quello in cui in parte fu coinvolto suo padre.

Il 9 maggio di questo 2021 è stato proclamato beato per la Chiesa, dal cardinale Semeraro, il “giudice ragazzino” Rosario Livatino, ad Agrigento, dov’era stato ucciso da killer della Sidda (organizzazione di tipo mafioso) il 21 settembre 1990, mentre andava in Tribunale, consapevole che operare per la giustizia in quel contesto comportava rischi mortali. Un credente che voleva anche essere “credibile”.

Il 9 maggio è una data particolarmente simbolica … .

Si, il 9 maggio è anche la festa dell’Unione Europea le cui origini risalgono al discorso di Schuman del 1950, sulla proposta della creazione della Comunità europea del carbone e dell’acciaio. In questo 9 maggio si è inaugurata solennemente la Conferenza sul futuro dell’Europa, celebrata a Strasburgo dalle massime autorità, per tentare di guidare la nave dell’UE in un mare in tempesta. Accanto alle speranze e agli impegni che si assumono, fra buona volontà e ipocrisia, la metafora della nave evoca il cimitero dei naufraghi morti nel Mediterraneo, senza che l’Europa sia ancora riuscita ad affrontare il grave problema etico, civile e politico connesso con le migrazioni e coi relativi problemi climatici, economici e demografici e col dovere internazionalmente sancito di salvare i naufraghi.

Mi limito a questi cenni relativi a una problematica che trova ampio spazio nei compiti affidati alla scuola dalla citata legge 92, rispetto alla quale le speranze e gli impegni che è giusto e doveroso assumere non possono dimenticare i limiti di vario genere entro cui siamo chiamati a fare del nostro meglio. La lotta contro il male comune deve continuare, anche dopo la storica Resistenza, “nelle forme e nei limiti della Costituzione” (art.1)

Quale politica è stata fatta negli scorsi decenni a proposito di questa difficile ma vitale educazione civica?

Ministero e Parlamento non sono stati assenti di fronte a queste problematiche, ma spesso discontinui per il cambio frequente degli indirizzi dei ministri e dei politici, talora poco determinati a farsi carico delle condizioni effettive delle scuole, delle loro possibilità, dei loro limiti e dei loro poteri e doveri.

Si pensi al riformismo scolastico degli anni ’60 e ’70, coi decreti delegati, all’educazione alla salute e alle connesse “educazioni” che trovarono una prima sintesi nei “Progetti Giovani” e “Ragazzi 2000”. La volontà di combattere varie “emergenze educative”, senza visioni e poteri di ampio raggio e di lungo periodo, portò a mettere in ombra proprio l’educazione civica che, facendo riferimento centrale alla Costituzione, conteneva lo scrigno dei valori educativi e dei criteri per combattere il disagio da cui dipendevano le carenze di questi valori.

Quando questo paradosso divenne evidente, il CNPI nel 23.2.1995 affrontò il problema con un Parere di propria iniziativa intitolato “Educazione civica, democrazia e diritti umani”, avviando il processo che avrebbe condotto il ministro Lombardi, dopo diverse interlocuzioni con due successive commissioni ministeriali, forze associative sindacali e politiche, associazioni di insegnanti, genitori e studenti, al varo della direttiva ministeriale 8.2.1996, n. 58, con l’ampio documento allegato Nuove dimensioni formative educazione civica e cultura costituzionale e alla stesura di programmi coerenti con quell’impostazione, che ebbero un parere di massima favorevole del CNPI, ma che non furono approvati, per la fine del Governo Dini, il 18 maggio 1996. Nel successivo Governo Prodi, il Ministro Berlinguer mandò alle scuole il Documento allegato alla citata circolare, ritenuto “utile per l’elaborazione dei progetti educativi d’istituto”, ma si concentrò sul pur importante Statuto delle studentesse e degli studenti (24.6.1998) e sulla raccomandazione di includere lo studio del Novecento nei cicli conclusivi degli studi.

Il 30 ottobre 2008, dopo un processo non meno faticoso, si arrivò alla conversione in legge, col n. 169, del decreto legge 137/2008, firmato dalla ministra Gelmini, che prevedeva, nell’art. 1, Cittadinanza e Costituzione, accompagnato da un Documento d’indirizzo per la sperimentazione dell’insegnamento “Cittadinanza e Costituzione” (4.3.2009), che si concludeva con l’indicazione di nuclei tematici e relativi obiettivi di apprendimento, a partire dalla scuola dell’Infanzia. Per la scuola Primaria, Secondaria di primo grado e Secondaria di secondo grado, sono precisate anche “situazioni di compito per la certificazione della competenze”, articolate in quattro ampi contenitori concettuali: Dignità umana, Identità e appartenenza, Alterità e relazione, Partecipazione. Sono in sostanza documenti che avrebbero dovuto o potuto essere formalizzati col rango dei vecchi programmi, che ora sono chiamati Indicazioni nazionali o Indicazioni curricolari. Non sono capolavori ineguagliabili, ma approssimazioni a quello che avrebbe meritato un’educazione civica iniziata con le intuizioni di Moro, a distanza di mezzo secolo dal suo Dpr.

Dopo la legge 169/2008 e il relativo Documento d'Indirizzo, il Ministero, a firma del direttore generale per gli ordinamenti Mario Dutto ha emanato, per il 2010-2011, la CM 27.10.2010 n.86, relativa all'attuazione del 1° art. della legge. Essa precisa che «l’insegnamento/apprendimento di Cittadinanza e Costituzione è un obiettivo irrinunciabile di tutte le scuole», e che «è un insegnamento con propri contenuti, che devono trovare un tempo dedicato per essere conosciuti e gradualmente approfonditi»: tale insegnamento implica sia una dimensione integrata, ossia interna alle discipline dell’area storico-geografico-sociale, con ovvie connessioni con filosofia, diritto ed economia (dove sono previste), sia una dimensione trasversale, che riguarda tutte le discipline, in riferimento a tutti i contenuti costituzionalmente sensibili e suscettibili di educare la personalità degli allievi in tutte le dimensioni.

Pur nei limiti già citati, la CM forniva già una sintesi organica di tematiche relative a questa disciplina sui generis: queste andrebbero meditate e discusse a livello di consigli e di collegio docenti, in vista di una loro traduzione in una prassi condivisa, anche il più e il meglio che sia possibile, auspicabilmente, in qualche momento, anche con genitori e studenti. Il che richiede indubbiamente buona volontà da parte di tutti, o almeno di chi, sentendosi responsabile della formazione etico-civico-politica dei giovani, si renda disponibile a combattere contro la deriva della disaffezione e dell’impotenza a cui molti si ritengono condannati.

La CM n.86 parla anche di valutazione, aggiungendo che C&C entrava a costituire il «complessivo voto delle discipline di area storico-geografica e storico-sociale, di cui essa è parte integrante», e «influisce nella definizione del voto di comportamento, per le ricadute che determina sul piano delle condotte civico-sociali espresse all’interno della scuola, così come durante esperienze formative al di fuori dell’ambiente scolastico».

Nonostante queste impegnative affermazioni, le ore a disposizione per l’area storico-geografica, storico-sociale, storico-filosofica e giuridico-economica, dove esiste, non erano state aumentate, come la commissione ministeriale ad hoc aveva proposto: e neppure si era nominata C&C accanto alle discipline citate dalla legge. Si tratterebbe anche di maturare competenze didattiche in merito, sia in sede di curricolo degli studi universitari per la formazione dei futuri docenti, sia nell'ambito dei tirocini formativi attivi (TFA).

Ritiene che si debbano rilanciare e sostenere gli impegni di formazione per docenti e dirigenti?

Questo compito è tanto più importante dopo la rapida elaborazione nelle Commissioni Cultura del Parlamento e le approvazioni quasi unanimi nelle Aule, della già citata legge 20 agosto 2019 n. 92. Si tratta di una sorprendente ampia norma di 13 articoli che riprende gran parte dei temi di rilievo educativo venuti alla ribalta degli ultimi decenni, rilanciandoli, con evidente riferimento a Moro, sotto il titolo antico Introduzione dell’insegnamento scolastico dell’educazione civica. È un’occasione da non perdere, come le opportunità previste per il nostro paese dal NEXT GENERATION EU e dal PNRR Italia.

Cosa si può fare in attesa che finisca la pandemia?

Le Linee guida ministeriali (allegate al decr.n.35 del 22 6 2020) offrono alcuni chiarimenti di fondo, ma non sciolgono alcuni nodi, affidati alla buona volontà dei docenti e dei dirigenti. Da parte ministeriale questi nodi non sciolti riguardano i tempi graduali necessari per il decollo della legge, i libri di testo e gli strumenti di lavoro informatici connessi, i traguardi di competenze e le competenze da proporre nel profilo dei cicli. Dato che il tempo previsto dalla legge per l’educazione civica è di “non meno di 33 ore l’anno”, in mancanza di criteri definiti per stabilire chi e come provvederà a svolgere il compito del coordinatore e la ripartizione dei compiti concordati fra i colleghi, si rivela evidente l’utilità di libri di testo scritti con criteri condivisi per l’insegnamento.

Di certo se molte cose sono cambiate nei 70 anni di Repubblica, il bisogno e la domanda di conoscenza e di formazione su quest’area fondativa, anche se difficile da delimitare e da condividere, si sono fatti ancora più urgenti.

 

 

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