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Spunti di educazione civica ai tempi del coronavirus

Data la mia età, assediata dalla strategia utilizzata dal Covid-19 nel decimare la nostra “riverita specie”, mi permetto di ricorrere a qualche cenno biografico per condividere con i giovani un breve ricordo del 25 aprile, festa della Liberazione.

C’ero anch’io

Avevo 9 anni, il 25 aprile del 1945, quando fui svegliato da un rombo di un corteo di carri armati, che passavano a cinquecento metri dalla casa in cui ero sfollato con la famiglia, sull’argine del Po, nella bassa reggiana. Ci riempiva di curiosità e di emozione il vociare concitato dei contadini che dicevano che era vero, che la guerra era finita davvero, e non come il 25 luglio del 1943, quando “era andato giù il Duce”, o l’8 settembre, quando Badoglio aveva annunciato l’armistizio con gli americani, ma poi se n’era scappato a Brindisi col Re, lasciando l’esercito italiano allo sbando, e dicendo che la guerra continuava. In aprile gli americani erano venuti sul serio a liberarci, perché tutti me lo dicevano, anche se io non avevo le idee molto chiare in proposito. 

C’era un sole radioso, perfino accecante, con l’aria fine e trasparente che si trova assai di rado da quelle parti. Mio fratellino ed io correvamo a perdifiato fra i campi, inseguiti da un branco di oche spaventate per il frastuono della colonna. Impolverati e sorridenti, i soldati americani ci salutavano con entusiasmo dalle torrette dei loro carri, talora fermandosi per regalarci cioccolate e gomme da masticare, e chiedendo in cambio insalata e rapanelli.

Avevamo vissuto le vicende dei bombardamenti, dei rastrellamenti, della comparsa più o meno inquietante di gruppi di tedeschi, di fascisti repubblichini e di partigiani, che alcuni chiamavano ribelli, nei tre anni della Resistenza armata. Ho saputo solo ieri, leggendo Avvenire, che il primo annuncio della Liberazione fu dato alle ore 22 del 25 aprile 1945 da una radio allestita alla meglio, che trasmetteva in onde corte.

Riascoltiamo quel messaggio, che iniziava con l’Inno del Piave: “Attenzione, attenzione. Qui Radio Busto Arsizio. Stiamo per trasmettere un importante comunicato: ‘Per proclama del Comandante della piazza militare di Busto Arsizio si dichiara decaduto il regime fascista repubblicano e si esorta la popolazione alla calma e al rispetto delle leggi civili e militari dell’8 settembre 1943 rientrate in vigore. Cittadino italiano, tu che hai sofferto per la tua Patria ancora una volta calpestata dal barbaro nemico, l’ora della tua liberazione è giunta! Lavoratore, ancora per qualche giorno controlla ogni tentativo di distruzione delle tue macchine, delle tue officine, delle centrali elettriche. Salva la tua ricchezza di domani… Industriali, disponete perché il lavoro continui, perché le mense aziendali non abbiano a subire interruzioni. Donne, siate degne dell’ora che volge, italiani tutti, al vostro posto di battaglia!”. Il giorno 26 aprile la notizia fu ripresa da radio e da giornali e fece il giro del mondo.

L’inizio di una presa di coscienza storica negli anni’50

Mi sembra di aver cominciato solo al liceo a rendermi conto dei fatti e dei problemi relativi alla guerra, alla resistenza, alla pace, alla difficile ricostruzione. Questo è avvenuto un giorno, quando il preside del Classico di Reggio Emilia, che si chiamava Ermanno Dossetti, ci convocò in Palestra, per parlarci della Costituzione, proprio alla vigilia del 25 aprile.

Allora ho avuto l’intuizione, anche se un po’ vaga, che la Costituzione fosse una cosa molto importante, un avvenimento che cambiava per sempre la nostra vita, un tesoro, che doveva essere conosciuto e messo a frutto non solo da parte delle istituzioni e dei politici, ma da tutti i cittadini, nella vita di tutti i giorni, se non si voleva tornare agli anni terribili della guerra. Negli anni successivi, anche come insegnante, sono tornato più volte su questo testo: sono restato e resto sempre più ammirato per la sua verità e la sua bellezza, ma anche amareggiato e deluso per il modo con cui in complesso l’abbiamo ignorata e trattata. 

È come se avessimo tenuto in cantina, in mezzo ai topi, un capolavoro di Leonardo. O come se avessimo ricevuto in eredità una Ferrari e l’avessimo fatta marciare solo in prima e in seconda.

È stato detto che le Costituzioni sono gli strumenti che gli uomini si danno nei tempi della saggezza, a valere per il momento della confusione. Il “capolavoro di saggezza” della Costituzione è stato scritto in 18 mesi, dal 2 giugno 1946 al 22 dicembre 1947. Il 2 giugno si tennero le prime votazioni a suffragio universale, comprese le donne, sia per rispondere al referendum in cui si decise la nascita della Repubblica Italiana, sia per eleggere l’Assemblea Costituente. Appare perciò storicamente corretto riconoscere la radice della Costituzione nella Resistenza e nella Liberazione, che hanno nel 25 aprile la loro genesi storica e simbolica. E chiedersi le ragioni della mancata o parziale attuazione dei suoi principi e delle sue norme fondamentali, per cercare di avanzare nella via della libertà, dell’uguaglianza e della solidarietà e per evitare di soccombere di fronte alle crisi epocali che dipendono in gran parte dalla nostra “dimenticanza” dei principi costituzionali.

Nulla è perduto con la pace, aveva detto Pio XII in un radiomessaggio del 1939, aggiungendo che tutto può essere perduto con la guerra. È possibile però anche dimenticare che allora una difficile pace è stata conquistata a prezzo di una guerra disastrosa; e che si può anche perderla di nuovo, se si dimentica quella terribile lezione della storia. Faccio ora un salto in avanti di quarant’anni dalla fine della guerra.

Il 25 aprile ricordato a Milano nel 1986, per leggere 14 lapidi 

Una mattina del 1986, quando abitavo a Milano, decidemmo, con mia moglie e mio figlio, che saremmo andati alla manifestazione organizzata dall’ANPI per ricordare il 25 aprile. C’erano solo 3 macchine con gli striscioni sul cofano, davanti alla sede del Consiglio di Zona di Porta Venezia. Col nostro arrivo, le macchine divennero 4 e così noi rappresentammo il 25% della delegazione che si preparava a visitare le 14 lapidi del Quartiere, per portare corone d’alloro ai martiri della Resistenza. Quando uno del gruppo, lamentando le assenze degli “altri”, disse che avrebbero potuto sfoderare le loro bandiere rosse, feci garbatamente valere le nostre ragioni di cittadini della parrocchia di San Gregorio. Sicché questo bastò a restituire al Tricolore il suo carattere di simbolo dell’unità nazionale.

Si prese atto che il nostro 25% in quel piccolo corteo possedeva due primati: mio figlio era il più giovane del gruppo e io ero il più alto. Lui ascoltò le commosse parole dell’anziano presidente dell’ANPI, che fu lieto di poter consegnare a un giovane il suo ricordo e il suo messaggio; io manovrai con discreta perizia il bastone che serviva per installare le corone vicino alle lapidi, poste molto al di sopra delle nostre teste, e forse per questo ignorate dai passanti e dagli abitanti del quartiere. Mia moglie, che aveva caldeggiato la nostra partecipazione, prendeva appunti. Registrava i nomi di quei giovani che erano stati fucilati a Milano o uccisi nei campi di concentramento, talora pochi giorni prima o dopo la Liberazione; e annotava le frasi con cui amici e parenti avevano voluto ricordare il senso di quei sacrifici.

Si scendeva dalle macchine, si sostava un istante, si poneva in alto la corona, come se si cercasse di cogliere il gesto, il sorriso, la smorfia di dolore di chi aveva offerto la sua vita perché noi potessimo conservare e sviluppare la nostra vita di cittadini liberi e democratici.

Poi si risaliva in auto e si ricominciava la piccola processione di quella via crucis civile che ci ha fatto sentire popolo italiano, come la via Crucis del Venerdì santo ci fa sentire popolo di Dio.

Fra una stazione e l’altra leggevamo qualche frase di un giornaletto dell’ANPI o ricordavamo qualche pensiero dei Condannati a morte della Resistenza. Sentivamo il bisogno di ringraziare il Signore, che aveva dato tanta forza a quei giovani, e di ringraziarlo per la libertà conquistata dal loro sacrificio, di cui molti hanno perso la memoria.

Al termine della visita, abbiamo aderito all’ANPI, per restare informati della loro attività e per condividere quel grande patrimonio di fede nella libertà e nella pace, che ha caratterizzato questo lungo dopoguerra. 

La pandemia del Covid-19 e gli appelli del Papa e del Segretario dell’ONU per un’alleanza globale per l’unità e per la pace

La strage pandemica di questo 2020 mette a dura prova la nostra speranza di indefinito benessere, per l’inedito scenario di morte, di paura, di solitudine, di crisi economica e d’incertezza che grava sul nostro futuro. D’altra parte questa lotta contro uno sciame invisibile di microbi patogeni che involontariamente ci trasmettiamo con la prossimità, inducendo le pubbliche autorità a imporre, in ordine sparso, lunghi e incerti lockdown per attuare un “distanziamento sociale”, e cioè per sottrarre “cibo” al virus, sta affamando anche parte di noi, ma anche risvegliando in altri le migliori energie che hanno consentito all’Italia di riemergere, attraverso la Resistenza e la Costituente, dal “crogiolo ardente” della guerra mondiale degli anni ’40. Papa Francesco e Antonio Gutierrez invocano con accorata energia l’unità europea, la cessazione delle guerre e la pace, in nome di un’umanità che riconosca il comune nemico non in un popolo, in uno stato o in un’ideologia, ma in uno dei tanti virus che abbiamo inconsapevolmente risvegliato, nella nostra pretesa di sfruttamento incontrollato della natura.

Per questo alla Pasqua cristiana possiamo associare la Pasqua civile che il nostro Paese celebra, anch’essa per la prima volta per via telematica, a 75 anni da quell’evento.

 

Bravi tutti, sì, ma qualcosa non funziona

Dico subito che lo slogan “andrà tutto bene” non mi piace. Mi sembra sciocco e puerile, probabilmente offensivo per chi sta davvero male. Forse è utile per far disegnare arcobaleni di speranza a qualche infante che non ha ancora compreso come va il mondo. Forse può “dare morale” come nello sport, oppure favorire una sorta di spirito di squadra in un gruppo sotto pressione. Sentirselo ripetere da autorità pubbliche è una via sbagliata per affrontare la crisi, una via d’uscita troppo semplice. L’emergenza sanitaria è lontanissima dal risolversi, anche se l’incremento del numero dei contagi sta diminuendo. Dobbiamo guardare con fiducia al futuro, sapendo che siamo soltanto all’inizio.

Allo stesso tempo dobbiamo prepararci a giorni tormentati e cupi. Non va e non andrà tutto bene finché avremo la più alta percentuale di morti a livello globale. Troppi operatori sanitari sono a rischio, troppi caduti. Altro che eccellenza della sanità, qualcosa non ha funzionato. Evidentemente non è colpa di medici, infermieri, personale di altro tipo. I problemi sono di lungo periodo. Il Paese è stato praticamente chiuso. Provvedimenti draconiani ma inevitabili. Gli scioperi annunciati ci danno un assaggio di quanto accadrà quando non avremo più (troppi) timori per la salute.

La realtà che sperimenteremo quando smetteremo di piangere chi non ce l’ha fatta non sarà migliore di quella attuale.

Sarà dura, durissima. Adesso ne abbiamo le avvisaglie. Bisognerà cambiare paradigma, non si potrà più tornare alla normalità. Si prospetta una “grande depressione” senza precedenti con una recessione che supererà sicuramente il meno 10%. Questo scenario mai visto determinerà un crollo del gettito fiscale, disoccupazione, impoverimento soprattutto per le fasce più deboli, crollo dei consumi, fallimenti di aziende e un’Italia che intravede la possibilità di una bancarotta.

S’invocano sostegni e aiuti da tutte le parti, ma pochi spiegano come faremo a trovare le risorse già spese. Non possiamo pensare a una nuova esplosione del debito pubblico; serviranno probabilmente misure pesanti come una patrimoniale.

Saranno necessari investimenti pubblici, si parlerà di nazionalizzazioni su larga scala. Su questo ci si dividerà.

L’UE – e in particolare l’euro zona – sta vivendo giornate decisive. Non bastano più i piani per salvare le banche e il sistema finanziario e neppure gli strumenti di aiuto agli Stati in difficoltà come avvenuto in passato. Bisogna rendere comunitaria la fiscalità con un abbozzo di vero governo federale.

Se ciascuno si trincererà dietro al “si salvi chi può”, il progetto europeo rischierà di morire davvero. Affinché in futuro le cose possano cominciare ad andare bene, occorre dirsi la verità. Abbiamo forse sottovalutato la pandemia. Sono stati commessi errori imperdonabili.

Il sociologo norvegese Johan Galtung afferma che tre elementi contribuiscono a plasmare l’identità delle collettività: il mito, la predestinazione e il trauma. L’Italia del dopoguerra si è costruita sul mito della resistenza e della ricostruzione postbellica. C’è stato uno sforzo comunitario che ci ha portato democrazia e benessere. I cittadini e le cittadine erano consapevoli di far parte di un orizzonte collettivo. La nostra predestinazione la conosciamo: essere chiusi nel nostro particolare, litigare tra di noi, ma anche risollevarci.

Di traumi ne abbiamo avuti molti: terremoti, il terrorismo, una crisi politica e istituzionale. Adesso siamo di fronte a qualcosa di molto più grande. Soltanto il nostro lato migliore ci salverà.

In “Trentino” del 25 marzo 2020

Debito pubblico e democrazia consapevole

I numeri, se non sono stati taroccati, non mentono. Il 18 dicembre scorso le cifre degli interessi sui titoli di stato italiani e greci hanno evidenziato che il debito dell’Italia è considerato più a rischio di quello della Grecia. Infatti, un Btp decennale italico offriva un interesse annuo dell’1,33%, mentre il corrispondente titolo di stato ellenico si fermava all’1,29%. Eppure alla fine del 2018 il debito pubblico greco era del 181,2% rispetto al PIL, mentre quello italiano era al 134,8%. Perché la Grecia dai mercati finanziari è oggi considerata più affidabile dell’Italia? Questa dovrebbe essere la prima domanda che tutti dovremmo porci, classe politica in testa. Invece, su questi numeri si tace. Si preferisce discutere d’altro. Per qualche giorno si è parlato (spesso a vanvera) del MES e poi nulla più. I numeri - soprattutto quando sono determinanti - vengono lasciati nella solitudine.

Viene in mente la storiella che Piero Calamandrei raccontò agli studenti di una scuola milanese il 26 gennaio del 1955: «Due emigranti, due contadini, traversavano l’oceano su un piroscafo traballante. Uno di questi contadini dormiva nella stiva e l’altro stava sul ponte e si accorgeva che c’era una gran burrasca con delle onde altissime e il piroscafo oscillava. E allora questo contadino impaurito domanda a un marinaio: “Ma siamo in pericolo?”, e questo dice: “Se continua questo mare, il bastimento fra mezz’ora affonda”. Allora lui corre nella stiva a svegliare il compagno e dice: “Beppe, Beppe, Beppe, se continua questo mare, il bastimento fra mezz’ora affonda!”. Quello dice: “Che me ne importa, non è mica mio!”».

Nel frattempo nel circo mediatico della politica attuale si danno i numeri delle percentuali dei sondaggi, si propongono funzioni algebriche per la ripartizione dei seggi con la nuova legge elettorale, si calcolano le probabilità della caduta del governo in carica in base all’andamento del mercato della compravendita dei parlamentari. Povera Italia: come ci siamo ridotti! Quanta arroganza e quanta ignoranza: l’incompetenza elevata all’ennesima potenza. Gente che urla dentro e fuori il Parlamento, persone che firmano ad un banchetto di partito senza sapere per che cosa, politici che reiterano menzogne davanti ad un microfono senza timore di essere smentiti o almeno interrogati dall’intervistatore. Possiamo andare avanti così?

In questa situazione di degrado istituzionale è necessario avanzare proposte coraggiose per costruire una politica consapevole:

  1. le scuole e le università devono anzitutto promuovere l’educazione alla cittadinanza, competenze economiche e finanziarie comprese;
  2. alle elezioni si possono candidare soltanto coloro che hanno superato un esame di abilitazione con un test di cultura generale e soprattutto di diritto costituzionale;
  3. gli elettori possono accedere al seggio soltanto dopo aver risposto correttamente ad una semplice domanda di cultura istituzionale.

Perché la democrazia è anche responsabilità, che significa anzitutto saper rispondere. La nostra Costituzione prevede (art. 48) come motivo di esclusione dal voto l’indegnità morale e l’incapacità civile. Sarebbe il caso di applicarla.

Un’associazione per ridurre il debito pubblico

Il 26 settembre del 1992 Luciano Corradini, professore di pedagogia all’Università di Roma e vicepresidente del Consiglio nazionale della pubblica istruzione, si reca in un ufficio postale e versa 500 mila lire come “contributo volontario al risanamento del bilancio dello Stato” italiano. Quello stesso giorno scrive a Giuliano Amato, presidente del Consiglio dei Ministri: “ho deciso di versare mensilmente all’erario 500 mila lire, oltre ovviamente a ciò che debbo in quanto cittadino, finché perdureranno le attuali difficoltà dell’Italia”. Così Luciano Corradini diventa il primo volontario fiscale: “io penso che questo volontariato dentro le istituzioni, questa forma di volontariato fiscale, che non vuole accusare nessuno né coprire alcuna ingiustizia, sia un investimento produttivo di un valore di cui non vedo come si possa fare a meno, noi e chi verrà dopo di noi: parlo della cittadinanza, un bene da produrre e da garantire con appartenenze, leggi e comportamenti, che siano sempre meno inadeguati ad assicurare una buona vita sul Pianeta al più alto numero possibile di persone” (Luciano Corradini – lettera a Giuliano Amato del 26/09/1992). Quella di Corradini non voleva essere soltanto una pur lodevole testimonianza, ma anche un’indicazione sulle strade da intraprendere per il futuro. Lo dimostra il fatto che Corradini ha smesso di effettuare i versamenti mensili allo Stato soltanto dopo un anno e mezzo, quando venne costituita l’Associazione per la Riduzione del Debito Pubblico (ARDeP), di cui Corradini è fondatore e tuttora presidente onorario.

Era il giorno di santa Lucia del 2007. Nell’Auditorium del Liceo Scientifico Mascheroni, ricorrendo il 60° anniversario della promulgazione della Carta Costituzionale, si teneva l’ultimo incontro del corso di formazione “Educazione alla cittadinanza ed alla cultura costituzionale”. Relatore sul tema “Scuola e Costituzione” era Luciano Corradini, professore ordinario della terza Università di Roma. Nella presentazione veniva ricordato che il relatore è stato anche fondatore dell’Associazione per la riduzione del debito pubblico (ARDeP). 

Fino a quel momento non avevo mai sentito nominare Corradini e neppure l’ARDeP. Però la questione del debito pubblico mi interessava. In passato avevo scritto alcuni articoli su questo argomento. Così al termine dell’incontro mi sono avvicinato al relatore per chiedere qualche informazione in più. Per farla breve dico soltanto che sono tornato a casa con una copia del libro “La tunica e il mantello”, che ricostruisce la nascita e i primi anni di storia dell’ARDeP, con la dedica di Luciano Corradini: “a Rocco, incontrato nel mare della Costituzione, dove siamo entrambi giunti venendo da lontano, dalla pianura emiliana e dalle valli bergamasche, dove libertà fa rima con solidarietà”.

Lessi il libro, che riporta questo sottotitolo: “debito pubblico e bene comune: provocare per educare”. Rimasi molto colpito dalla genesi dell’ARDeP. Così decisi di inviare a Corradini una copia dei miei articoli sul debito. L’iscrizione all’ARDeP fu una conseguenza logica. Quattro anni dopo mi ritrovai ad essere eletto vicepresidente e un anno fa addirittura presidente dell’Associazione. 

Ma che cosa fa l’ARDeP? In sintesi si può dire che l'ARDeP è impegnata, dal 1993, a promuovere iniziative di testimonianza, formazione, studio e sensibilizzazione ai valori dell'equità e della solidarietà intergenerazionale, in termini di responsabilità civica, economica e politica. Il debito pubblico italiano, per le dimensioni abnormi e gli effetti devastanti che produce nella vita sociale, deve essere ridotto attraverso un complesso d'interventi a tutti i livelli.

L’ARDeP è una “piccola barchetta” che cerca di navigare nell’oceano del debito cercando di non farsi sommergere. L’associazione si costituisce intorno a tre linee guida: formazione alla cittadinanza, riforme fiscali e strutturali, risanamento della spesa. In particolare, le principali proposte sono:

1 - Promuovere l’informazione e la cultura sul debito pubblico (entità, cause, effetti); realizzare una formazione di base e continua centrata sui diritti e doveri di cittadinanza, anche fiscale, sviluppando sinergie tra istituzioni e società civile, per uno Stato/Repubblica dal volto umano, orientato al bene comune e alla convivenza civile e democratica, richiedendo i doveri di solidarietà sociale e convincendo il Paese a credere in se stesso attraverso un nuovo “patto sociale” tra istituzioni e cittadini, che rilanci partecipazione democratica, fiducia istituzionale, responsabilità sociale e civile.

2 - Approvare una riforma fiscale con l’obiettivo di:

  • inserire tutti i redditi percepiti – a prescindere dalla loro provenienza – nella base imponibile da tassare (eliminazione della cedolare secca su affitti, della tassazione separata dei risparmi e delle attività finanziarie, sostituzione di tutte le attuali forme di tassazione forfettaria attraverso il nuovo sistema);
  • aumentare la deducibilità dalla base imponibile delle spese, soprattutto quelle considerate essenziali e necessarie, ai fini di una corretta determinazione della reale capacità contributiva di ciascuno (art. 53 Cost.);
  • garantire l'equità fiscale aumentando la progressività (art. 53 Cost.) del prelievo tributario (anche attraverso l'aumento del numero delle aliquote e delle relative fasce di reddito imponibile) e diminuendo le aliquote IVA per i beni e i servizi essenziali;
  • combattere l'evasione fiscale anche attraverso l’attivazione di un contrasto di interessi tra consumatore/fruitore e venditore/erogatore, e l'introduzione di una fiscal-card, per disincentivare l’utilizzo dei contanti;
  • combattere il fenomeno della cosiddetta estero-vestizione (fittizia localizzazione all'estero della residenza fiscale di una società) anche mediante l'utilizzo delle intercettazioni come strumento di indagine.

3 - Istituire una imposta patrimoniale straordinaria sui grandi patrimoni (mobili e immobili), con aliquota personale congrua. Si tratta di stabilire per ciascun titolare del patrimonio un'apposita aliquota, mettendo a confronto il patrimonio detenuto con la documentazione storica dei redditi dichiarati al fisco nel più lungo arco di tempo consentito dal sistema informativo dell’anagrafe tributaria. Bisogna prevedere un criterio di calcolo dell’imposta di successione e donazione basato sullo stesso principio.

Luciano Corradini ha efficacemente rappresentato il problema del debito pubblico con un esempio: “ci comportiamo come due genitori che tutte le sere vanno al ristorante e che ogni volta mandano il conto da pagare ai figli”. Così non si poteva e non si può continuare: “mia moglie ed io, genitori di tre figli ormai cresciuti, stiamo cercando d’imparare il mestiere di cittadini”. Umiltà e serietà di un pedagogista, che con il versamento volontario si è sentito “più libero di chiedere al Governo il massimo impegno di equità”.

(tratto dalla rivista “Il Jolly” – gennaio 2020)

Se i politici conoscessero la matematica

Tempo di esami per gli studenti, con lo scopo di accertare le competenze acquisite. Un pensiero laterale prende forma: per i politici esiste una verifica delle competenze e delle conoscenze? Certo, c’è il voto, ma questo evento nulla garantisce sulle capacità reali di un candidato a ricoprire la carica elettiva. Scrivere le leggi non è un mestiere banale e semplice. Siamo sicuri che chi rappresenta il popolo sovrano sia all’altezza della situazione? Il dubbio sorge spontaneo.

Per esempio, sappiamo che la matematica non è un’opinione. Ma allora perché alcuni politici possono “sparare” numeri a caso, senza alcun nesso con la realtà? E perché quando i numeri sono palesemente falsi, ci sono politici che possono continuare a ripeterli impunemente? Queste domande insorgono prepotenti quasi ogni giorno soprattutto guardando la TV.  

Certo, non c’è nulla di nuovo sotto il sole, non è un fenomeno nuovo. Per esempio, resta memorabile Mariastella Gelmini, di Forza Italia, che il 24 settembre 2013 attribuì la responsabilità dell’aumento dell’IVA dal 20% al 21% al governo Monti, mentre in realtà si trattò di una decisione del governo Berlusconi, nel quale Mariastella Gelmini era ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca. Le date non danno spazio a dubbi: l’IVA aumentò il 17 settembre 2011 e il governo Monti si insediò il 16 novembre 2011, cioè due mesi dopo.

Negli ultimi giorni l’esempio più eclatante è forse quello costituito da due esponenti governativi della Lega, il ministro dell’Interno Matteo Salvini e il sottosegretario allo Sviluppo economico Dario Galli, in relazione a quanto l’Italia versa nelle casse europee.

Il 20 giugno 2019 Matteo Salvini nella trasmissione Porta a Porta afferma: “Siamo il secondo paese per contributi in Europa.  Sicuramente l’Italia paga 6 miliardi in più di quello che le ritorna indietro”. Sul sito della Commissione Europea si può facilmente verificare che l’Italia è in realtà il quarto (e non il secondo) paese con un contributo netto di 2,3 miliardi di euro, dopo la Germania (12,9 miliardi), la Francia (8,2 miliardi) e la Gran Bretagna (5,6 miliardi). Seguono: Olanda (2,1 miliardi), Svezia (1,6 miliardi) e Belgio (1,2 miliardi).

Quattro giorni dopo, il 24 giugno 2019, al TG3 delle ore 19, Dario Galli, che sui numeri dovrebbe essere preparato dato che si occupa dello sviluppo economico, ribadisce l’errore: “L’Italia è contribuente netto per 6 miliardi”. E aggiunge: “Questo basterebbe a mettere a posto deficit e debito”. È il caso di ricordare che nel 2018 l’Italia ha chiuso con un debito di 2.317 miliardi e con deficit di 53 miliardi (fonte Banca d’Italia). Domanda (per gli studenti della scuola primaria): con 6 miliardi l’anno (che in realtà sarebbero 2,3 miliardi), com’è possibile “mettere a posto” deficit e debito italiani?

Per evitare il ripetersi di queste rappresentazioni tragicomiche, non sarebbe il caso di istituire un serio esame per accertare almeno le competenze matematiche dei candidati al parlamento e soprattutto di chi ricopre cariche governative?

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