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Ridurre il debito si deve e si può a cominciare da… Chieri

Il valore del debito pubblico italiano è una cifra a tredici caratteri, difficile da visualizzare e anche da leggere, tanto è grande. Sul sito dell’ ARDEP questo numero si aggiorna ogni tre secondi e rappresenta la stima dello stok del debito nazionale, basata sui rapporti mensili della Banca d’Italia.
La nostra Associazione è impegnata da anni a sensibilizzare l’opinione pubblica su questa emergenza, che minaccia il nostro futuro e quello dei nostri figli e nipoti e che incide direttamente sulla nostra vita e sulle nostre scelte.

Il debito pubblico rappresenta il totale delle passività di tutte le Amministrazioni Pubbliche- non solo dello Stato – ovvero dei crediti che soggetti diversi – famiglie, imprese, banche, anche estere - vantano nei confronti di esse. Queste passività servono a finanziare il fabbisogno finanziario della pubblica amministrazione affinchè essa possa fronteggiare il costo dei servizi e degli investimenti pubblici non coperti dal gettito delle imposte e tasse. Il bilancio dello Stato da anni è in attivo (avanzo primario) ma gli interessi sul debito non solo ci sottraggono questo “attivo” ma creano un deficit ,“passivo”, che deve essere coperto con altro debito i cui interessi sottraggono ulteriori risorse al bilancio pubblico.

Questa spirale ha fatto crescere e continua a far crescere - 2100 euro ogni secondo - il nostro debito che oggi ammonta a 2.410 miliardi di euro, equivale a circa 36 mila euro per ogni italiano, compresi i neonati e al 133% del prodotto interno lordo, valore quest’ultimo che rappresenta la ricchezza che il nostro paese riesce a produrre annualmente.

Perché bisogna ridurre il debito pubblico? Non solo perché l’Italia, come gli altri Paesi che appartengono all’area dell’Euro si è impegnata a rispettare determinati criteri di buona amministrazione, ma anche per altre ragioni, che ricordo in breve:

  • l’economia italiana stenta a crescere e l’aumento degli interessi che crescono con l’aumento del debito, rende più difficile finanziare la spesa pubblica;
  • l’Italia, con il suo debito molto alto è più esposta di altri paesi a turbolenze sui mercati quando aumentano i rischi di crisi finanziarie, politiche e tecnologiche, ma anche di crisi di fiducia nei “fondamentali” del Paese.
  • l’aumento dei tassi di interesse rende il servizio del debito più oneroso e debbono essere sottratte al bilancio dello stato ulteriori risorse prima destinate a servizi per i cittadini.

In casi limite di interessi molto alti è necessario un intervento da parte di altri Paesi o istituzioni internazionali, come il Fondo Monetario Internazionali. Le conseguenze di questo intervento sono disastrose e vengono pagate da tutti i cittadini per evitare il fallimento dello Stato perché ad essere più penalizzati sono proprio loro in qualità di creditori interni . Se lo Stato non è più in grado di pagare i propri debiti, i creditori perderanno quanto è loro dovuto e se i creditori sono anche cittadini essi saranno penalizzati sia come risparmiatori, sia come contribuenti.

Se un debitore non paga sarà molto difficile che trovi chi gli presta ancora soldi, salvo pagare interessi molto alti. Lo Stato sarà costretto quindi a ridurre le proprie spese – sanità, scuola, ambiente, etc. - oppure ad aumentare il prelievo fiscale.

Ma è proprio impossibile alleggerire questo “macigno”, del cui peso eccessivo pare che molti, tra cui anche chi si dedica all’amministrazione del bene comune, non siano così consapevoli né preoccupati? Il debito pubblico si deve e si può ridurre. L’ ARDEP ha nel corso degli anni suggerito molte ricette ma nessuna di queste ha potuto essere messa concretamente in pratica per far comprendere i tangibili vantaggi che derivano dalla riduzione del debito.

Un’occasione utile si è presentata nel corso del mio mandato di amministratore pubblico , svolto nell’ultimo quinquennio in una delle più belle cittadine del Piemonte: Chieri. Un’esperienza amministrativa i cui risultati positivi hanno avuto un riconoscimento anche dalla recente competizione elettorale, che ha visto confermare al governo della città la coalizione politica uscente.

All’inizio del mandato lo stok del debito comunale, cherappresenta una piccola parte del debito pubblico nazionale insieme a quello degli oltre ottomila enti locali e regioni era prossimo alla soglia dei 20 milioni di Euro. Alla fine del mandato lo stesso debito ammontava a poco più di 5 milioni. Se rapportato al valore economico della produzione (componenti positivi della gestione del Conto Economico 2018) si è ridotto da oltre l’80% al 25%.Un risultato che per la sua bontà ha sorpreso favorevolmente anche le forze politiche di opposizione al governo della città.

È un dato importante, ma come ci insegnano i nostri economisti, da solo significa poco. Si può ridurre il debito se si aumentano le imposte e tasse ai cittadini, oppure se si riducono i servizi e non si avviano investimenti pubblici.

Non è stato il caso in questione: una rigorosa revisione della spesa ha permesso di neutralizzare i significativi tagli di risorse praticati da parte dello Stato nei confronti degli enti locali nel 2015: per la nostra città si trattava di ridurre circa il 6 per cento della spesa corrente, ovvero quella spesa che sostiene la prestazione continua dei servizi pubblici ai cittadini. Una seconda azione ha riguardato il controllo del gettito tributario attraverso una puntuale verifica delle banche dati comunali: nel quinquennio sono stati recuperati oltre 4 milioni di imposte e tasse evase. L’allargamento della base imponibile ha permesso di ridurre su alcuni tributi, come la TARI, il prelievo e di sostenere con maggiori agevolazioni i redditi più bassi. La crescita del gettito fiscale sostenuta anche da attive politiche sul lavoro e dall’avvio di importanti investimenti locali ha permesso di realizzare risparmi sulla gestione utilizzati per finanziare le opere pubbliche senza ricorrere a nuovo debito.

Parte di questi risparmi, non impiegabili a causa dei limiti imposti dagli equilibri di finanza pubblica nazionali sono stati utilizzati per rimborsare anticipatamente mutui e prestiti obbligazionari, contribuendo in tal modo a ridurre in modo sensibile e più veloce lo stock del debito comunale

La riduzione del debito ha abbattuto del 70% il valore degli interessi passivi annualmente corrisposti alle banche liberando risorse sia per finanziare nuovi e maggiori servizi pubblici, sia per finanziare nuovi investimenti. Il valore di questi ultimi ha raggiunto una quota record rispetto ai precedenti quinquenni amministrativi: 32 milioni di Euro contro i 20 del precedente mandato. Il dato più importante riguarda il loro finanziamento avvenuto con risorse proprie del Comune e con i risparmi della gestione, senza la necessità di ricorrere a prestiti onerosi.

Occorre ricordare insieme a questi dati positivi anche le criticità che si sono manifestate nel periodo amministrativo, superate solo con un grande impegno e una forte coesione degli amministratori , uniti ad un clima di fiducia e di collaborazione sviluppato fin dall’inizio con i dipendenti del Comune. La carenza di risorse umane, dovuta all’impossibilità di sostituire il personale cessato dal servizio e il blocco dei rinnovi contrattuali hanno rappresentato un forte limite all’azione amministrativa e alla realizzazione del programma; l’improvvisa crisi finanziaria della società, totalmente partecipata dal Comune, che gestiva le farmacie comunali, indotta da comportamenti illeciti di un collaboratore ha provocato l’ammanco di oltre un milione di euro e ha comportato la necessità di ricapitalizzare la società con uno sforzo finanziario significativo per le finanze del Comune. Diseducativi sono stati i recenti condoni e le cancellazioni di cartelle per la riscossione coattiva dei debiti verso la città: oltre 2,4 milioni di crediti del Comune affidati a Equitalia (soprattutto sanzioni al codice della strada e mancato pagamento di tariffe per i servizi pubblici come mensa e asili nido) sono stati annullati due mesi fa con un decreto del Governo.

Nonostante i suddetti limiti il quinquennio si è chiuso con una “dote” importante: oltre 14 milioni di fondo cassa che sono passati dalle mani del sindaco uscente a quelle del sindaco entrante, come prevede la legge.

Con un debito prossimo al suo azzeramento, che potrebbe avvenire entro la fine del mandato appena iniziato se il percorso virtuoso verrà mantenuto dalla nuova amministrazione , esistono i presupposti per procedere ad una diminuzione della pressione fiscale complessiva del Comune.

Ridurre il debito si può, e l’esperienza raccontata dimostra che i vantaggi sono evidenti . E’solo un esempio, ma significativo di come il buon governo delle risorse che sono di tutti i cittadini possa produrre importanti risultati a beneficio del bene comune, riducendo un po’ il peso di quel “macigno” che ognuno di noi porta sulle proprie spalle.

Giugno 2019
Anna Paschero

 

Quella lettera da Bruxelles sul debito italiano

Dall’Europa è arrivata all’Italia una lettera di richiesta di chiarimenti, perché il rapporto tra il nostro debito pubblico e il Prodotto Interno Lordo nel 2018 è aumentato dello 0,8%, passando dal 131,4% del 2017 al 132,2% dello scorso anno. C’è chi si è mostrato sorpreso per questa missiva, ma i dati diffusi a fine aprile da Eurostat facevano presagire proprio ciò che poi è avvenuto.

Mentre la tendenza europea va nella direzione della diminuzione del rapporto debito/PIL, l’Italia va nel verso opposto. Infatti, sono soltanto 3 su 28 i Paesi dell’Unione in cui il debito pubblico è aumentato lo scorso anno (Grecia, Italia e Cipro), mentre in Francia è rimasto invariato: in 24 Paesi Ue su 28 il debito è sceso e non di poco: nella zona euro di ben due punti, dall’87,1% nel 2017 all’85,1% nel 2018; nella Ue è calato dall’81,7% all’80% in relazione al PIL. E non si tratta soltanto di una tendenza annuale: nell’ultimo triennio in Europa il rapporto debito/PIL è diminuito mediamente di quasi 5 punti in percentuale.

Inoltre, sono ben 13 i Paesi che nel 2018 hanno messo a segno un surplus di bilancio: si tratta di 8 stati della zona euro (Germania, Olanda, Grecia, Austria, Lituania, Lussemburgo, Estonia, Slovenia) e 5 nazioni fuori dall’Eurozona (Repubblica Ceca, Danimarca, Croazia, Bulgaria e Svezia). Guardando ai Paesi più popolosi, il rapporto debito/PIL della Germania è sceso dal 64,5% del 2017 al 60,9% del 2018, in Spagna è sceso dal 98,1% al 97,1%, mentre in Francia è rimasto stabile al 98,4%.

La performance più impressionante è quella del Portogallo, il cui debito è calato dal 124,8% al 121,5%, mentre il deficit annuale è stato quasi azzerato: dal 3% allo 0,5%. Nel 2016 il debito portoghese era superiore al 129% del Pil e dunque si è ridotto di ben 8 punti in percentuale.
La Grecia è il paese che ha un debito più alto (181,1%), mentre l’Italia si colloca al secondo posto con un debito pari al 132,2%. Seguono Portogallo (121,5%), Cipro (102,5%), Belgio (102%), Francia (98,4%) e Spagna (97,1%).

In un Paese normale – a fronte di questi dati – ci si interrogherebbe seriamente sui motivi per cui l’Italia persiste a seguire la via dell’indebitamento, mentre quasi tutti gli altri Paesi europei riescono a ridurre il proprio debito anche in modo significativo. Oppure ci si domanderebbe per quale ragione negli ultimi 30 anni le posizioni tra Belgio e Italia si sono scambiate (infatti nel 1990 il rapporto debito/PIL dell’Italia era intorno al 100% e quello del Belgio al 130%).

Invece la maggior parte degli italiani si stupisce che da Bruxelles scrivano per chiedere spiegazioni, o peggio se la prende con l’Europa dei burocrati, facendo finta di non sapere che le regole dell’Unione le abbiamo sottoscritte anche noi.

La situazione è alquanto paradossale e persino irragionevole. Navighiamo con un’evidente falla nella chiglia dell’imbarcazione Italia e ce la prendiamo con chi ci segnala che stiamo imbarcando troppa acqua. C’è persino chi sostiene che per migliorare il galleggiamento la cosa migliore sia far entrare altra acqua nella stiva, allargando il buco esistente sul fondo della nave.

Forse non ce ne rendiamo nemmeno conto, ma alle lettere allarmate che arrivano dall’Europa stiamo rispondendo con le cartoline scherzose dalle vacanze in Italia. Speriamo di non dover chiedere – tra non molto – i francobolli alla Grecia…

Giugno 2019
Rocco Artifoni

 

Lo shock fiscale di cui ha bisogno l’Italia

Ha ragione Salvini, quando per l’Italia sottolinea “la necessità di uno shock fiscale”. Il problema è nella scelta del tipo di shock da metter in atto.

Per Salvini è la flat tax al 15%, a costo di sforare il tetto del 3% del deficit. La conseguenza, facile da pronosticare, sarebbe uno shock sullo spread, cioè un aumento vertiginoso degli interessi sul debito pubblico.

Un altro tipo di shock potrebbe essere assai più utile per le casse pubbliche: cercare di azzerare il deficit, assicurando - come prevede la Costituzione - l’equilibrio di bilancio (art. 81) e la sostenibilità del debito pubblico (art. 97), con la conseguenza di un drastico calo degli interessi sui titoli di stato.

Questo obiettivo si potrebbe raggiungere senza comprimere la spesa pubblica, cioè senza attuare politiche di austerità. Come?

  1. Pagare le imposte in base alla reale capacità contributiva (art. 53 Cost.). Il che significa anzitutto che tutti i redditi devono essere cumulati e non più soggetti a tassazioni separate e/o di favore.
  2. Comprendere nella base imponibile anche il patrimonio mobiliare, tenendo conto del carico famigliare con un’adeguata quota di esenzione dall’imposizione. Per esempio, si potrebbe rendere l’ISEE obbligatorio per tutti, utilizzandolo come punto di riferimento per la tassazione progressiva.
  3. Introdurre concrete misure di contrasto all’evasione fiscale, attraverso l’ampliamento delle deduzioni e delle detrazioni fiscali per far emergere l’economia sommersa (per il Fondo Monetario Internazionale quasi il 23% del PIL italiano), creando un reale contrasto di interessi tra fornitore e cliente.
  4. Ripristinare una maggiore progressività delle imposte, poiché attualmente sopra i 28.000 euro tutti i contribuenti pagano quasi la stessa aliquota (dal 38 al 43%). Ma la capacità contributiva di chi ha un reddito di 30.000 euro è ben diversa da chi incassa 300.000 euro. E non è giusto fare parti uguali tra diseguali. Si potrebbe adottare, come in Germania, una semplice funzione matematica che automaticamente aumenta l’aliquota con l’accrescere dell’imponibile.
  5. Rendere progressiva anche l’imposta sugli utili delle aziende (anziché l’attuale flat tax del 24% dell’ IRES), come avviene negli USA, dove si applicano 7 aliquote a scaglioni.
  6. Utilizzare almeno un calcolo proporzionale per le sanzioni, come accade in alcuni Paesi del Nord Europa, in cui le tariffe sono stabilite in funzione del reddito e/o del patrimonio. Per esempio, ad un automobilista assai ricco un eccesso di velocità o un divieto di sosta può costare molte migliaia di euro.
  7. Ristabilire un’imposta più seria sulle successioni e sulle donazioni, con una quota di esenzione più bassa e con aliquote progressive (attualmente per la discendenza diretta si tratta del 4% indipendentemente dall’ammontare del patrimonio).

Mettere in atto queste proposte comporterebbe un adeguato aumento delle entrate tributarie e una diminuzione delle disuguaglianze. Si tratterebbe di una vera rivoluzione fiscale nella direzione indicata dalla Costituzione, che considera inderogabile la solidarietà economica e compito della Repubblica la rimozione degli ostacoli che impediscono l’uguaglianza tra i cittadini.

Giugno 2019
Rocco Artifoni 

L’imposta patrimoniale per ridurre il debito pubblico

L’ARDeP (Associazione per la Riduzione del Debito Pubblico) è un’associazione civica composta da cittadini che hanno in comune la sensibilità al problema del debito, cercano di segnalarne il pericolo e di offrire il loro contributo di idee per favorirne la riduzione.

L’associazione, presieduta da Rocco Artifoni, è stata ideata e fondata dal Prof. emerito Luciano Corradini, il quale nel settembre nero del 1992, quando lo Stato rischiava seriamente la bancarotta, decise di decurtarsi parte della retribuzione a vantaggio del debito pubblico. E per un anno e mezzo versò all’erario il 10% del suo stipendio di docente universitario. 

Lo scopo di quella iniziativa, spiegato poi in una lettera al presidente Amato, era quello di denunciare le conseguenze nefaste dell’evasione fiscale e richiamare i politici a una gestione più attenta e responsabile del bilancio statale.

Ebbene, oggi sono qui per parlare di una delle proposte dell’ARDeP per ridurre il debito pubblico. Prima di introdurla, però, vorrei fare un breve cenno al problema del debito pubblico e dell’evasione.

  1. Nell’ultimo ventennio il nostro debito è più che raddoppiato, a marzo scorso il suo ammontare era pari a 2.358,8 miliardi (fonte Banca d’Italia). Siamo il paese europeo che spende la cifra più alta in assoluto per interessi sul debito. Anche lo scorso anno abbiamo dovuto staccare un assegno miliardario per pagare gli interessi agli investitori di tutto il mondo, pena la dichiarazione di insolvenza; un assegno di ben 65 miliardi, l’equivalente di due manovre di bilancio.
    Se il debito venisse ridotto, questi denari potremmo utilizzarli per fare altro, per esempio, potremmo impiegarlo per le politiche sociali. Si consideri che Germania e Francia riservano quasi il 10% della loro spesa pubblica alla scuola, contro il 7,5 dell’Italia. Per di più la Francia ha un budget di spesa ben più alto dell’Italia, pari a oltre 1.200 miliardi, contro i nostri 850 miliardi.
    Sempre nel corso dell’ultimo ventennio anche la ricchezza delle famiglie italiane è cresciuta progressivamente, tanto da sfiorare la soglia dei 10 mila miliardi di euro, oltre quattro volte il valore del debito, di cui le attività reali (abitazioni, terreni) valgono circa 6.000 miliardi e quelle finanziarie (conti, depositi, titoli, azioni, ecc.), al netto delle passività (mutui, prestiti personali), valgono 4.000 miliardi.
    Semplificando i dati e ragionando per medie aritmetiche, possiamo affermare che è come se ogni italiano residente avesse un debito di circa 39 mila euro e al contempo detenesse un patrimonio di circa 160 mila euro (composto per il 60% circa da immobili e per il 40% circa da contanti).
    Questa massa di ricchezza, ovviamente, non è equamente distribuita. Pare che il 50% della ricchezza sia finito nelle mani del 10% delle famiglie.
  2. Sull’evasione fiscale, invece, non ci sono dati certi, l’unica certezza è che in Italia da decenni l’evasione viaggia a 12 cifre. In Italia, infatti, ogni anno sfuggono a tassazione circa 270 miliardi, che se venissero tassati frutterebbero alle casse dell’erario non meno di 100 miliardi di imposte all’anno.
    Ragionando anche qui per medie aritmetiche, possiamo affermare che è come se ogni famiglia occultasse al fisco ogni anno circa 11 mila euro di reddito (le famiglie sono 24,5 milioni).  Le famiglie, ovviamente, non evadono tutte e non tutte allo stesso modo. Si stima che per alcune categorie di contribuenti l’evasione sia pari addirittura all’80% del reddito totale prodotto.
    In realtà, proprio il mancato incasso di questi denari ha comportato l’arricchimento di alcune famiglie, a svantaggio di altre, che da decenni subiscono una pressione fiscale veramente eccessiva.
    Stando così le cose, se per ridurre il debito pubblico pensassimo di varare un’imposta patrimoniale senza un preventivo accertamento circa la reale provenienza dei patrimoni, non faremmo altro che aggiungere ingiustizia ad iniquità.
    Ciò in quanto alcuni patrimoni, evidentemente, sono stati alimentati anche dai proventi dell’evasione, cioè sono il frutto dell’autoriciclaggio delle imposte evase, complice una normativa troppo timida nel contrasto dell’autoriciclaggio. Si consideri che fino al 2015 l’attività di autoriciclaggio - in qualunque forma fosse realizzata - non era punibile in quanto la condotta dell’autoriciclatore era considerata come naturale prosecuzione del delitto presupposto [1].

Se la parola “equità fiscale” ha un senso, occorre procedere con un “atto di giustizia ripartiva”, cioè bisogna anzitutto tassare i patrimoni di provenienza illecita.

La proposta dell’ARDeP - denominata APC, che sta per Aliquota Personale Congrua - consiste nell’utilizzo di strumenti informatici per la creazione di liste selettive di patrimoni da sottoporre a tassazione. Si tratta di “individuare” a monte liste di contribuenti con gravi incongruenze in relazione al rapporto tra i redditi dichiarati e il patrimonio posseduto. 

Più nel dettaglio, bisogna mettere a confronto il patrimonio detenuto da ciascun nucleo familiare con i redditi dichiarati al fisco nel più lungo arco di tempo consentito dal sistema informativo dell’anagrafe tributaria (l’intera vita lavorativa o comunque gli ultimi 15…20 anni).

Da questa relazione ben si potrebbe addivenire ad una percentuale di congruità da utilizzare per tassare i grandi patrimoni. 

Nulla da temere per chi non ha "scheletri nell'armadio", perché con questo metodo verrebbero alla luce solo i patrimoni intestati a prestanome, quelli provenienti da attività illecite e, in particolare, dall’autoriclaggio dell’evasione.

Si tratta, ripeto, di un’imposta straordinaria che colpisce non tutti i patrimoni, ma solo quelli incongrui, da destinare alla riduzione del debito pubblico. In questo modo ciascun cittadino contribuirebbe alla riduzione del debito in modo molto diverso in base alla sua fedeltà fiscale. L’aliquota personale con cui tassare il patrimonio, infatti, non dipenderebbe dall’ammontare del patrimonio, ma dal reddito dichiarato nel lungo periodo considerato.

Una volta che il software avrà selezionato i grandi patrimoni incongrui da sottoporre a tassazione, i contribuenti selezionati dovranno dimostrare la provenienza lecita del loro patrimonio. 

I contribuenti onesti, anche se in possesso di ingenti patrimoni, risulteranno “congrui” a questa verifica e saranno perciò esentati dall’imposizione. Gli altri, invece, contribuiranno alla riduzione del debito con un’imposta che dipenderà dalla quota di patrimonio “ingiustificato” detenuto. 

Lo stesso discorso andrebbe esteso anche all’imposta di successione e donazione, si dovrebbe prevedere un criterio di calcolo dell’imposta basato sul medesimo principio.

L’imposta di successione dovrebbe dipendere dalla congruità dell’asse ereditario al reddito prodotto e dichiarato in vita dal de cuius. 

Noi dell’ARDeP riteniamo che dopo decenni di evasione scandalosamente elevata questa proposta possa rivelarsi un efficace strumento, certamente non l’unico, per ridurre il debito pubblico, ma soprattutto utile per recuperare equità, solidarietà e coesione sociale.

I dati relativi al patrimonio immobiliare sono tutti disponibili in Anagrafe tributaria e quelli relativi al patrimonio mobiliare sono disponibili presso l’Anagrafe dei conti e dei rapporti finanziari. Un archivio nel quale annualmente tutti gli operatori finanziari (Banche, Poste, ecc.) trasmettono il saldo e la giacenza media di tutti i rapporti in essere relativi all'anno precedente. 

Il primo passo da compiere sarebbe quello di rendere obbligatoria per tutti la presentazione della Dichiarazione Sostitutiva Unica (DSU), che oggi viene presentata dai soli contribuenti che intendono richiedere il modello ISEE per accedere a vantaggi fiscali o prestazioni sociali.

Si consideri che il dato del patrimonio mobiliare da dichiarare in DSU fino al 2015 era autocertificato. Da quell’anno in poi è stato introdotto l’obbligo di verifica del dato da parte dell’INPS sulla base delle risultanze dell’Anagrafe dei conti e dei rapporti finanziari. 

Ebbene, il primo anno (quello in cui sono iniziati i controlli) le dichiarazioni con patrimonio nullo sono passate da quasi il 70% al 16%.  Ciò significa che fino all’anno 2015 il 54% circa delle autocertificazioni presentate ai fini ISEE erano infedeli.

Questo dato, oltre a gettare un’ombra di sospetto sull’attendibilità di qualsiasi dato reddituale auto-dichiarato, dimostra quanto l’anagrafe dei conti e dei rapporti finanziari sia stata utile ed efficace per correggere i vizi degli italiani.

Ebbene, la nostra proposta prevede proprio l’estensione in chiave antievasione dell’utilizzo dell’Anagrafe dei conti e dei rapporti finanziari.

Giugno 2019
Cleto Iafrate

[1] Per un approfondimento su questo punto, C. Iafrate, AUTORICICLAGGIO. LA CASSAZIONE CORREGGE IL TIRO, MA CI SONO ANCORA MARGINI DI MIGLIORAMENTO, in ficiesse.it.

La deriva dei conti pubblici italiani

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La legge di stabilità approvata nel dicembre scorso ha previsto per il 2019 un deficit del 2% rispetto al Prodotto Interno Lordo (PIL).

Recentemente Matteo Salvini ha ipotizzato di sforare il 3%, limite stabilito dal Trattato di Maastricht, sottoscritto anche dall’Italia.

Dato che il PIL italiano nel 2018 è stato di 1.757 miliardi di euro (fonte ISTAT), l’1% in più di deficit corrisponde a 17,5 miliardi di euro, che verrebbero chiesti in prestito agli investitori e ai risparmiatori. Ma questo incremento del deficit previsto porta inevitabilmente ad aumentare il costo degli interessi sul debito, che sostanzialmente si identifica con l’aumento dello spread.

Gli operatori del settore stimano che un aumento del deficit oltre il 3% comporterebbe per l’Italia una crescita dello spread di almeno 100 punti, cioè un aumento degli interessi sul debito dell’1%. Dato che il debito pubblico al 31 marzo 2019 ammontava a 2.358,8 miliardi di euro (fonte Banca d’Italia), se l’aumento rimanesse costante nel tempo, si tratterebbe di un costo aggiuntivo di 23,5 miliardi di euro, seppure spalmati in circa 7 anni (scadenza media dei titoli di stato italiani).

È evidente che farsi prestare 17,5 miliardi di euro per poi doverne restituire 41 (17,5 + 23,5), seppure in 7 anni, non è un grande affare.

Per non parlare delle eventuali sanzioni (di parecchi miliardi di euro) che potrebbero arrivare dall’Unione Europea per eccesso di deficit e di debito, nonché violazione del Trattato di Maastricht.

A confermare questa prospettiva negativa per l’Italia, a differenza di tutti gli altri paesi europei, il 29 maggio è stato pubblicato dalla Corte dei Conti il Rapporto 2019 sul coordinamento della finanza pubblica, nel quale si legge: "il 2018 si configura come l’esercizio nel quale il rapporto debito pubblico/Pil torna a crescere in misura marcata, portandosi al 132,2 per cento (dal 131,4 nel 2017). Secondo i dati Eurostat, nell’insieme dell’Area dell’euro l’incidenza del debito sul Pil è scesa di 2 punti, all’85,1 per cento: è rimasta invariata in Francia (98,4 per cento); si è ridotta di 3,6 punti in Germania (60,9 per cento); è calata di un punto in Spagna (al 97,1 per cento) e di 0,5 punti in media (al 124,2 per cento) nei tre Paesi (Grecia, Belgio e Portogallo) che, con l’Italia sono ancora al di sopra della soglia del 100 per cento. L’aumento del 2018 colloca per l’Italia l’indicatore al suo massimo livello dal primo dopoguerra e in crescita di 32,7 punti di Pil rispetto al 2007".

È appena il caso di segnalare che più deficit e debito significano meno risorse disponibili per le spese pubbliche e per le politiche sociali.

E non bisogna dimenticare che "il debito è come qualsiasi altra trappola, abbastanza facile cadervi dentro, ma abbastanza difficile poi uscirne" (Henry Wheeler Shaw).

Maggio 2019
Rocco Artifoni

I paradossi della flat tax all’italiana

Se si accende la spia rossa del debito

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