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Fisco

IRPEF, altri soldi ai ricchi. e i poveri continuano a pagare le medicine il 19% in più

“Siamo molto soddisfatti. L’ipotesi di accordo concentra le risorse sull’IRPEF, come chiedevamo, e aiuta innanzitutto chi oggi paga gran parte dell’imposta: dipendenti, pensionati, ceto medio, con benefici che possono superare i 700 euro annui per alcune fasce di contribuenti del terzo scaglione IRPEF, attualmente compreso tra 28 e 55 mila euro”.

Mentre leggevo queste roboanti dichiarazioni del responsabile economico di uno dei partiti di governo, mi è tornata alla mente una conversazione tra una pensionata e una sua conoscente, cui avevo assistito qualche mese prima nella sala d’attesa di un CAF.

La più giovane: “Maria, anche tu qui? Non sai che con la pensione e solo la prima casa non sei tenuta a fare il 730?”

“Si, lo so, però quest’anno ho tante spese mediche da scaricare, sono stata operata all’anca”.

“Ah, non lo sapevo. Mi dispiace. Ma adesso stai bene?”

“Beh, bene, alla mia età, è una parola grossa; diciamo che adesso almeno riesco a camminare. Sai, ero in lista d’attesa nella struttura pubblica ma non mi chiamavano mai ed allora ho dovuto farmi operare privatamente. Non ce la facevo più ad aspettare. Per l’intervento ho speso cinque mila euro. Ho dovuto fare un prestito. Sai da quando è morto mio marito prendo appena 700 euro di pensione di reversibilità.
In clinica, però, mi hanno detto che la fattura si può scaricare e posso recuperare circa mille euro, 920 per l’esattezza. Ci pagherò le prossime tre rate di prestito”.

“Ecco è arrivato il tuo turno, adesso puoi entrare”.

L’anziana signora, con passo incerto, imbocca l’ufficio con in mano la documentazione fiscale da scaricare in dichiarazione dei redditi.

Dopo qualche minuto esce con sguardo triste e incupito.

L’altra: “Ma cos’è successo?”

“Mi hanno detto che non posso scaricare queste spese, perché SONO INCAPIENTE.
Per recuperare i mille euro avrei dovuto percepire una pensione più ricca.
Cose da matti! E secondo loro, se io avessi avuto una pensione più ricca, avrei fatto un prestito per farmi operare?”

Detto ciò, l’anziana signora se ne andò triste e sconsolata.

L'incapienza fiscale, in effetti, è una situazione che si verifica quando il reddito imponibile è particolarmente basso da non permetterne le detrazioni spettanti.

In buona sostanza, quella stessa operazione, che la nostra pensionata ha pagato cinque mila euro, sarebbe costata poco più di quattro mila euro ad un contribuente più ricco, grazie alla detrazione dall'IRPEF di una percentuale della spesa sostenuta (pari al 19%) per la parte eccedente l'importo di 129,11 euro (la cosiddetta franchigia).

Inoltre, il contribuente più ricco avrebbe risparmiato anche gli interessi sul prestito, perché certamente non avrebbe avuto bisogno di chiedere un prestito per pagare l’operazione. Ma questo è un altro discorso.

Torniamo per un attimo ai motivi di soddisfazione del responsabile economico del partito di centro-sinistra al Governo.

Dalla rimodulazione delle aliquote fiscali non trarranno alcun beneficio tutti i redditi che non superano i 15'000 €. E sono più di 8 milioni di lavoratori e pensionati.

“La differenza maggiore riguarderà gli individui con un reddito dichiarato tra 50 e 55 mila euro: per loro lo sconto sarà in media di ben 692 euro annui, ma con picchi anche di 920 euro, un contribuente con un reddito da 50 mila euro tondi scenderà dagli attuali 15'320 euro annui di IRPEF a 14.400 euro” (fonte: quifinanza/fisco-tasse).

La domanda, a questo punto, sorge spontanea: il governo, invece di dare 920 euro ai contribuenti che hanno già un reddito di 50 mila euro, perché non li ha dati all’anziana signora? Ovverosia, perché non ha usato il tesoretto per permettere ai poveri di pagare le medicine, non dico di meno, ma almeno tanto quanto le pagano i ricchi?

In fondo, l'imposta sul reddito è lo strumento principale di redistribuzione della ricchezza. Come tale, deve garantire a tutti i cittadini di poter provvedere al proprio sostentamento e di poter accedere ai servizi essenziali.

L’eterno “cuneo” della discordia, che fare?

Il “cuneo fiscale”, è bene ricordarlo per gli amanti del principe della risata Totò e della sua celebre parodia “uomini di mondo”, non ha niente a che fare con la capitale della “Granda”. Quel cuneo di cui si parla con veemenza quasi barricadera è la differenza, in busta paga, tra lo stipendio lordo e lo stipendio netto di un lavoratore, dopo che al primo sono state sottratte le imposte, le tasse e i contributi. Oppure, dal punto di vista del datore di lavoro, è il rapporto esistente tra il costo del lavoro e il prelievo fiscale e contributivo applicato allo stesso.

I governi nazionali che si sono avvicendati nel corso degli ultimi anni hanno cercato, con scarsi risultati, di ridurre questa differenza con provvedimenti quasi sempre inseriti nella Legge annuale di Bilancio. Quest’anno, poi, l’esecutivo guidato da Mario Draghi, sta intervenendo su questo capitolo, anche perché l’Italia si colloca ai primi posti in Europa per tale differenziale. Posizione dovuta principalmente, oltre che ai contributi previdenziali, all’imposta sul reddito delle persone fisiche. Il lavoratore si fa carico dell’imposta e di parte dei contributi previdenziali; il datore di lavoro della restante parte dei contributi previdenziali.

Le Organizzazioni Internazionali e l’Europa chiedono da tempo all’Italia di ridurre il costo fiscale e contributivo sul lavoro, perché questa situazione non è incoraggiante per un Paese in cui il lavoro dipendente rappresenta oltre la metà della popolazione attiva, e chiedono di spostare la tassazione sulle rendite e sul patrimonio. Infatti, nell’ultimo rapporto diffuso dall’OCSE “Taxing Wages 2021” (su dati 2020) emergono i differenziali esistenti nei 36 Paesi che fanno parte dell’Organizzazione e l’Italia si colloca al quinto posto con una percentuale del 46% dopo Belgio, Germania, Francia e Austria. La media dei 36 paesi OCSE è del 34,7% (con differenze molto marcate che vanno dal 51,5 al 7% nel caso, rispettivamente, del Belgio e del Cile).

Cifre che presuppongono una domanda importante, ma il più delle volte elusa: quale può essere un livello di cuneo fiscale da considerare ottimale o a cui tendere? Al di là del confronto con lo stesso dato e con la relativa media dei Paesi delle organizzazioni a cui aderisce l’Italia, si può affermare che tale livello dipende dalle diverse condizioni dei singoli paesi, dalla loro politica fiscale che, a sua volta, deriva dal grado di intervento nell’economia dello Stato e dalle funzioni ad esso assegnate. Se tutti i Paesi fossero uguali allo stallo di partenza, con condizioni socio economiche e politiche uguali, si potrebbe definire una misura comune, come è successo, ad esempio con i parametri europei definiti nel trattato di Maastricht a cui occorre tendere.

Ogni Paese ha le sue peculiarità e i suoi fondamentali economici di cui tener conto. Il peso fiscale di un Paese deve essere piuttosto confrontato alla qualità della spesa pubblica e al suo contributo alla ricchezza complessiva, come disponibilità di beni e di servizi e qualità della vita. Anche la distribuzione del peso tra lavoratore e datore di lavoro è diversamente distribuito, anche nei casi di cunei della stessa dimensione come succede tra Italia e Germania; in quest’ultima, il peso è sopportato principalmente dal lavoratore; in Italia il peso risulta quasi equamente distribuito tra lavoratore e datore. La scelta sulla riduzione o sull’aumento della tassazione (fiscale e contributiva) è una questione delicata di cui la classe politica si assume il peso e la responsabilità, perché è direttamente commisurata alla produzione di servizi pubblici e all’erogazione di prestazioni previdenziali.

Non si può chiedere demagogicamente al Governo di ridurre le tasse, e contemporaneamente aumentare il numero dei pensionati e il livello della spesa pubblica. In Italia si può fare – in questo momento di affermata politica espansiva, solo aumentando il deficit – che sfiora oggi il 12% (non superava l’11% dal 1991) e di conseguenza il debito pubblico che è il 150,4% del PIL, pari a 2.723 miliardi di Euro. Numeri che fanno paura.

La riduzione della parte a carico dei lavoratori rappresenta un incentivo ai consumi; riducendo quella a carico delle imprese è possibile che esse aumentino gli investimenti, sempre che resista la fiducia nel sistema Paese. Ma ricordiamoci che il tesoretto previsto dalla Legge di Bilancio 2022 di 8 miliardi, la cui modalità di distribuzione, di cui si è ampiamente scritto, resta un punto fermo da parte degli obiettivi di palazzo Chigi e rappresenta un debito aggiunto allo stock esistente. L’incontro con i sindacati di ieri, sembra aver aperto un varco nel granitico disegno del Governo, tanto da indurlo a definire meglio il capitolo “detrazioni” per andare incontro a CGIL, CISL e UIL con una decontribuzione (una tantum) sui redditi più bassi (non oltre 35.000 Euro). Inoltre, sempre di Draghi è la proposta del “contributo di solidarietà” che annullerebbe ogni beneficio fiscale ai redditi superiori ai 75'000 Euro (sono 270 € all’anno) per recuperare risorse per mitigare il caro bollette (sarebbero circa 300 milioni di Euro). Proposta che ha diviso il Governo, con l’approvazione di Leu, del Partito Democratico e una parte del Movimento Cinquestelle, e la contemporanea decisa opposizione dei ministri di centro destra.

Lo spazio finanziario per le modifiche parlamentari alla legge di bilancio resta in ogni caso limitato, a meno di ridurre le spese. Ma l’epoca dei tagli ai bilanci sembra finita. La mediazione tra le policrome forze politiche di maggioranza rende difficile chiudere, come sarebbe auspicabile, il capitolo della legge di bilancio con soluzioni in grado di coniugare lo sviluppo, a cui tende l’intera manovra, all’equità, che non sarebbe disgiunta dal suddetto obiettivo. Si può fare, ma solo superando gli interessi di parte con uno sguardo più attento al bene della comunità.

Fonte: https://www.laportadivetro.org/leterno-cuneo-della-discordia-che-fare/

Il taglio diseguale delle imposte sul reddito

Mettiamo che si abbiano a disposizione 7 miliardi di euro per la riduzione delle imposte, tralasciando per ora il fatto non secondario che in realtà si tratta di fondi presi in prestito e che andranno ad aumentare il debito pubblico. Parlamento e Governo debbono decidere a chi distribuire questi fondi, cioè a chi diminuire le tasse.

Dopo un anno di audizioni, confronti, simulazioni e dibattiti sembra che si sia arrivati ad un accordo tra tutte le componenti della maggioranza parlamentare che sostiene il Governo presieduto da Mario Draghi. Tutto bene dunque? Per nulla. Basta fare due conti e trasformali in un grafico per verificare dove sono finiti i fondi a disposizione.

Logica vorrebbe che la diminuzione delle imposte sia inversamente proporzionale al reddito dichiarato. La prima cosa che colpisce invece è che ai redditi fino a 15mila euro vengono dati zero euro, nonostante si tratti della fascia dei contribuenti più poveri, con aliquota invariata al 23%.

Oltre i 15mila euro il risparmio fiscale inizia a crescere e raggiunge il massimo con un reddito di 50mila euro, con 920 euro di minori imposte. Poi decresce fino a 270 euro di risparmio per redditi superiori a 75mila euro. Si noti che il reddito medio dei contribuenti italiani è di 26mila euro, che usufruirebbe di uno sconto fiscale di 220 euro.

Di fronte a questi dati si pongono alcune domande. Ha senso fare uno sconto fiscale a tutti i contribuenti? Anche a chi guadagna oltre 75mila euro? E perché i ricchi dovrebbero avere un vantaggio superiore rispetto a chi ha un reddito medio? E soprattutto: perché ai contribuenti più poveri non si fa alcuno sconto? Così facendo è evidente che le disuguaglianze aumentano.

Non è tutto. L’accordo prevede che nel 2022 gli scaglioni dell’IRPEF da 5 vengano ridotti a 4 e che nel 2023 da 4 diventino 3. È del tutto evidente che la riduzione degli scaglioni è tendenzialmente in contrasto con la progressività costituzionale. È appena il caso di ricordare che 50 anni fa con l’entrata in vigore dell’IRPEF gli scaglioni erano 32.

Purtroppo ogni volta che si mette mano alla revisione delle aliquote fiscali si fa un passo indietro verso lo Statuto Albertino, che prevedeva la tassazione proporzionale (sì, proprio la flat tax per tutti). Che tutto ciò oggi avvenga con il consenso unanime di tutte le forze politiche appare davvero sconcertante.

Piero Calamandrei scriveva: “Per far vivere una democrazia non basta la ragione codificata nelle norme di una Costituzione democratica ma occorre, dietro di esse, la vigile e operosa presenza del costume democratico che voglia e sappia tradurla, giorno per giorno, in concreta, ragionata e ragionevole realtà”. Quello che oggi manca è proprio un’etica democratica, che abbia come punto di riferimento imprescindibile la solidarietà e l’equità.

 

Sgravi fiscali: i partiti, nuovi centurioni di Draghi a difesa dei milionari

Il fatto che tutte le variegate forze politiche che sostengono il governo di Mario Draghi siano state concordi sulla proposta di distribuzione dei “risparmi” fiscali provenienti dalla rimodulazione degli scaglioni e delle aliquote dell’IRPEF (8 miliardi previsti nella Legge di Bilancio 2022) non è di per sé la migliore garanzia di un provvedimento di equità fiscale. Anzi.

Il risultato che emerge da una simulazione dei nuovi costi fiscali sulle diverse fasce di reddito è la prova che “lor signori”, come avrebbe scritto il compianto Fortebraccio, al secolo Mario Melloni, i conti li hanno saputi fare molto bene, ma a favore di chi non è stato esplicitamente spiegato. I numeri, infatti, raccontano una storia “lievemente” diversa da quella che si sono intestati tutti i partiti. E raccontano che le tasse non saranno ridotte a chi più ne ha bisogno, come sarebbe lecito pensare, ma a quelle fasce di contribuenti che si collocano molto al di sopra di quello che è il reddito medio dei lavoratori italiani, ovvero 26'000 euro.

I suoi percettori – nella fascia tra 15 e 26 mila euro di reddito sono oltre 12 milioni – trarranno un beneficio di 220 € all’anno, che comprende anche il bonus di 100 € erogato nel 2021, quindi il risparmio netto fiscale è di 120 € annui, che si traduce in 12 Euro mensili. Tuttavia questi contribuenti avranno il conforto di sapere che non saranno gli ultimi della serie a beneficiare di questo sgravio, perché tutti i redditi che non superano i 15'000 € non trarranno nemmeno quel minimo beneficio. E sono più di 8 milioni di lavoratori e pensionati, cioè oltre il 13 per cento della popolazione.

Ma non basta ancora: l’effetto più incredibile della manovra, che sembra allontanarsi (inspiegabilmente) dallo spirito di una riforma fiscale equilibrata ed equa di cui il nostro Paese necessita, a prescindere dai diktat europei, è che a trarre il maggiore beneficio non saranno i redditi medi, ma quelli a partire da 75'000 Euro annui fino all’infinito, fino al mondo dei milionari.

Le forze sociali – sindacati e imprese – si dichiarano scontenti e lamentano di non essere stati interpellati o meglio consultati. A differenza di tutti i partiti dell’intero arco costituzionale – come si sarebbe detto ai tempi di “lor signori” – che hanno evidenziato la soddisfazione di avere visto accolte tutte le loro proposte. Non rimane che ringraziarli per la chiarezza con cui si sono espressi, da destra e sinistra. Per una volta, il latinismo cui prodest?, a chi giova?, non ha bisogno del punto interrogativo. A milioni di italiani, e sono tanti, a coloro che guarderanno da lontano gli sgravi fiscali, è tutto sufficientemente chiaro.

Fonte: https://www.laportadivetro.org/sgravi-fiscali-i-partiti-nuovi-centurioni-di-draghi-a-difesa-dei-milionari/

Legge di bilancio, socialismo personalizzato: chi guadagna di più paga meno …

Meno di un’ora di illustrazione della manovra da parte del ministro Daniele Franco in audizione – l’ultima – davanti alle Commissioni Camera e Senato congiunte, ma seguita da due ore di discussione per rispondere al fuoco di domande dei parlamentari. Si sono chiuse ieri ufficialmente le audizioni sulla Legge di Bilancio 2022 per dare inizio all’esame della Legge da parte del Senato.

Apprezzamenti generali sulla vocazione “espansiva” della legge, ma anche segnalazioni di criticità sui temi delle riforme a cominciare da quella del fisco, la cui revisione strutturale, viene ancora una volta rinviata, senza peraltro ancora si preveda le modalità di utilizzo delle risorse stanziate (8 miliardi su cui ogni forza politica intende piantare la propria bandierina) per ridurre la pressione fiscale.

A questo hanno provveduto oggi, 25 novembre, i tecnici delle Finanze con una proposta che prevede la diminuzione da cinque a quattro scaglioni dell’IRPEF e un intervento di riduzione (di due e tre punti percentuali) sulle aliquote del secondo e terzo scaglione, rimanendo invariate la prima e l’ultima aliquota (23% e 43%) e abolendo lo scaglione con l’aliquota del 41%. È previsto che nel 2023 il numero degli scaglioni si riduca ancora, da quattro a tre. Tale proposta pare essere stata condivisa dalla maggioranza parlamentare e debba tradursi in un emendamento alla legge di Bilancio.

Una compressione decisa della curva della progressività che continua a privilegiare i redditi medio-alti ed elevati e non ad alleggerire quelli più bassi. Si tratta di oltre 8 milioni di contribuenti che hanno un reddito inferiore ai 15'000 Euro annui, che, in questo caso, non fruiranno di nessun risparmio fiscale. Accadrà quindi che, se la matematica non è solo una opinione e qualora venisse confermata dal Parlamento la suddetta proposta, che un reddito medio da lavoro (26'000 €) risparmierà imposte per 220 € all’anno, mentre un reddito elevato (200'000 € ed oltre… all’infinito ) ne risparmierà 270 rispetto all’attuale sistema di scaglioni ed aliquote, con buona pace dell’equità e della riduzione delle disuguaglianze, che continueranno a crescere.

Al contrario, i redditi che non superano i 15'000 € si troveranno una busta paga più leggera per effetto della riforma degli ammortizzatori sociali, prevista dalla Legge di Bilancio, che provocherà un aumento del costo del lavoro dovuto all’aumento delle aliquote contributive, per lavoratori e imprese, necessario per finanziare le integrazioni salariali. Se da un lato resta positiva l’estensione a tutti i lavoratori di tale strumento, secondo il principio dell’universalità, dall’altro, il mancato finanziamento con risorse pubbliche dei costi aggiuntivi da parte del Governo scarica su lavoratori e piccole imprese il finanziamento della revisione del sistema degli ammortizzatori sociali. (Art. 68 Ddl.).

Fonte: https://www.laportadivetro.org/legge-di-bilancio-socialismo-personalizzato-chi-guadagna-di-piu-paga-meno/

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