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Bonus e ristori in stand-by: la pesante eredità del governo Conte

Il Governo Conte è morto: requiescat in pace. Il suo spirito continuerà, tuttavia, ad aleggiare nel Paese per una pesante eredità che lascia chiudendo il suo mandato.

Ci riferiamo ai numerosi decreti che occorrerebbe emanare per dare concretezza ai bonus e ai ristori promessi nelle migliaia di norme approvate, anche sotto la spinta dello stato pandemico creato da Covid-19. Senza questi decreti, bonus e ristori sono infatti destinati a restare sulla carta e vanamente attesi dai beneficiari. Vediamo.

Una tecnica della produzione legislativa è quella di annunciare, in una norma di legge, un intervento, rinviando però la definizione delle regole per la sua attuazione ad un successivo provvedimento: di regola, un decreto del/dei ministro/i competente/i, tenendo conto della materia da disciplinare. La ragione di questo procedimento sta nel fatto che, sovente, gli interventi richiedono la definizione di elementi tecnici, pratici e burocratici necessari per attuarli.

La norma che annuncia l’intervento solitamente stabilisce un termine entro il quale il provvedimento che lo renderà applicabile dovrà essere emanato. È intuitivo che più il termine è corto, maggiormente l’intervento potrà tradursi in fatti concreti. Più il termine è lungo, più l’attuazione dell’intervento si allontana (e se ne perderà la memoria senza fare nulla, com’è avvenuto per migliaia di casi).

Tenendo conto dell’italica lentezza della produzione ministeriale, è poi una pura illusione pensare che si dia corso all’intervento quando la norma che prevede il decreto attuativo non ne stabilisca una scadenza. In ogni caso, senza il decreto attuativo, l’intervento resta lettera morta.

Anche il Governo Conte si è avvalso, a piene mani, di questa tecnica. Anzi, più di altri, avendo adottato il metodo di annunciare, pomposamente e per enfatizzare l’eccellenza delle sue scelte, decisioni prima ancora di aver scritto e approvato le norme che le avrebbero concretizzate.

Successivamente, le norme sono state approvate. Mancando però un approfondimento della materia, le norme non hanno potuto che rinviare a decreti attuativi le promesse annunciate. In conseguenza di questi comportamenti, il Governo Conte, cessando dalle funzioni, lascia una pesante eredità di decreti da emanare affinché bonus e ristori promessi possano diventare realtà.

La Fondazione Openpolis ha, costantemente, monitorato questa situazione fornendo, per ogni provvedimento adottato dal Governo Conte, dati sui decreti attuativi che si rendevano necessari per concretizzare le varie iniziative e su quelli che via via vedevano la luce. Analisi al proposito risultano anche da mezzi d’informazione. E cosi Il Sole 24 Ore - su un totale complessivo di questi atti di 919 - indica in 547 i decreti attuativi da varare affinché bonus e ristori possano essere erogati ai beneficiari (Cerchi, Marini, Paris, Conte lascia 547 decreti da varare, 27.01.2021).

Similmente, il Giornale valuta in 506 i decreti occorrenti per gli scopi appena detti (Gazzanni, Iannacone, La cassaforte dei soldi fantasma: l’ultima eredità di Conte & Co, 03.02.2021). La differenza tra le due analisi è irrilevante potendo aver valutato diversamente alcune criptiche espressioni del legislatore. La dimensione del fenomeno è, comunque, di oltre 500 decreti da approvare.

La constatazione di una situazione di questa entità suscita almeno due riflessioni immediate. La prima, istintiva, è che i destinatari dei bonus e dei ristori attenderanno (chissà per quanto tempo o forse invano) i benefici promessi.

Questo fatto determina però - come osservato da Giovanni Guzzetta, professore di diritto costituzionale presso l’Università di Roma Tor Vergata - “un effetto-boomerang dei bonus non attuati. In questo modo c’è la depressione di un intero settore, perché si attendono gli incentivi. Ma, finché non ci sono, si ferma tutto. In pratica si punta a stimolare un settore economico, ma di fatto lo si danneggia per il ritardo dei decreti”.

Esprime analoga considerazione il deputato della Lega, Alberto Gusmeroli, vicepresidente della commissione Finanze alla Camera, aggiungendo che “se viene ridotto il periodo di possibile impiego del bonus, capita che i fondi non siano spesi totalmente”.

L’argomento dell’utilizzo dei fondi sottolineato dal parlamentare della Lega introduce la seconda riflessione di natura strettamente economico-contabile. Gli annunci del Governo Conte hanno indicato in 180 miliardi il valore complessivo della spesa deliberata con i vari provvedimenti (Cura Italia, Rilancio, Ristori, ecc.), compresa la legge di bilancio 2021.

Stanti le condizioni disastrose della finanza pubblica, questa somma, ovviamente, non ha copertura. Per non violare i principi del bilancio pubblico, la si copre con un aumento dell’indebitamento dello Stato di pari importo.

Se però, mancando i decreti attuativi per trasferire dalla carta alla realtà i vari interventi, le somme a loro dedicate restano congelate, si è aumentato, inutilmente, l’indebitamento. È di tutta evidenza la confusione che viene a crearsi nei conti pubblici, con riflessi sull’ammontare del debito pubblico, debito che il Governo Conte - detto per inciso e con l’alibi della pandemia - nulla ha fatto per contenere.

Premesse queste annotazioni di carattere generale ed entrando un po’ nel dettaglio della questione, possiamo ricordare alcuni esempi di bonus e ristori che, senza decreti attuativi, resteranno al palo. Ci limitiamo all’ultimo provvedimento approvato dal Governo Conte sempre con voto di fiducia - tra l’altro, da esprimere immediatamente e senza che il Parlamento potesse aggiungere nemmeno una virgola -.

Parliamo della legge di bilancio 2021. Degli oltre 500 decreti attuativi rimasti in sospeso, 176 li troviamo in questa legge (che, vogliamo ricordare, è formata da un solo articolo con 1'150 commi). Risulterebbe che uno sia stato approvato. Ne restano 175.

Rimangono in stand-by, ad esempio: l’esonero dal pagamento dei contributi previdenziali da parte di lavoratori autonomi e professionisti in crisi a causa della pandemia; i ristori ai Comuni per le minori entrate derivanti dalla riduzione di tasse a soggetti non residenti nello Stato; i contributi per lo stoccaggio privato dei vini DOC e quelli per sostenere imprese danneggiate da fenomeni di interruzione della viabilità.

E ancora: i contributi a sostegno del reddito dei lavoratori delle aree in crisi industriale, per l’accoglienza in case-famiglia di genitori detenuti con bambini, per l’Alzheimer e le demenze, per le spese d’alloggio di studenti universitari fuori sede e per l’approvvigionamento idrico dei Comuni delle isole minori, per l’attività e cura della fauna selvatica, per il potenziamento dei servizi sociali comunali.

Sono parimenti congelati: il bonus idrico (1'000 euro) da corrispondere per la sostituzione di vasi sanitari e rubinetteria (bonus rubinetti); il bonus per l’acquisto di auto elettriche; il credito d’imposta concesso agli chef; il contributo (500 euro mensili) per nuclei familiari con disabili; il bonus occhiali (50 euro); il contributo per l’acquisto di apparecchi televisivi; il buono veicoli sicuri; il rimborso delle spese legali per gli imputati assolti.

Anche da questo breve campionario, non sfugge la sfrenata fantasia del Governo Conte e dei suoi sodali nell’immaginare regalie ed elemosine (per i modestissimi importi) da elargire a tutti con i soldi dei contribuenti e per evidenti scopi elettorali, spesso mascherati astutamente da finalità sociali.

Ora arriverà il Governo Draghi. Si tratterà di vedere se Draghi accetterà l’eredità dei decreti attuativi a scatola chiusa oppure, come si dice giuridicamente nelle successioni, con “beneficio d’inventario”, vale a dire - come nel caso dell’eredità, dove il beneficio d’inventario consente all’erede di non dover pagare i debiti del defunto - tenendo distinto il proprio programma da quello del suo predecessore fino ad ignorare lo stesso programma di questi.

Certo è che, se la scelta sarà per la seconda ipotesi, alcuni bonus e ristori promessi da Conte svaniranno nel nulla.

(tratto da www.nazionefutura.it del 9 febbraio 2021)

Debito, è urgente un piano di rientro

Dopo scostamenti di bilancio per oltre 108 miliardi e l’ultimo di 34 miliardi, il debito tenderà ad attestarsi al 160% del PIL, il valore più alto dall’unità d’Italia. Si tratta di un dato analogo a quello raggiunto nel 1920 dopo la Prima guerra mondiale (159%). Allora fu possibile riportare quel rapporto al di sotto del 100% perché l’Italia, «potenza vincitrice», poté utilizzare le riparazioni pagate dalla Germania per saldare il proprio debito. Negli anni successivi il debito si attestò tra l’80 e il 100% del PIL fino alla Seconda guerra mondiale, quando risalì al 120%. In quegli anni il problema fu risolto dall’inflazione, che fino al 1946 ridusse drasticamente di un trentesimo il valore della lira. Alla fine del 1947 l’inflazione fu bloccata con una manovra monetaria restrittiva posta in atto da Luigi Einaudi, governatore della Banca d’Italia, che ridusse il debito pubblico al 25% del PIL con conseguenze disastrose per i risparmiatori che avevano acquistato quel debito negli anni precedenti alla guerra.

È evidente come soluzioni di questo tipo siano oggi improponibili. All’ingresso in Europa il nostro Paese si è presentato con un debito pari al 115% del PIL, cresciuto fino ai valori attuali a seguito della sospensione dei vincoli di bilancio decisa dall’Europa fino al 2022 per le comuni difficoltà causate dalla crisi pandemica. Nel frattempo, il governo Conte aveva presentato alle autorità europee un piano di rientro basato su un intenso programma di riforme e investimenti, seguendo le linee d’indirizzo fissate dal «Next Generation Eu», che dovrebbe consentire nel termine di 5-10 anni il ritorno ad un rapporto deficit-PIL vicino a quello registrato prima dell’epidemia (134%). Tale piano, che andrà certamente rivisto dal nuovo governo, è stato ritenuto abbastanza credibile dai mercati. Questi, però, come si sa cambiano opinione repentinamente e nulla ci assicura che politiche monetarie iper-espansive della BCE e tassi d’interesse bassi o addirittura negativi possano durare a lungo. Un elemento determinante sarà rappresentato da un efficace utilizzo dei 209 miliardi messi a disposizione dal «Next Generation Eu», che il nuovo governo dovrà indirizzare verso investimenti caratterizzati da una visione di lungo periodo, in grado di promuovere e favorire una crescita graduale e duratura.

Questi investimenti dovranno essere accompagnati dall’attuazione di riforme che da tempo l’Europa ci chiede, come quelle della pubblica amministrazione, della giustizia, del fisco e della lotta all’evasione e all’economia sommersa, tutte funzionali ad alimentare il processo di crescita. Perché è soprattutto sulla crescita che si fondano le speranze per realizzare una progressiva riduzione del debito. Il recente incontro dei Capi di Stato al Forum di Davos del 20 gennaio scorso, che ha registrato l’assenza dell’ex presidente Conte a causa della crisi di governo, ha segnato l’inizio di una possibile rivoluzione sul tema tradizionale del debito. Il premier francese Macron, auspicando politiche pubbliche indirizzate al superamento delle diseguaglianze attraverso il sostegno ai ceti più colpiti, ha sostenuto che «non si potrà ricostruire niente nel mondo del dopo Covid, se non si prende in considerazione che l’economia è ridiventata una scienza morale, perché abbiamo capito che la vita degli uomini viene prima degli scambi commerciali e delle cifre». Sullo stesso piano si è posta Angela Merkel a cui ha fatto eco il suo braccio destro Hekge Baun, che in un intervento pubblicato su Handelsblatt ha chiesto di mettere da parte nei prossimi anni l’obbligo del pareggio di bilancio sancito dalla Costituzione tedesca dal 2009. Lo stesso obbligo è stato imposto dalla UE a tutti i Paesi europei, compreso il nostro che trarrebbe grande vantaggio da una regolamentazione più flessibile del debito. Senza tuttavia che ciò c’induca a rilassarci, facendoci dimenticare che il nostro rapporto debito/PIL è tra i più elevati in Europa.

(tratto da L’Eco di Bergamo dell’8 febbraio 2021)

Annullare il 25% del debito pubblico si può, ma …

Da tempo e da più parti negli ultimi mesi ha preso slancio la proposta di cancellare la parte di debito (circa il 25%) che alcuni Paesi europei hanno nei confronti della Banca Centrale Europea (BCE). Questa tesi è stata sostenuta anche dal presidente del Parlamento europeo David Sassoli. Il recente appello sottoscritto da oltre un centinaio di economisti di vari Paesi europei è un ulteriore passo in questa direzione. Si tratta di una proposta tutto sommato ragionevole, che presenta alcune criticità, ma con vantaggi probabilmente superiori agli aspetti negativi.

Sottolineata la validità della proposta, occorre riconoscere che nell’appello degli economisti ci sono alcuni aspetti che lasciano perplessi. Anzitutto il titolo: “Annullare i debiti pubblici detenuti dalla BCE per prendere il controllo del nostro destino”. L’Italia attualmente ha un debito pubblico che corrisponde a circa il 160% del Prodotto Interno Lordo (PIL). Se la Banca Centrale Europea congelasse per sempre o annullasse il 25% del nostro debito, questo scenderebbe al 120% nel rapporto debito/PIL. Dieci anni fa l’Italia era al 120%, ma sembra abbastanza azzardato pensare che avessimo il “controllo del nostro destino”. In realtà avevamo, anche allora, un debito pubblico eccessivamente alto, con uno spreco di risorse destinate a pagare gli interessi. Ridurre il debito di un quarto sarebbe una buona notizia, ma la situazione debitoria resterebbe comunque critica. L’enfasi sul controllo del nostro destino è palesemente eccessiva.

Inoltre nell’appello c’è una novità rispetto alle precedenti versioni: “La nostra proposta è quindi semplice: firmiamo un contratto tra gli stati europei e la BCE. Quest'ultima si impegna a cancellare i debiti pubblici che detiene (o a trasformarli in debiti perpetui senza interessi), mentre gli Stati si impegnano a investire le stesse somme nella ricostruzione ecologica e sociale”. Domanda: dove troveranno gli stati queste somme da investire? Probabilmente facendo nuovo debito. E chi dovrebbe sottoscriverlo? La Banca Centrale Europea? Il rischio di un circolo vizioso è evidente.

Infine, nell’appello da un lato si cita l’esempio del “quantitative easing voluto da Mario Draghi”, cioè il fatto che da anni la BCE sta acquistando una parte importante dei titoli di debito emessi dagli stati europei, dall’altro si afferma che “siamo fortunati ad avere un creditore che non teme di perdere i suoi soldi: la BCE”. La fortuna non c’entra nulla, si tratta di una precisa scelta di politica monetaria della BCE guidata da Mario Draghi, che negli ultimi anni è riuscito a convincere anche gli altri rappresentanti dei Paesi europei (Germania in primis) presenti nella BCE a stampare moneta per tenere bassi i tassi di interesse. È grazie a questa scelta della BCE che oggi possiamo ipotizzare la cancellazione del debito pubblico detenuto dalla BCE. Dare a Cesare quel che è di Cesare, non significa necessariamente approvare tutto ciò che fa Cesare. Però è giusto, anche quando Cesare si chiama Mario.

#Next Generation EU: opportunità, vantaggi e condizioni necessarie per la ripresa in Italia dopo la crisi causata dalla pandemia

Il devastante impatto della pandemia da COVID 19 richiede all’Europa di dotarsi di una capacità finanziaria straordinaria per far fronte alle conseguenze che ricadono sulle economie dei Paesi membri. Le risorse finanziarie dovranno essere di entità eccezionale per evitare di aggiungere ulteriore pressione sulle finanze degli stati membri, i cui bilanci sono già sottoposti a grandi sollecitazioni per finanziare le misure economiche e sociali varate in risposta alla crisi.

L’Unione ha quindi conferito alla Commissione Europea il potere di contrarre prestiti sui mercati dei capitali le cui risorse saranno destinate ai paesi membri esclusivamente per fronteggiare le crisi causate dalla pandemia. Lo strumento individuato è quello della Next Generation EU, in gergo giornalistico indicato anche come Recovery Fund, che si affianca al bilancio settennale dell’Unione 2021 – 2027, integrandolo per creare opportunità senza precedenti nella storia della stessa Unione, al fine di assicurare una risposta forte alla crisi, anch’essa senza precedenti.

La sfida che dovranno affrontare tutti i Paesi membri è quella di dimostrarsi capaci di utilizzare, nei tempi e con le condizioni imposte, tali risorse nel modo migliore possibile per sfruttare in pieno le opportunità offerte da questa eccezionale occasione di ricostruzione dell’economia dei propri Paesi.

La convinzione che sembra tuttavia predominare nel dibattito politico italiano è quella che, con il Recovery Fund, arriveranno nel nostro Paese consistenti risorse finanziarie, di cui buona parte in regalo e senza particolari condizioni da rispettare. Nella realtà tali risorse non sono affatto gratis e le condizioni per averle e poterle spendere sono ben indicate nei documenti ufficiali della UE.

Il 27 maggio 2020, in piena crisi pandemica mondiale la Commissione Europea ha proposto lo strumento eccezionale, temporaneo e limitato per la ripresa Next Generation EU, con una dotazione di 750 miliardi di euro, e con un rafforzamento finalizzato del bilancio a lungo termine dell'Unione Europea per il periodo 2021-2027. Ci saranno in totale più di 1.800 miliardi di Euro a beneficio dei Paesi membri per riparare i danni causati dalla pandemia, dalla conseguente crisi economica e per preparare un futuro migliore per la prossima generazione in un’Europa più moderna e sostenibile.

Una decisione che non ha casi analoghi nella storia europea e che si prefigge di creare una ripresa inclusiva, uniforme ed equa per tutto il suo territorio, ma soprattutto per il nostro Paese che beneficerà, più di ogni altro, di risorse straordinarie, mai ricevute prima d’ora.

Il 21 luglio 2020 il Consiglio Europeo ha approvato il pacchetto complessivo di risorse per 1'824,3 miliardi di €uro, suddiviso nelle due linee di finanziamento, la prima relativa al bilancio europeo – quadro finanziario pluriennale 2021÷2027 - per 1.074,3 miliardi, la seconda per la Next Generation EU - di 750 miliardi, di cui 360 miliardi destinati alla concessione di prestiti agli stati membri, e 390 miliardi per finanziare le spese. Il sostegno è limitato nel tempo al fine di impedire la ripresa della crisi; pertanto tutti gli impegni giuridici dei programmi finanziati con tali risorse supplementari dovranno essere assunti entro e non oltre il 31 dicembre 2023.

I passi successivi, compiuti negli ultimi due mesi dell’anno 2020, hanno riguardato il raggiungimento dell’accordo da parte del Parlamento Europeo e degli Stati membri sulla distribuzione delle risorse e l’approvazione del bilancio europeo (16 dicembre 2020 con 548 voti favorevoli, 81 contrari e 66 astensioni) con ulteriori risorse aggiuntive di 16 miliardi di Euro, di cui 15 per rafforzare programmi chiave tra cui sanità, ricerca, cultura, politica comune su migrazione e asilo ed Erasmus+. Nella stessa data è stato approvato il regolamento che disciplina l’uso delle risorse finanziarie stanziate e che pone vincoli al rispetto dello stato di diritto, la cui introduzione rappresenta una novità.

  Un insieme di risorse finanziarie che raggiungerà i 1'850 miliardi per affrontare una crisi che ha causato la morte di migliaia di persone ed ha avuto conseguenze disastrose per i cittadini, i lavoratori e le imprese.

La Commissione dovrà contrarre i prestiti non oltre il 2026 e tutte le passività indotte dal potere eccezionale e temporaneo conferitole, dovranno essere rimborsate integralmente e al più tardi entro il 31 dicembre 2058. Essa ha già iniziato ad assumere prestiti sui mercati finanziari internazionali attraverso un’emissione consistente di titoli europei di debito a costi molto favorevoli - addirittura con interessi negativi - i cui importi saranno redistribuiti tra i Paesi membri. I costi a medio e lungo termine derivanti dal rimborso del debito contratto per finanziare lo strumento di ripresa non andranno a ridurre i programmi di investimento già esistenti né dovranno tradursi in richieste di maggiori contributi da rivolgere agli Stati membri.

Il finanziamento del bilancio europeo avverrà con le risorse proprie tradizionali, con quelle conferite dagli Stati membri e con il rafforzamento del lato delle entrate, attraverso l’introduzione di nuove risorse proprie che serviranno a restituire il debito contratto per finanziare l’iniziativa Next Generation EU

La decisione sulle risorse proprie - cioè l’istituzione di tasse riscosse direttamente dall’Unione Europea con un accordo interistituzionale - da inserire nel bilancio dovrà rispettare, nei prossimi sette anni, una tabella di marcia giuridicamente vincolante, essere sufficiente a coprire i futuri costi di rimborso del prestito e dei connessi oneri, ed essere ratificata da tutti i paesi dell'UE, conformemente ai loro obblighi costituzionali.

Oltre al contributo basato sull’uso di imballi di plastica non riciclati a partire dal 2021, (art. 2 c. 1 lett. c) Decisione 2020/2053 del Consiglio del 14 dicembre 2020) la tabella di marcia prevede, secondo quanto stabilito dal Consiglio Europeo del 17-21 luglio 2020, una risorsa propria basata sul sistema di scambio delle quote di emissione di carbonio (ETS) (dal 2023, eventualmente collegata a un meccanismo di adeguamento), un prelievo digitale (dal 2024), nonché una risorsa propria basata su una imposta sulle transazioni finanziarie (ITF) oltre a un contributo finanziario legato al settore delle imprese o una nuova base imponibile comune per l'imposta sulle società (dal 2026).

Tale percorso, coerente con gli obiettivi stabiliti dalla Commissione sul futuro delle finanze dell’ UE nel giugno 2017, di collegare le risorse proprie in modo più visibile alle politiche dell’Unione - mercato unico e crescita sostenibile - potrebbe provocare effetti positivi quali un maggiore accentramento impositivo, una evoluzione nelle forme accentrate di rappresentanza nonché una accelerazione verso un federalismo politico-istituzionale della stessa Unione.

La protezione dei valori dell’Unione, del suo bilancio e dei soldi dei suoi contribuenti è assicurata dalle tre istituzioni europee – Commissione, Consiglio e Parlamento - attraverso una nuova procedura che istituisce un dialogo costruttivo e l’impegno a riunirsi regolarmente per valutare l’utilizzo dei fondi messi a disposizione. La spesa dovrà essere gestita in modo trasparente e il Parlamento, insieme al Consiglio, controllerà eventuali scostamenti dai piani nazionali precedentemente concordati.

Il Piano nazionale di ripresa e di resilienza #NEXT GENERATION ITALIA.

Una prima bozza è stata approvata dal Consiglio dei Ministri il 12 gennaio 2021 e, stando alle stime, potrebbe aumentare il PIL italiano di 3 punti percentuali. Essa può contare su 223,9 miliardi di €uro, il cui programma di utilizzo si articola, attualmente, in sei macro – missioni e una cinquantina di linee di intervento. E’ previsto che tale programma sia però rivisto dal nuovo governo Draghi, che si sta formando in questi giorni, su cui pare convergere il consenso di buona parte delle forze politiche dell’arco costituzionale ma anche dell’opinione pubblica. Le aspettative sono quelle che il nuovo Governo, deputato in primis a gestire le risorse assegnate all’Italia, possa risolverne i molti problemi indirizzandola verso una nuova fase politica capace di rimetterla sui binari di una ripresa economica e produttiva, dopo anni di stagnazione, aggravata ora dalla crisi pandemica.

Il Piano italiano dovrà essere accompagnato da un robusto piano di riforme, perché le linee di investimento dovranno essere associate all’adozione di una strategia di riforme di sistema , come elemento “abilitante” e catalizzatore, in linea con le “raccomandazioni” fatte all’Italia dalla Commissione europea. La realizzazione delle riforme diventa quindi parte integrante dell’attuazione del piano nazionale che dovrà essere anche strutturato coerentemente con gli obiettivi del Green Deal – il grande progetto UE per la sostenibilità.  Un compito di non facile attuazione se si considera che alcune delle riforme, sono in attesa di essere adottate e completate da anni, come quella delle relazioni tra governo centrale, regioni e amministrazioni locali, il cosiddetto “federalismo fiscale”, dove manca la definizione di parametri chiave per alcune funzioni. C’è poi la riforma della fiscalità e del catasto, con l’attenzione dell’Unione puntata sulla elevata evasione fiscale molto diffusa nel nostro Paese, stimata in oltre 109 miliardi di Euro all’anno, la riforma della giustizia, dove la scarsa efficienza del sistema italiano resta problematica per i tempi di risoluzione dei contenziosi civili e commerciali, ampiamenti superiori a quelli della UE. Ma, altrettanto necessaria è la riforma della Pubblica Amministrazione, che sarà chiamata a interagire con i propri diversi livelli di governo, nazionale e locali, per la gestione delle consistenti risorse del Recovery Fund in presenza di scarse e obsolete competenze e di eccessiva burocratizzazione.

All’Italia l’Unione Europea chiede, oltre alla realizzazione di importanti riforme di sistema, di tenere in debito conto le “raccomandazioni”, prima di tutte quella che riguarda l’elevato debito pubblico italiano, che rappresenta una fonte di vulnerabilità per l’economia e un rischio per lo stesso bilancio europeo, l’alto tasso di disoccupazione, soprattutto femminile e dei giovani, gli insufficienti investimenti nel capitale umano come la spesa per l’istruzione e la formazione, la più bassa dell’UE; le disparità regionali soprattutto tra nord e sud d’Italia. Le oltre cento pagine della Relazione della Commissione Europea che riportano le “raccomandazioni” rivolte all’Italia, forniscono al lettore un’immagine della realtà italiana non certo esaltante.

In ultimo, l’utilizzo delle risorse straordinarie in investimenti “buoni”, capaci di generare valore aggiunto, i cui effetti sul territorio dovranno essere misurati per ottenere il disco verde della Commissione, secondo il potenziale di crescita, la creazione di posti di lavoro e la resilienza sociale ed economica, oltre che dell’effettivo contributo alla transizione verde e digitale. Ma soprattutto gli investimenti per essere rimborsati dovranno essere realizzati nei tempi previsti, entro la fine del 2026. E quest’ultimo requisito rappresenta forse la sfida più importante per l’Italia, che ha dimostrato di essere lo stato europeo, penultimo solo alla Croazia, per la capacità di spendere i fondi strutturali dell’ultima generazione 2014÷2020.

Tutte condizioni, quelle descritte, che se rispettate potrebbero diventare un’occasione unica per cambiare in meglio il nostro Paese,

Il termine ultimo per la presentazione dei PNRR a Bruxelles è fissato al 30 aprile 2021. E’ evidente che l’approvazione del “piano di ripresa e resilienza italiano” da parte delle istituzioni europee e l’efficiente e adeguato utilizzo nazionale delle risorse finanziarie, derivanti da questa auspicabile approvazione, richiederanno un forte investimento politico istituzionale, condizione necessaria per recuperare fiducia fra gli Stati membri e fra l’Unione europea e i suoi cittadini.

 


Pubblicato su rivista “QUALEDUCAZIONE” N. 99

 

Il debito sostenibile

Pubblichiamo l’intervento dell’ex presidente della Bce, Mario Draghi, al Meeting di Rimini il 18 agosto 2020.

Questa situazione di crisi, la pandemia, tra le tante conseguenze genera incertezza. Forse la prima cosa che viene in mente. Una incertezza che è paralizzante nelle nostre attività, nelle nostre decisioni. C’è però un aspetto della nostra personalità dove quest’incertezza non ha effetto: ed è il nostro impegno etico. Ed è proprio per questo che voglio ringraziare di aver ricevuto questo invito, perché mi rende in un certo senso partecipe della vostra testimonianza di impegno etico. Un impegno etico che non si ferma per l’incertezza ma anzi trova vigore nelle difficoltà, trova vigore dalla difficoltà della situazione presente. Il mio esser qui oggi è motivo di grande gratitudine nei vostri confronti che mi avete invitato.

Dodici anni fa la crisi finanziaria provocò la più grande distruzione economica mai vista in periodo di pace. Abbiamo poi avuto in Europa una seconda recessione e un’ulteriore perdita di posti di lavoro. Si sono succedute la crisi dell’euro e la pesante minaccia della depressione e della deflazione. Superammo tutto ciò.

Quando la fiducia tornava a consolidarsi e con essa la ripresa economica, siamo stati colpiti ancor più duramente dall’esplosione della pandemia: essa minaccia non solo l’economia, ma anche il tessuto della nostra società, così come l’abbiamo finora conosciuta; diffonde incertezza, penalizza l’occupazione, paralizza i consumi e gli investimenti.

In questo susseguirsi di crisi i sussidi che vengono ovunque distribuiti sono una prima forma di vicinanza della società a coloro che sono più colpiti, specialmente a coloro che hanno tante volte provato a reagire. I sussidi servono a sopravvivere, a ripartire. Ai giovani bisogna però dare di più: i sussidi finiranno e se non si è fatto niente resterà la mancanza di una qualificazione professionale, che potrà sacrificare la loro libertà di scelta e il loro reddito futuri.

La società nel suo complesso non può accettare un mondo senza speranza; ma deve, raccolte tutte le proprie energie, e ritrovato un comune sentire, cercare la strada della ricostruzione.

Nelle attuali circostanze il pragmatismo è necessario. Non sappiamo quando sarà scoperto un vaccino, né tantomeno come sarà la realtà allora.

Le opinioni sono divise: alcuni ritengono che tutto tornerà come prima, altri vedono l’inizio di un profondo cambiamento. Probabilmente la realtà starà nel mezzo: in alcuni settori i cambiamenti non saranno sostanziali; in altri le tecnologie esistenti potranno essere rapidamente adattate. Altri ancora si espanderanno e cresceranno cambiando insieme alla nuova domanda e ai nuovi comportamenti imposti dalla pandemia. Ma per altri, un ritorno agli stessi livelli operativi che avevano nel periodo prima della pandemia, è quantomeno improbabile.

Dobbiamo accettare l’inevitabilità del cambiamento con realismo e, almeno finché non sarà trovato un rimedio, dobbiamo adattare i nostri comportamenti e le nostre politiche. Ma non dobbiamo rinnegare i nostri principi. Dalla politica economica ci si aspetta che non aggiunga incertezza a quella provocata dalla pandemia e dal cambiamento. Altrimenti finiremo per essere controllati dall’incertezza invece di esser noi a controllarla. Perderemo la strada. Vengono in mente le parole della ’preghiera per la serenità’ di Karl Paul Reinhold Niebuhr che chiede al Signore: «Dammi la serenità per accettare le cose che non posso cambiare, il coraggio di cambiare le cose che posso cambiare, e la saggezza di capire la differenza».

Non voglio fare oggi una lezione di politica economica ma darvi un messaggio più di natura etica per affrontare insieme le sfide che ci pone la ricostruzione e insieme affermare i valori e gli obiettivi su cui vogliamo ricostruire le nostre società, le nostre economie in Italia e in Europa.

Nel secondo trimestre del 2020 l’economia si è contratta a un tasso paragonabile a quello registrato dai maggiori Paesi durante la seconda guerra mondiale. La nostra libertà di circolazione, la nostra stessa interazione umana fisica e psicologica sono state sacrificate, interi settori delle nostre economie sono stati chiusi o messi in condizione di non operare. L’aumento drammatico nel numero delle persone private del lavoro che, secondo le prime stime, sarà difficile riassorbire velocemente, la chiusura delle scuole e di altri luoghi di apprendimento hanno interrotto percorsi professionali ed educativi, hanno approfondito le diseguaglianze.

Alla distruzione del capitale fisico che caratterizzò l’evento bellico molti accostano oggi il timore di una distruzione del capitale umano di proporzioni senza precedenti dagli anni del conflitto mondiale. I governi sono intervenuti con misure straordinarie a sostegno dell’occupazione e del reddito. Il pagamento delle imposte è stato sospeso o differito. Il settore bancario è stato mobilizzato affinché continuasse a fornire il credito a imprese e famiglie. Il deficit e il debito pubblico sono cresciuti a livelli mai visti prima in tempo di pace.

Al di là delle singole agende nazionali, la direzione della risposta è stata corretta. Molte delle regole che avevano disciplinato le nostre economie fino all’inizio della pandemia sono state sospese per far spazio a un pragmatismo che meglio rispondesse alle mutate condizioni. D’altronde una citazione attribuita a John Maynard Keynes, l’economista più influente del XX secolo ci ricorda “When facts change, I change my mind. What do you do sir?’

Tutte le risorse disponibili sono state mobilizzate per proteggere i lavoratori e le imprese che costituiscono il tessuto delle nostre economie. Si è evitato che la recessione si trasformasse in una prolungata depressione. Ma l’emergenza e i provvedimenti da essa giustificati non dureranno per sempre. Ora è il momento della saggezza nella scelta del futuro che vogliamo costruire. Il fatto che occorra flessibilità e pragmatismo nel governare oggi non può farci dimenticare l’importanza dei principi che ci hanno sin qui accompagnato.

Il subitaneo abbandono di ogni schema di riferimento sia nazionale, sia internazionale è fonte di disorientamento. L’erosione di alcuni principii considerati fino ad allora fondamentali, era già iniziata con la grande crisi finanziaria; la giurisdizione internazionale del WTO, e con essa l’impianto del multilateralismo che aveva disciplinato le relazioni internazionali fin dalla fine della seconda guerra mondiale venivano messi in discussione dagli stessi Paesi che li avevano disegnati, primo tra tutti gli Stati Uniti, o che ne avevano maggiormente beneficiato, la Cina; mai dall’Europa, e non è un caso perché l’Europa attraverso il proprio ordinamento di protezione sociale aveva attenuato alcune delle conseguenze più severe e più ingiuste della globalizzazione; l’impossibilità di giungere a un accordo mondiale sul clima, con le conseguenze che ciò ha sul riscaldamento globale.

E in Europa, abbiamo avuto critiche alla stessa costruzione europea, alle quali si accompagnava un crescente scetticismo, soprattutto dopo la crisi del debito sovrano e dell’euro, nei confronti di alcune regole, ritenute fino ad allora essenziali per il funzionamento dell’Europa e dell’euro. Questa regole erano sostanzialmente, ricordate: il patto di stabilità, la disciplina del mercato unico, della concorrenza e degli aiuti di stato. Queste regole sono state successivamente sospese o attenuate, a seguito dell’emergenza causata dall’esplosione della pandemia.

L’inadeguatezza di alcuni di questi assetti era divenuta da tempo evidente. Ma, piuttosto che procedere celermente a una loro correzione, cosa che fu fatta, parzialmente, solo per il settore finanziario, si lasciò, per inerzia, per timidezza e per interesse, che questa critica precisa e giustificata divenisse, nel messaggio populista, una critica contro tutto l’ordine esistente. Questa incertezza non è insolita, ma è caratteristica dei percorsi verso nuovi ordinamenti. Questa incertezza è stata poi amplificata dalla pandemia. Il distanziamento sociale è una necessità e una responsabilità collettiva. Ma è fondamentalmente innaturale per le nostre società che vivono sullo scambio, sulla comunicazione interpersonale e sulla condivisione. È ancora incerto, come dicevo, quando un vaccino sarà disponibile, quando potremo recuperare la normalità delle nostre relazioni.

Tutto ciò è profondamente destabilizzante. Dobbiamo ora pensare a riformare l’esistente senza abbandonare i principi generali che ci hanno guidato in questi anni: l’adesione all’Europa con le sue regole di responsabilità, ma anche di interdipendenza comune e di solidarietà; il multilateralismo con l’adesione a un ordine giuridico mondiale.

Il futuro non è in una realtà senza più punti di riferimento, che potrebbe, come è successo in passato, si pensi agli anni 70 del secolo scorso, che effettivamente sono stati l’ultimo periodo di grande instabilità, si pensi che in quel periodo per quello che riguardi l’Italia, l’inflazione passò dal 5% del ’70 al 21% alla fine di quegli anni e la disoccupazione dal 4 al 7%. La Lira in quegli anni perse metà del suo valore. Un’esperienza anche di altri Paesi. Effetto di periodi che per vari motivi non hanno avuto punti di riferimento. In quegli anni ci fu il primo vero aumento del prezzo del petrolio, l’abbandono del sistema dei pagamenti internazionali che aveva accompagnato il mondo dalla seconda guerra mondiale all’inizio degli anni ’70, la guerra dello Yom Kippur, avvenimenti di grande significato e che avevano sostanzialmente reso obsoleti e superati quei principi.

Ma questo a cosa ha portato? Ha portato a politiche erratiche e certamente meno efficaci, a minor sicurezza interna ed esterna, a maggiore disoccupazione. Ma questo non è il futuro. Il futuro è nelle riforme anche profonde dell’esistente. E occorre pensarci subito. Ci deve essere di ispirazione l’esempio di coloro che ricostruirono il mondo, l’Europa, l’Italia dopo la seconda guerra mondiale.

Si pensi ai leader che, ispirati da J.M. Keynes, si riunirono a Bretton Woods nel 1944 per la creazione del Fondo Monetario Internazionale, si pensi a De Gasperi, che nel 1943 scriveva la sua visione della futura democrazia italiana e a tanti altri che in Italia, in Europa, nel mondo immaginavano e preparavano il dopoguerra. La loro riflessione sul futuro iniziò ben prima che la guerra finisse, e produsse nei suoi principi fondamentali l’ordinamento mondiale e europeo che abbiamo conosciuto.

È probabile che le nostre regole europee non vengano riattivate per molto tempo e quando lo saranno certamente non lo saranno nella loro forma attuale. La ricerca di un senso di direzione richiede che una riflessione e che questa riflessione inizi subito. Proprio perché oggi la politica economica è più pragmatica e i leader che la dirigono possono usare maggiore discrezionalità, occorre essere molto chiari sugli obiettivi che ci poniamo.

La ricostruzione di questo quadro in cui gli obiettivi di lungo periodo sono intimamente connessi con quelli di breve è essenziale per ridare certezza a famiglie e imprese, ma sarà inevitabilmente accompagnata da stock di debito destinati a rimanere elevati a lungo. Questo debito, sottoscritto, comprato, da Paesi, istituzioni, mercati e risparmiatori. E questo debito sarà sostenibile, continuerà cioè a essere sottoscritto in futuro, se utilizzato a fini produttivi. Ad esempio investimenti nel capitale umano, nelle infrastrutture cruciali per la produzione, nella ricerca e altri impieghi.  Se cioè sarà considerato “debito buono”. La sua sostenibilità verrà meno se invece verrà utilizzato per fini improduttivi, se sarà considerato “debito cattivo”. I bassi tassi di interesse non sono di per sé una garanzia di sostenibilità: la percezione della qualità del debito contratto è altrettanto importante. Quanto più questa percezione si deteriora tanto più incerto diviene il quadro di riferimento con effetti sull’occupazione, l’investimento e i consumi.

Il ritorno alla crescita, una crescita che rispetti l’ambiente e che non umili la persona, è divenuto un imperativo assoluto: perché le politiche economiche oggi perseguite siano sostenibili, per dare sicurezza di reddito specialmente ai più poveri, per rafforzare una coesione sociale resa fragile dalla pandemia e dalle difficoltà che l’uscita dalla recessione comporterà nei mesi a venire, per costruire un futuro di cui le nostre società oggi intravedono i contorni.

L’obiettivo è impegnativo ma non irraggiungibile se riusciremo a disperdere l’incertezza che oggi aleggia sui nostri Paesi. Stiamo sì ora assistendo a un rimbalzo nell’attività economica con la riapertura delle nostre economie.

Vi sarà un recupero dal crollo del commercio internazionale e dei consumi interni, si pensi che il risparmio delle famiglie nell’area dell’euro è arrivato al 17% dal 13% dello scorso anno. Potrà esservi una ripresa degli investimenti privati e del prodotto interno lordo che nel secondo trimestre del 2020 in qualche Paese era tornato a livelli di metà anni 90. Ma una vera ripresa dei consumi e degli investimenti si avrà soltanto col dissolversi dell’incertezza che oggi osserviamo e con politiche economiche che siano allo stesso tempo efficaci nell’assicurare il sostegno delle famiglie e delle imprese e credibili, perché sostenibili nel lungo periodo.

Il ritorno alla crescita e la sostenibilità delle politiche economiche sono essenziali per rispondere al cambiamento dei desideri delle nostre società, a cominciare da un sistema sanitario dove l’efficienza si misuri anche nella preparazione alle catastrofi di massa.

La protezione dell’ambiente, con la riconversione delle nostre industrie e dei nostri stili di vita, è considerata dal 75% delle persone nei 16 maggiori Paesi al primo posto nella risposta dei governi a quello che è il più grande disastro sanitario dei nostri tempi. La digitalizzazione, imposta dal cambiamento delle nostre abitudini di lavoro, accelerata dalla pandemia, è destinata a rimanere una caratteristica permanente delle nostre società. È divenuta necessità: si pensi che negli Stati Uniti la stima di uno spostamento permanente del lavoro dagli uffici alle abitazioni è oggi del 20% del totale dei giorni lavorati. Vi è però un settore, essenziale per la crescita e quindi per tutte le trasformazioni che ho appena elencato, dove la visione di lungo periodo deve sposarsi con l’azione immediata: l’istruzione e, più in generale, l’investimento nei giovani.

Questo è stato sempre vero ma la situazione presente rende imperativo e urgente un massiccio investimento di intelligenza e di risorse finanziarie in questo settore. La partecipazione alla società del futuro richiederà ai giovani di oggi ancor più grandi capacità di discernimento e di adattamento. Se guardiamo alle culture e alle nazioni che meglio hanno gestito l’incertezza e la necessità del cambiamento, hanno tutte assegnato all’educazione il ruolo fondamentale nel preparare i giovani a gestire il cambiamento e l’incertezza nei loro percorsi di vita, con saggezza e indipendenza di giudizio.

Ma c’è anche una ragione morale che deve spingerci a questa scelta e a farlo bene: il debito creato con la pandemia è senza precedenti e dovrà essere ripagato principalmente da coloro che sono oggi i giovani. È nostro dovere far sì che abbiano tutti gli strumenti per farlo pur vivendo in società migliori delle nostre. Per anni una forma di egoismo collettivo ha indotto i governi a distrarre capacità umane e altre risorse in favore di obiettivi con più certo e immediato ritorno politico: ciò non è più accettabile oggi. Privare un giovane del futuro è una delle forme più gravi di diseguaglianza.

Alcuni giorni prima di lasciare la presidenza della Banca centrale europea lo scorso anno, ho avuto il privilegio di rivolgermi agli studenti e ai professori dell’Università Cattolica di Milano. Lo scopo della mia esposizione in quell’occasione era cercar di descrivere quelle che considero le tre qualità indispensabili a coloro che sono in posizioni di potere: la conoscenza per cui le decisioni devono essere basate sui fatti, non soltanto sulle convinzioni; il coraggio che richiedono le decisioni specialmente quando non si conoscono con certezza tutte le loro conseguenze, poiché l’inazione ha essa stessa conseguenze e non esonera dalla responsabilità; e infine l’umiltà di capire che il potere che hanno i nostri policy makers è stato affidato loro non per un uso arbitrario, ma per raggiungere gli obiettivi che il legislatore ha loro assegnato nell’ambito di un preciso mandato.

Riflettevo allora sulle lezioni apprese nel corso della mia carriera: non avrei certo potuto immaginare quanto velocemente e quanto tragicamente i nostri leader sarebbero stati chiamati a mostrare di possedere queste qualità. La situazione di oggi richiede però un altro impegno speciale: come già osservato, l’emergenza ha richiesto maggiore discrezionalità nella risposta dei governi, che non nei tempi ordinari: maggiore del solito dovrà allora essere la trasparenza delle loro azioni, la spiegazione della loro coerenza con il mandato che hanno ricevuto e con i principi che lo hanno ispirato. La costruzione del futuro, perché le sue fondazioni non poggino sulla sabbia, non può che vedere coinvolta tutta la società che deve riconoscersi nelle scelte fatte perché non siano in futuro facilmente reversibili.

Trasparenza e condivisione sono sempre state essenziali per la credibilità dell’azione di governo; lo sono specialmente oggi quando la discrezionalità che spesso caratterizza l’emergenza si accompagna a scelte destinate a proiettare i loro effetti negli anni a venire. Questa affermazione collettiva dei valori che ci tengono insieme, questa visione comune del futuro che vogliamo costruire si deve ritrovare sia a livello nazionale, ma anche a livello europeo. La pandemia ha severamente provato la coesione sociale ma anche a livello globale e resuscitato tensioni anche tra i Paesi europei.

Da questa crisi l’Europa può uscire rafforzata. L’azione dei governi poggia su un terreno reso solido dalla politica monetaria. Il fondo per la generazione futura, il Next Generation Eu arricchisce gli strumenti della politica europea. Il riconoscimento del ruolo che un bilancio europeo può avere nello stabilizzare le nostre economie, l’inizio di emissioni di debito comune, sono importanti e possono diventare il principio di un disegno che porterà a un ministero del Tesoro comunitario la cui funzione nel conferire stabilità all’area dell’euro è stata affermata da tempo.

Dopo decenni che hanno visto nelle decisioni europee il prevalere della volontà dei governi, il cosiddetto metodo intergovernativo, la Commissione è ritornata al centro dell’azione. In futuro speriamo che il processo decisionale torni così a essere meno difficile, che rifletta la convinzione, sentita dai più, della necessità di un’Europa forte e stabile, in un mondo che sembra dubitare del sistema di relazioni internazionali che ci ha dato il più lungo periodo di pace della nostra storia.

Ma non dobbiamo dimenticare le circostanze che sono state all’origine di questo passo avanti per l’Europa: la solidarietà sarebbe dovuta essere stata spontanea, è stata il frutto di negoziati. Né dobbiamo dimenticare che nell’Europa forte e stabile che tutti vogliamo, la responsabilità si accompagna e dà legittimità alla solidarietà.

Perciò questo passo avanti ci sarà e dovrà essere cementato dalla credibilità delle politiche economiche a livello europeo e direi soprattutto nazionale. Allora non si potrà più, come sostenuto da taluni, dire che i mutamenti avvenuti a causa della pandemia nell’ordinamento europeo sono temporanei. Potremo bensì considerare la ricostruzione delle economie europee veramente come un’impresa condivisa da tutti gli europei, un’occasione per disegnare un futuro comune, come abbiamo fatto tante volte in passato.

È nella natura del progetto europeo evolversi gradualmente e prevedibilmente, con la creazione di nuove regole e di nuove istituzioni: l’introduzione dell’euro seguì logicamente la creazione del mercato unico; la condivisione europea di una disciplina dei bilanci nazionali, prima, l’unione bancaria, dopo, furono conseguenze necessarie della moneta unica. La creazione di un bilancio europeo, anch’essa prevedibile nell’evoluzione della nostra architettura istituzionale, un giorno correggerà questo difetto che ancora permane. Questo è tempo di incertezza, di ansia, ma anche di riflessione, di azione comune.

La strada si ritrova certamente e non siamo soli nella sua ricerca. Dobbiamo, lo dico ancora un’ultima volta, essere vicini ai giovani investendo nella loro preparazione. Solo allora, con la buona coscienza di chi assolve al proprio compito, potremo ricordare ai più giovani che il miglior modo per ritrovare la direzione del presente è disegnare il tuo futuro.

 

formiche

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