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Creato: Sabato, 18 Dicembre 2021 00:00
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Scritto da Rocco Artifoni
Per ipotizzare e cercare di comprendere ciò che bolle nella pentola del fisco e del debito si potrebbero prendere come punto di riferimento le parole di Mario Draghi, cominciando da una decina d’anni fa.
Il primo segnale di cambiamento nelle strategie europee (e di conseguenza italiane) è stato il “whaterever it takes”, pronunciato il 26 luglio 2012 da Mario Draghi, all’epoca governatore della Banca Centrale Europea, che iniziò ad acquistare titoli di stato attraverso il “quantitative easing”, cioè ad offrire denaro a basso prezzo e a tenere bassi i tassi di interesse sul debito pubblico. Questa scelta espansiva ha consentito all’Italia di non affogare nell’oceano del debito a causa delle onde alte degli interessi, che avevano costretto il governo Berlusconi alle dimissioni nell’anno precedente.
Per quale ragione Draghi nel 2012 decise di andare controcorrente rispetto alle posizioni pro-austerity, sostenute dai “falchi” di molti Paesi europei, a cominciare dalla Germania? Una spiegazione potrebbe trovarsi nel fatto che le politiche di austerità hanno il fiato corto e che per i creditori (privati o istituzionali) non conviene che i debitori vadano in default. Il debito è un meccanismo che serve a redistribuire i soldi al contrario, cioè dai poveri ai ricchi. Ma funziona meglio se sta in equilibrio, con un debito abbastanza elevato ma sostenibile: non deve essere troppo basso (perché gli interessi sarebbero di poca entità), né troppo alto (perché c’è il rischio di perdere interessi e capitale).
Un discorso analogo a quello sul debito, si potrebbe fare per le disuguaglianze e per il sistema tributario. Le disuguaglianze vanno bene ma se non sono eccessive. Il fisco può essere progressivo, ma non molto. In questa logica si possono inquadrare alcune parole o decisioni prese da Mario Draghi negli ultimi mesi come presidente del Consiglio dei Ministri del governo italiano.
Al Social Summit di Porto il 7 maggio 2021 Mario Draghi ha dichiarato: “Il sogno europeo è di garantire che nessuno venga lasciato indietro. Questo sistema è profondamente ingiusto e costituisce un ostacolo alla nostra capacità di crescere e di innovare. Accogliamo con favore il piano d’azione della Commissione sul pilastro europeo e sui diritti sociali, che mettono insieme le esigenze del Mercato unico insieme a quelle di una strategia di crescita più sostenibile ed equa. Dobbiamo essere più inclusivi perché le società inclusive sono resilienti, quelle che non lo sono, sono fragili.”
Il 21 maggio 2021, in risposta al segretario del Partito Democratico Enrico Letta, che aveva proposto di introdurre un’imposta di successione del 20% sui patrimoni superiori a 5 milioni di euro, Mario Draghi ha precisato: “Non abbiamo mai parlato di tasse di successione: questo non è il momento di prendere i soldi ai cittadini, ma di darli.” Da notare il duplice registro: nessun aumento di tasse nemmeno per i più ricchi e politica economica espansiva o addirittura assistenziale.
Il 3 dicembre 2021 in un videomessaggio alla Convention della Fondazione Guido Carli, Mario Draghi rilancia: “Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza è un’occasione storica per rendere l’industria e l’economia più innovative e più sostenibili. Rappresenta anche un’opportunità straordinaria per ridurre le disuguaglianze di genere, di reddito, di generazione”. In questa prospettiva Mario Draghi ha ipotizzato di correggere la riforma fiscale, congelando la diminuzione di imposta sui redditi superiori ai 75'000 euro (si tratta di 270 euro), per utilizzare queste risorse per calmierare gli aumenti nelle bollette per l’energia. In questo caso non si sarebbe trattato di un aumento di tasse, ma di una mancata riduzione. Ma la proposta di Draghi non è passata: nella maggioranza che sostiene il governo ha prevalso la linea della riduzione di tasse per (quasi) tutti, super ricchi compresi. Infatti, se il Parlamento confermerà la proposta di riforma fiscale approntata dal Governo, gli unici che non avranno alcun beneficio sono i contribuenti più poveri, quelli con un reddito inferiore a 15'000 euro annui. Chi avrà maggior vantaggio (920 euro) saranno i possessori di un reddito di 50'000 euro. Una riforma che persino Mario Draghi sta cercando, finora senza successo, di correggere, poiché va nella direzione di un aumento delle disuguaglianze.
Mario Draghi è più scaltro e intelligente dei politici che lo circondano: sa che quando si tira troppo la corda c’è il rischio che si spezzi. E dietro l’angolo, dopo l’arrivo dei fondi europei, si profila un debito pubblico enorme che prima o poi andrà restituito. Il deficit annuo attuale è superiore al 10% e i tassi di interesse non potranno rimanere così bassi a lungo: il rischio di un ritorno all’austerità è concreto. Draghi lo sa, invece gli altri che lo circondano pensano soltanto alle prossime elezioni.
Guardando al futuro chi ritiene che la solidarietà sia un dovere inderogabile a mio avviso dovrebbe ridiscutere e rivedere le categorie finora spesso utilizzate a proposito del debito pubblico. Continuare sulla strada attuale significa mantenere il giogo che grava sui più poveri. Per evitare nuove politiche di austerità bisognerebbe necessariamente ridurre il debito pubblico, utilizzando il patrimonio privato accumulato in modo illegale (mafie, evasione fiscale, corruzione). Servirebbe una vera rivoluzione fiscale (mentre quella in cantiere è palesemente ridicola), che stabilisca anzitutto il cumulo di tutti i redditi come base imponibile e che tenga conto anche dei patrimoni legittimamente posseduti per determinare l’imposta. Insomma, occorrerebbe che le spese pubbliche siano finanziate dalla effettiva capacità contributiva di ciascuno. Sta scritto nella Costituzione, ma è giunto il tempo che queste parole diventino politica economica concreta.
Photo credits: “5:00 PM – Buzek meets Mario Draghi, the Governor of the Bank of Italy” by European Parliament is licensed under CC BY-NC-ND 2.0
Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 48 di Gennaio-febbraio 2022: “Cosa bolle in pentola?“
Fonte: https://www.attac-italia.org/una-vera-rivoluzione-fiscale/
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Creato: Giovedì, 17 Giugno 2021 00:00
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Scritto da Marco Valerio Lo Prete
Il debito pubblico italiano ha raggiunto un nuovo record: 2.680,5 miliardi di euro ad aprile, ha fatto sapere ieri la Banca d’Italia. Il rapporto debito/PIL a fine 2019 era 134,6%. Poi è arrivata la pandemia, con stop alla crescita e via libera ad aiuti pubblici massicci per cittadini e imprese, così il rapporto è salito al 155,8 per cento. Alla conclusione di quest’anno saremo al 160 per cento, una soglia varcata soltanto alla fine della Prima Guerra mondiale. Nonostante un simile primato, l’indebitamento dello Stato ad oggi in Italia. gode di scarsa attenzione nel dibattito pubblico, perlomeno rispetto a un decennio fa quando abbiamo dovuto perfino familiarizzare con il gergo degli addetti ai lavori, vedi alla voce «spread». Siamo dunque diventati meno allarmisti rispetto al debito, oppure stiamo sottovalutando il problema?
Esistono effettivamente alcune ragioni che rendono meno pressanti, nell’immediato, le conseguenze del nostro debito monstre. Il fattore principale di «anestetizzazione» della percezione del rischio è la politica monetaria della Banca centrale europea, in particolare l’acquisto da parte di Francoforte dei nostri titoli di Stato, intensificatosi durante la pandemia. Non solo. Sempre al livello europeo, il sostegno straordinario messo in campo con il programma Next Generation EU, e l’emissione di debito in comune che ne è alla base, ha fugato ogni retropensiero di un’implosione dell’Eurozona e dei conseguenti rischi per i detentori dei titoli dei Paesi più a rischio (Italia inclusa).
Senza contare che ormai in tutta l’Eurozona il peso del debito pubblico sul PIL ha superato il 100%, il valore più elevato dall’introduzione dell’euro, con un aumento medio di 14 punti percentuali nel 2020. Difficile dunque che, passata la fase più acuta della pandemia, si possa tornare come nulla fosse allo status quo ante. L’Italia, insomma, agli occhi degli investitori, è sì molto indebitata, ma in un contesto internazionale ed europeo di Paesi tutti straordinariamente oberati di debiti e congiuntamente un po’ più attrezzati per farvi fronte.
Tuttavia esistono ragioni altrettanto valide per ritenere che l’eccessivo indebitamento italiano rimanga un problema decisivo per il medio-lungo termine. Primo, perché le misure emergenziali decise dai governi non possono farci dimenticare che le occasioni di intrapresa e di lavoro nascono in primis dall’iniziativa privata, non dalla lievitazione generalizzata della spesa pubblica. In secondo luogo, un indebitamento da record può trasformarsi in un fattore di enorme instabilità finanziaria e poi politica, o viceversa. Come interpretare altrimenti i toni minacciosi con cui l’attuale Presidente del Bundestag (ed ex ministro delle Finanze tedesco) Wolfgang Schäuble, sulle colonne del Financial Times, ha richiamato Draghi a comprimere la spesa pubblica? Non appena l’inflazione negli Stati Uniti ha rialzato un po’ la testa, si sono fatte sentire – soprattutto in Germania – le voci di quanti intendono mettere fine al sostegno straordinario della BCE e alle politiche di bilancio espansive. Che un simile obiettivo sia o meno sensato dal punto di vista economico, poco importa. Ormai sappiamo infatti con quanta rapidità le schermaglie diplomatiche e l’incertezza istituzionale, dai corridoi della Commissione UE o della BCE, influenzando le aspettative, possano trasferirsi sulle scelte degli investitori e dei risparmiatori. All’arcigno e a volte irrazionale «vincolo esterno», è dunque da preferire – come indicato dal Presidente del Consiglio Draghi – la strada stretta delle riforme domestiche e dei finanziamenti statali oculati che, aumentando la «crescita potenziale» del Paese, rendono sostenibile il debito.
Fonte: https://www.ecodibergamo.it/stories/premium/Editoriale/la-stretta-stradaanti-debito-di-draghi_1399281_11/