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Aiuti una tantum, spesa esagerata

I 14 miliardi stanziati per aiuti e provvidenze varie hanno spiazzato un pò tutti, sindacati e Confindustria compresi, che preferiscono soluzioni strutturali sul cuneo fiscale (16 miliardi, ma per sempre) e non la politica degli una tantum. La copertura viene da una supertassa del 25% sugli «extraprofitti» delle società energetiche e, in un Paese che non ama i profitti, figuriamoci gli extra, la cosa non ha fatto scalpore, anche se - in mancanza di una politica europea dei prezzi - una parte di questi guadagni viene da precedenti, prudenti scelte di approvvigionamento, e anche se lo Stato-azionista vedrà meno dividendi.

Certamente positivo è il fatto che si sia evitato un nuovo «scostamento di bilancio», formula magica ultimamente sempre più evocata, una specie di abracadabra da dichiarazione serale ai Tg, molto gettonata da chi solo promette. Ipocrisie semantiche che sarebbe meglio chiamare con il loro nome: nuovo debito da scaricare su figli e nipoti, perché questo e non altro sono gli «scostamenti».

Ma guerra e costi energetici appesantiscono segnali già chiari di una svolta necessaria. Non poteva durare l’era felice dell’inflazione zero, dei micro interessi, dei miliardi elargiti da Bruxelles e Francoforte persino per i costi di parte corrente. Oggi l’inflazione viaggia sopra il 6% e la BCE non tarderà a chiudere i rubinetti monetari. Lo stesso Recovery europeo è in gran parte debito, peraltro condizionato a riforme politicamente pesanti, con impegni conseguenti che scricchiolano da tutte le parti e persino i magistrati scioperano per una piccola riforma. Le vecchie abitudini (rinviare, edulcorare, manzonianamente sopire) non reggono più. Si poteva far finta prima, sotto l’ombrello della più straordinaria bonaccia dell’economia mondiale (globalizzazione, multilateralismo e liberalizzazioni, piaccia o non piaccia), che pure aveva propiziato il populismo, male delle democrazie intorpidite.

Ma ora tutto è rivoltato. Con il lockdown, a salvarsi erano stati alcuni in fondo alla scala, come pensionati e dipendenti pubblici, perché a reddito garantito, ma ora proprio loro sono il bersaglio dell’inflazione. Le categorie legate alla mobilità, dall’auto al turismo, al tempo libero sono state triturate dalle montagne russe: prima azzeramento e poi ripresa violenta ma forse precaria. Ha prosperato il colosso Amazon, hanno chiuso i bar. I grattacieli degli uffici sono diventati monumenti inutili, svuotati dallo smart working. Quanto alla guerra, ha messo a nudo il narcisismo delle politiche energetiche tutta virtù rinnovabile e sta punendo gli imprenditori coraggiosi dell’export, ma anche le miopie egoiste della delocalizzazione selvaggia. La graduatoria dei ricchi e degli impoveriti, dei meritevoli e degli incolpevoli ci restituirà alla fine gerarchie dei problemi impensate. Nulla sarà più come prima.

Sui conti pubblici, intanto, si sommano due scostamenti veri: quelli dell’ultima stagione spensierata del populismo e quelli dell’emergenza, dei ristori e dei bonus, fino appunto ai 200 euro una tantum. Quando si faranno i conti finali, le cifre saranno gigantesche. Avrebbero potuto ribaltare l’economia e la società, se spese bene. Hanno tappato buchi. Miliardi che hanno reso poca cosa persino la propaganda del reddito di cittadinanza e di quota 100, o i costi del non fare per i blocchi a TAP, trivelle, TAV e via dicendo, anche se il no è un vizio inestirpabile: ora tocca al termo-valorizzatore di Roma, nonostante gabbiani e cinghiali non siano la soluzione. Siamo in un anno pre-elettorale, il meno adatto per mettere a posto le cose, e partiti e coalizioni non godono di buona salute: centrodestra spaccato, M5S in agonia, PD isolato, arcipelago centrista malato di personalismo. Ma forse si sta percependo che la ricreazione è finita. In Francia e Slovenia, l’emotività di certi temi come l’immigrazione non ha funzionato più e si è badato al sodo: Europa e tenuta del potere d’acquisto. Da noi devono ancora riemergere temi veri come pensioni, lavoro, e fisco, ma in termini complessivi, non a tratti. Tutti keynesiani a parole, ma attenti, perché Peron è sempre dietro l’angolo.

Fonte: https://www.ecodibergamo.it/stories/premium/Editoriale/aiuti-una-tantum-spesa-esagerata_1429213_11/

Inflazione e recessione richiedono cure opposte

La situazione economica è complicata. Le autorità monetarie e i governi sono di fronte a scelte molto difficili. Decenni di debito facile e due lustri di politica monetaria iperespansiva si scontrano con eventi gravi, rari e inattesi come la pandemia e una guerra alle porte di casa. Nascono così due problemi, già molto acuti di per sé: inflazione e recessione, che quando si combinano generano uno scenario davvero tremendo. Il punto centrale è che sono due malattie che richiedono cure opposte e questo suscita il dilemma dei policy makers.

Andiamo con ordine e cerchiamo di capire i termini del problema. L’inflazione degli anni ’20 del Duemila, diversa da quella che abbiamo conosciuto negli anni ’70 e ’80 del Novecento, nasce da una carenza di offerta rispetto alla domanda di beni e servizi. Quindi tutti i prezzi salgono, soprattutto quelli dei prodotti che hanno al loro interno una rilevante componente di energia, per la fabbricazione o per il trasporto. La scarsità interessa alcuni prodotti agricoli fondamentali e quindi aumentano anche i prezzi dei generi alimentari. La situazione è esasperata dall’immensa creazione monetaria degli anni scorsi. L’abbondante liquidità dei mercati ha creato i presupposti perché, al primo inceppamento del sistema produttivo e distributivo, l’inflazione scoppiasse in modo virulento. E la pandemia e la guerra in Ucraina sono qualcosa di più di un marginale inceppamento. Secondo i manuali di economia la cura consiste nella restrizione monetaria e nell’aumento dei tassi di interesse. Questo frena la domanda e ristabilisce un equilibrio sul mercato dei beni e dei servizi che stabilizza la dinamica dei prezzi (purtroppo a un livello superiore al precedente).

L’altro aspetto critico di questo momento è il rischio della recessione indotta non già dalla carenza di domanda ma dall’impossibilità di soddisfarla per carenza di forniture, sia di materie prime sia di componenti intermedi. Successivamente la domanda crollerà perché l’inflazione erode il potere d’acquisto delle famiglie e dello Stato. Con l’inflazione il reddito nominale resta invariato, nel migliore dei casi, ma consente di comperare una minore quantità di beni: ecco perché le imprese vedono calare i volumi produttivi, anche se il fatturato nominale rimane invariato, ma nel frattempo sono aumentati i costi di produzione. Cosa dicono in questo caso i manuali di economia? Che la recessione si contrasta sostenendo la domanda con una politica fiscale espansiva (meno tasse e più spesa) e un’altrettanto espansiva politica monetaria (aumento della liquidità e riduzione dei tassi di interesse). Proprio il contrario di quello che serve per fermare l’inflazione!

Ecco il dilemma dei responsabili dell’economia, soprattutto della Banca centrale: accettare l’inflazione per scongiurare la recessione o contrastare l’aumento dei prezzi rischiando il crollo della produzione e dell’occupazione? Perché le due politiche sottostanti sono antagoniste e l’una non può convivere con l’altra. Per inciso: anche la politica fiscale è coinvolta: se lo Stato vuole fare del debito per aiutare le famiglie a fronteggiare il carovita, non troverà più la Bce pronta a sostenere il mercato dei Btp ma dovrà finanziarsi con sempre maggiore difficoltà e a costi crescenti.

Una scelta molto difficile, dunque, ma decisiva. La cosa peggiore sarebbe cercare di barcamenarsi in un impossibile compromesso fra le due strade (tentazione spesso sottostante le classi politiche deboli che hanno paura di qualunque decisione netta). La mia idea è che si debba da subito fare un intervento deciso contro l’inflazione e poi occuparsi del rilancio della crescita, non solo con la politica monetaria. Indugiare nel contrasto alla crescita dei prezzi rischia di innescare una spirale inflazionistica che darebbe il colpo di grazia alle speranze di scongiurare la recessione.

Fonte: https://www.ecodibergamo.it/stories/premium/Editoriale/inflazione-e-recessione-richiedono-cure-opposte_1429157_11/

L’Italia non torni agli antichi vizi

Secondo un diffuso cliché, l’Italia è un Paese normalmente poco efficiente e piuttosto disorganizzato che però sa dare il meglio di sé nelle condizioni più difficili. Non so se questa raffigurazione sia storicamente comprovata, ma sembra proprio quanto è accaduto in occasione della pandemia, almeno dal punto di vista economico. Le parole del governatore Visco al convegno Assiom Forex di ieri lo confermano: la nostra economia ha reagito molto bene alla crisi sanitaria e ora deve tornare ad affrontare il problema strutturale della bassa crescita in presenza di un alto debito e, sullo sfondo, dell’inflazione che si affaccia. Riuscirà a farlo con lo stesso successo con cui ha risposto alla pandemia? Più che una mera previsione o un auspicio è un imperativo. Il Governatore ha certificato che la produzione industriale è già tornata ai livelli ante pandemia, il PIL lo farà a metà anno e l’occupazione a fine 2022.

La crescita ha raggiunto il 6,5% l’anno scorso e quest’anno è prevista al 4%, già con una revisione al ribasso rispetto alle stime dei mesi scorsi. Cesseranno i sostegni pubblici generalizzati alle famiglie e alle imprese, che saranno prolungati solo per i settori più colpiti come per esempio il turismo e la ristorazione. Mantenere misure straordinarie anche dopo il ritorno alla normalità sarebbe sbagliato perché inciderebbe troppo sulle casse dello Stato e potrebbe fornire ulteriore alimento all’aumento dei prezzi. Proprio l’inflazione è la minaccia principale sullo scenario di medio termine. Sappiamo che è stata scatenata dall’impennata del costo delle energie fossili, soprattutto il gas naturale, e dalle strozzature delle catene produttive. Due condizioni destinate a riassorbirsi o almeno a diminuire di intensità. Di qui l’attesa per un aumento dei prezzi che quest’anno potrà essere contenuto entro il 3% e che dovrebbe rientrare al 2% a partire dal 2023: esattamente il livello target della politica monetaria della BCE. Ma già una volta ci si è dovuti ricredere sulla natura temporanea e fugace dell’aumento dei prezzi. Sarà bene essere molto cauti su questo punto, perché quando le attese di inflazione si radicano, si scatena la pericolosa rincorsa fra prezzi e salari.

L’Italia dovrà affrontare questo difficile contesto con il fardello del suo enorme debito pubblico. Visco ci dice che, grazie alla crescita del 2021, in rapporto al PIL è sceso al 150%, ma è pur sempre 20 punti percentuali superiore al livello ante pandemia. Se in questi ultimi anni il suo finanziamento non è stato particolarmente difficile lo dobbiamo alla BCE e alla sua generosa politica di acquisti di titoli pubblici. I tassi di interessi sono rimasti bassissimi, addirittura negativi sulle scadenze brevi e medie. Durante la crisi sanitaria ai programmi di acquisto di titoli già lanciati per contrastare le spinte deflazioniste, si è aggiunto il PEPP, sigla un po’ buffa con cui era denominato il piano per fronteggiare la pandemia. Ma adesso la musica cambia: chiuso questo intervento temporaneo, il PEPP, la Banca centrale deve affrontare un contesto del tutto diverso, dove il nemico non è più la deflazione, cioè il rischio di calo dei prezzi e di conseguente ristagno dell’economia, ma appunto l’inflazione, il sistematico e generalizzato aumento dei prezzi che erode la capacità di acquisto dei consumatori, scoraggia gli investimenti, porta all’aumento del costo del denaro.

In questo nuovo scenario la BCE aumenterà i tassi di interesse, anche se lo farà in modo graduale e contenuto almeno per tutto il 2022. Visco assicura che nel medio periodo questo non creerà tensioni nel soddisfacimento del nostro fabbisogno di liquidità (400 miliardi all’anno!), ma avverte anche che bisognerà tornare a politiche di bilancio non espansive per ritornare su livelli di indebitamento più sostenibili. E questo, aggiungo io, quale che sia il nuovo patto di stabilità europeo. Potremo godere di una discreta spinta dal PNRR, se sapremo attuarlo a dovere e se porteremo a termine le riforme che esso prevede. Finito lo slancio di reazione alla crisi, occorre che l’Italia non ritorni ai suoi antichi vizi.

Fonte: https://www.ecodibergamo.it/stories/premium/Editoriale/litalia-non-torni-agli-antichi-vizi_1420615_11/

Debito ed energia comuni, avanti piano. Non disperiamo, la strada è aperta.

L’emissione di debito comune a livello europeo per fare fronte alla crisi energetica che stiamo attraversando non è diventata realtà, come pure qualcuno aveva sperato alla vigilia del vertice informale dei 27 capi di Stato e di Governo a Versailles. Tuttavia non è ancora il momento di disperare per il futuro di questa idea. Anzi. Ai leader europei riuniti negli scorsi giorni, innanzitutto, va dato atto di aver messo nero su bianco un’accelerazione significativa su dossier fondamentali per la nostra sicurezza e sovranità, cioè energia e difesa.

Sul primo fronte si è ribadita la volontà di ridurre la dipendenza dal gas russo, esortando la Commissione a presentare nelle prossime settimane una strategia più dettagliata in tal senso. Sul fronte della difesa comune, è stata raddoppiata da subito la quantità di aiuti militari per l’Ucraina (da 500 milioni a un miliardo di euro), mentre alla Commissione è stato richiesto di elaborare «un’analisi delle lacune negli investimenti per la difesa» così come di proporre «ulteriori iniziative necessarie per rafforzare la base industriale e tecnologica della difesa europea».

Visto che su simili obiettivi si è raggiunta adesso una sostanziale unanimità a livello europeo, e non era affatto scontato, ora si tratta di quantificare le risorse necessarie a perseguirli per davvero. Un primo tentativo lo ha fatto il presidente del Consiglio italiano, Mario Draghi: «Assumendo che il gap che noi vogliamo riempire per ciò che riguarda il bilancio della Difesa è pari allo 0,6 per cento del Pil dell’Unione europea, che è quello che ci separa dal livello deciso nella Nato – ha detto Draghi in conferenza stampa - il fabbisogno finanziario è da 1,5 a 2 e più trilioni di euro nei prossimi 5-6 anni. Questo per rispettare gli obiettivi climatici del 2030 e per metterci in regola con le promesse che abbiamo sottoscritto nella Nato». Da qui discende la successiva considerazione del premier: «Ovviamente i bilanci nazionali non hanno questo spazio di manovra, questo tema l’ho posto in maniera molto chiara. Quindi bisogna trovare un compromesso su come generare queste risorse, su dove trovare queste risorse». La logica del ragionamento di Draghi sempre stringente: se i leader europei hanno raggiunto un accordo sul risultato che intendono ottenere, adesso dovranno trovare una quadra per rendere possibile tale esito. Sarà sufficiente tutto ciò a far crollare le opposizioni dei Paesi cosiddetti «frugali», tra i quali l’Olanda e la Finlandia, che da sempre guardano con sospetto a ogni forma di condivisione del debito?

Fonte: https://www.ecodibergamo.it/stories/premium/Editoriale/debito-ed-energia-comuni-avanti-piano-non-disperiamo-la-strada-e-aperta_1423780_11/

 

Il debito pubblico e gli aiuti della BCE

Esistono alcune ragioni razionali e altre pretestuose per sostenere che la Banca centrale europea (BCE) non debba archiviare troppo in fretta il sostegno monetario straordinario all’economia dell’Eurozona (e dunque dell’Italia) nell’attuale congiuntura economica. Iniziamo dai retropensieri pretestuosi che faremmo bene a togliere subito dal tavolo della discussione. I decisori politici italiani dovrebbero realizzare che le politiche monetarie non convenzionali, avviate con il «whatever it takes» pronunciato nell’estate del 2012 dall’allora Presidente della BCE Mario Draghi e rinnovate per arginare i contraccolpi della pandemia, non possono diventare l’eterna panacea per un debito pubblico in costante espansione e un ritmo di crescita strutturale in continuo calo.

A rendere impossibile - o comunque non auspicabile - uno scenario simile ci sono innanzitutto le «leggi di gravità» della scienza economica, poi le inclinazioni di altri Paesi europei meno favorevoli a una BCE espansiva (leggi: la Germania), infine il principio democratico dell’«accountability» nei confronti di cittadini e future generazioni che meritano di vivere in condizioni economiche il più possibile sostenibili e floride. Fare piazza pulita dell’illusione - esplicita o implicita - che la politica monetaria debba curare da sola i mali atavici del nostro Paese rafforzerebbe tra l’altro le ragioni razionali che militano a favore di una BCE interventista, anche in un momento in cui Oltreoceano la FED ha intrapreso la strada della restrizione monetaria.

Tra le due sponde dell’Atlantico, infatti, la ripresa si sta materializzando con ritmi e modalità diverse, come ha spiegato di recente Laurence Boone, capoeconomista dell’OCSE (l’organizzazione internazionale dei 36 Paesi maggiormente sviluppati del pianeta). Nell’Eurozona e negli Stati Uniti, il PIL è oggi rispettivamente allo stesso livello e sopra il livello della fine del 2019, in entrambi i casi grazie a politiche anti-crisi decisamente proattive. Mentre nell’Eurozona l’obiettivo principe di tali politiche è stato impedire i licenziamenti (attraverso schemi di integrazione salariale o addirittura con il blocco legislativo dei licenziamenti), negli Stati Uniti l’interruzione dei contratti di lavoro è stata molto più praticata e la disoccupazione ha raggiunto picchi elevati prima di essere oggi parzialmente riassorbita. Washington ha preferito piuttosto incrementare il reddito degli individui in difficoltà con assegni straordinari e sgravi fiscali, generosi al punto che il reddito disponibile degli Americani è cresciuto in media più di quello degli Europei. Ecco perché, secondo Boone, «negli Stati Uniti i consumi a livello aggregato sono tornati alla tendenza pre-crisi e la spesa in beni è cresciuta superando di molto la dinamica pre-crisi.

Nell’Eurozona invece i redditi sono rimasti grossomodo allo stesso livello pre-pandemia (visto che gli stipendi sono stati più o meno salvaguardati per la maggior parte dei lavoratori grazie a meccanismi tipo la cassintegrazione), e i consumi non sono ancora al livello pre-crisi». Da qui discende una differenza nell’attuale andamento dell’inflazione fra i due blocchi: i prezzi in entrambe le aree crescono a causa dei colli di bottiglia dell’offerta (si pensi al problema dell’interruzione delle catene globali del valore con l’Asia), ma mentre negli Stati Uniti il surriscaldamento è alimentato soprattutto dalla combinazione di un generoso sostegno al reddito dei cittadini con un’offerta che fatica a stargli dietro, nell’Eurozona il principale motivo dell’inflazione risiede nei prezzi dell’energia alle stelle. Conclusione di Boone: «Differenti driver dell’inflazione richiedono differenti risposte di politica economica: mentre gli Stati Uniti dovrebbero rimuovere gradualmente le scelte più espansive (come sta già avvenendo sul fronte fiscale e come annunciato su quello monetario), l’Eurozona a livello aggregato non si è spinta a eccessi paragonabili e dunque ha esigenze diverse di politica economica».

Nel nostro continente, l’occupazione e la partecipazione al mercato del lavoro sono ancora più deboli che in America, il PIL e il reddito hanno raggiunto i livelli pre crisi ma non ancora le tendenze di allora. Dunque, con buona pace dei cosiddetti «falchi» monetari, ci sono motivi più che razionali perché la BCE - come dichiarato ieri dalla presidente Christine Lagarde - non segua troppo precipitosamente la Fed sulla strada della stretta monetaria. Per il bene di tutta l’Eurozona, Italia inclusa.

Fonte: https://www.ecodibergamo.it/stories/premium/Editoriale/il-debito-pubblico-e-gli-aiuti-della-bce_1418515_11

 

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