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Debito

Fermate il debito dei paesi poveri

Il debito pubblico dei paesi poveri sta rialzando la testa e fa paura. Stiamo parlando dei paesi con reddito pro capite inferiore a 2.700 dollari all’anno, quelli che il Fondo Monetario definisce LIDC, Low Income Developing Countries. In tutto 59, con una popolazione complessiva di un miliardo e mezzo di persone, il 20% dell’intera popolazione mondiale. In ordine decrescente partiamo dal Buthan, con un reddito procapite, anno 2017, di 2.510 dollari all’anno e arriviamo alla Somalia, con un reddito pro capite inferiore ai 280 dollari all’anno. La conclusione è che il 40% dell’intera popolazione appartenente ai paesi a basso reddito vive con meno di un dollaro e 90 centesimi al giorno, la soglia infernale al di sotto della quale non c’è più traccia di dignità umana. Oltre mezzo miliardo di derelitti concentrati soprattutto in Africa perché 35 dei 59 paesi più poveri si trovano sul suo territorio. E non si tratta solo di nazioni con fragilità ambientale o conflitti in corso. Fra i paesi condannati alla povertà ci sono anche quelli ricchi di petrolio o di minerali come Nigeria, Ciad, Zambia e Repubblica Democratica del Congo.

Le statistiche mettono in evidenza tre aspetti rispetto al debito pubblico dei paesi più poveri: è in crescita, è sempre più caro, espone un numero crescente di paesi a rischio default. Secondo il Fondo Monetario Internazionale, dal 2012 al 2018 il debito pubblico dei paesi poveri è aumentato mediamente di tredici punti percentuali, passando dal 32 al 45% del loro PIL. Un aumento causato ogni volta da ragioni diverse, anche se solo in pochi casi si può imputare a spese per investimenti, l’unica forma di debito “sano” che crea le premesse per ripagarsi. Una costante che si ritrova in gran parte dei casi è la riduzione delle entrate accompagnata da un aumento delle spese. Più si allarga la forbice fra le due grandezze, più il debito cresce. Per cui è sempre sui due lati della catena che bisogna porre l’attenzione se vogliamo capire i processi di indebitamento.

Sul piano delle entrate il Fondo Monetario rileva che fra il 2013 e il 2019 la media del gettito fiscale dei paesi poveri è rimasta pressoché immutata, attorno al 13% del PIL. Ma come tutte le medie, nasconde il fatto che alcuni sono riusciti ad aumentare il proprio gettito, mentre altri l’hanno visto ridursi. L’aspetto curioso è che a navigare nelle acque peggiori sono stati i paesi fortemente dipendenti dalle materie prime. I paesi produttori di petrolio, ad esempio, sono quelli che registrano le entrate fiscali più basse e che hanno subito le perdite più gravi. Il loro gettito, infatti è passato dal 7% del PIL nel 2014 al 4,5% nel 2019. Tipico il caso della Nigeria, il cui gettito fiscale proviene in larga parte dal petrolio. Le sue entrate fiscali sono passate da 24 miliardi di dollari nel 2013 a 15 miliardi nel 2016 a causa del crollo del prezzo del greggio che nel 2014 si è ridotto del 60%, passando da 114 a 45 dollari al barile. Sorte ancora più drammatica per il Ciad, anch’esso produttore di petrolio, che per la stessa ragione ha dimezzato il proprio gettito fiscale, passato da 2,2 miliardi di dollari nel 2013 a 1,2 miliardi nel 2016. Triste effetto farfalla di una serie di concomitanze internazionali che fra il 2014 e il 2016 fecero crollare non solo il prezzo del greggio, ma anche di molte altre materie prime, gettando nella bufera paesi come Mozambico, Zimbabwe, Niger e vari altri paesi economicamente dipendenti dalle materie prime.

La frenata nelle entrate costrinse molti governi a ridurre anche le spese, ma considerata già la loro inadeguatezza rispetto ai bisogni del paese, giustamente non ci fu proporzionalità. Così crebbe lo scarto fra entrate e uscite dei paesi più poveri; se nel 2014 era mediamente attestato al 5% del loro Pil, nel 2017 lo troviamo all’8%. Una differenza che in prima battuta cercarono di arginare chiedendo aiuto ai governi occidentali. Ma i cordoni dei ricchi si erano fatti più stretti e di soldi sotto forma di donazioni ora ne arrivavano meno. I numeri parlano chiaro: prima del 2014 gli aiuti pubblici ai paesi più poveri viaggiavano su una media di 24 miliardi di dollari all’anno, nel 2017 li troviamo a 18 miliardi di dollari, una riduzione del 25%. Il peggio fu che i governi occidentali erano anche meno disponibili a concedere prestiti e ai paesi poveri non rimase altra scelta se non quella di bussare alla porta della Cina e dei privati. Alcuni analisti collocano i prestiti concessi dalla Cina ai paesi poveri attorno ai 200 miliardi di dollari, circa un quarto dell’intero debito che grava sulle loro spalle.

Ma la Cina non brilla per trasparenza ed è difficile dire se la cifra corrisponda al vero. Si può comunque dire che la Cina concede prestiti attraverso le sue banche di stato, spesso ai tassi di mercato e in cambio di contropartite commerciali. Dunque a condizioni simili a quelle dei soggetti privati che in ogni caso non si presentano come un fronte unico, ma come un mondo variegato formato non solo da banche, ma anche da fondi di investimento e perfino imprese commerciali. Basti dire che nel 2014 il Ciad ottenne un prestito di un miliardo e mezzo di dollari da Glencore, un’impresa commerciale svizzera che accordò il prestito come pagamento anticipato del petrolio che acquistava dal paese.

Quanto al mondo finanziario, il suo coinvolgimento nel debito del Sud si capisce meglio alla luce del quantitative easing, la decisione di molte banche centrali del Nord del mondo di immettere nel sistema economico grandi quantità di moneta fresca per arginare gli effetti della crisi del 2008. Gli economisti stanno ancora discutendo se la misura sia riuscita nel proprio intento, ma di sicuro è stata capace di stuzzicare gli appetiti di molti operatori finanziari, che hanno approfittato di tanto denaro in circolazione per fare il pieno di prestiti a buon mercato e riproporli, a loro volta, a governi e imprese del Sud del mondo a tasso maggiorato.

In definitiva è stato un po’ come tornare agli anni Settanta del secolo scorso, quando i rappresentanti delle grandi banche internazionali facevano il giro delle capitali africane o latino americane per piazzare i petrodollari che inondavano le loro casseforti. E come allora si pagavano mazzette per spingere i ministeri a presentare progetti costosi che avrebbero fatto lievitare i prestiti richiesti, anche oggi sta ricomparendo la grande corruzione internazionale. Un caso clamoroso è quello del Mozambico che si ritiene vittima di una truffa risalente al 2013, quando Ematum, società marittima mozambicana, si accorda con Privinvest, armatore libanese, per l’acquisto di alcuni pescherecci, ricorrendo a prestiti concessi da Credit Suisse e VTB. E per buttare l’operazione sulle spalle del governo mozambicano vengono dati 150 milioni di dollari ad alcuni funzionari governativi affinché producano degli atti che attestano l’impegno del governo a garantire la restituzione dei prestiti che strada facendo hanno raggiunto l’astronomica cifra di 2 miliardi di dollari. Nell’agosto 2019 il governo del Mozambico è ricorso alla magistratura britannica per ottenere l’annullamento degli impegni conseguenti alle garanzie fasulle. L’affare è complicato e il verdetto non è atteso a breve, ma comunque vada a finire, il Fondo Monetario Internazionale annovera la corruzione fra le principali cause di danno finanziario dei paesi del Sud del mondo: la corruzione riduce le entrate fiscali e gonfia le spese, con conseguente aumento del debito che per i poveri è sempre più caro che per i ricchi.

A titolo di confronto da alcuni anni il governo italiano paga interessi inferiori all’1% sui titoli di nuova emissione. Ai paesi poveri sono applicati tassi superiori al 2%, esponendo oltre la metà di loro al rischio default. Lo dimostra il fatto che una quindicina di paesi, secondo i calcoli della Jubilee Campaign, destina agli interessi il 18% delle entrate pubbliche già ridotte all’osso. Soldi tolti alla sanità, alla scuola, alla tutela ambientale, che rendono il mondo sempre più iniquo.

 

Il debito dei Paesi poveri è una marea che va arginata

Il debito pubblico dei Paesi poveri sta rialzando la testa e fa paura. Stiamo parlando dei Paesi con reddito pro capite inferiore a 2'700 dollari all’anno, quelli che il Fondo monetario definisce LIDC, Low Income Developing Countries. In tutto sono 59, con una popolazione complessiva di un miliardo e mezzo di persone, il 20% dell’intera popolazione mondiale.

In ordine decrescente partiamo dal Buthan, con un reddito procapite, anno 2017, di 2'510 dollari all’anno e arriviamo alla Somalia con un reddito pro capite inferiore ai 280 dollari all’anno. La conclusione è che il 40% dell’intera popolazione appartenente ai Paesi a basso reddito vive con meno di un dollaro e 90 centesimi al giorno, la soglia infernale al di sotto della quale non c’è più traccia di dignità umana. Si tratta di oltre mezzo miliardo di derelitti concentrati soprattutto in Africa, perché 35 dei 59 Paesi più poveri si trovano sul territorio di questo continente. E non si tratta solo di nazioni con fragilità ambientale o conflitti in corso. Fra i Paesi condannati alla povertà ci sono anche quelli ricchi di petrolio o di minerali come Nigeria, Ciad, Zambia, Repubblica Democratica del Congo.

Le statistiche mettono in evidenza tre aspetti rispetto al debito pubblico dei Paesi più poveri: è in crescita, è sempre più caro, espone un numero crescente di Paesi a rischio default. Secondo il Fondo monetario internazionale, dal 2012 al 2018 il debito pubblico dei Paesi poveri è aumentato mediamente di tredici punti percentuali, passando dal 32% al 45% del loro PIL. Un aumento causato ogni volta da ragioni diverse, anche se solo in pochi casi si può imputare a spese per investimenti, l’unica forma di debito 'sano' che crea le premesse per ripagarsi. Una costante che si ritrova in gran parte dei casi è la riduzione delle entrate accompagnata da un aumento delle spese. Più si allarga la forbice fra le due grandezze, più il debito cresce. Per cui è sempre sui due lati della catena che bisogna porre l’attenzione se vogliamo capire i processi di indebitamento.

Sul piano delle entrate il FMI rileva che fra il 2013 e il 2019, la media del gettito fiscale dei Paesi poveri è rimasto pressoché immutato, attorno al 13% del PIL. L’aspetto curioso è che a navigare nelle acque peggiori sono stati i Paesi fortemente dipendenti dalle materie prime. I Paesi produttori di petrolio, ad esempio, sono quelli che registrano le entrate fiscali più basse e che hanno subito le perdite più gravi. Il loro gettito, infatti è passato dal 7% del PIL nel 2014 al 4,5% nel 2019.

Tipico il caso della Nigeria il cui gettito fiscale proviene in larga parte dal petrolio. Le sue entrate fiscali sono passate da 24 miliardi di dollari nel 2013 a 15 miliardi nel 2016 a causa del crollo del prezzo del greggio che nel 2014 si è ridotto del 60% passando da 114 a 45 dollari al barile. Sorte ancora più drammatica per il Ciad, anch’esso produttore di petrolio, che per la stessa ragione ha dimezzato il proprio gettito fiscale passato da 2,2 miliardi di dollari nel 2013 a 1,2 miliardi nel 2016. Triste effetto farfalla di una serie di concomitanze internazionali che fra il 2014 e il 2016 han fatto crollare non solo il prezzo del greggio, ma di molte altre materie prime gettando nella bufera anche Paesi come Mozambico, Zimbabwe, Niger e vari altri economicamente dipendenti, appunto, dalle materie prime di cui sono ricchi.

La frenata nelle entrate ha costretto molti governi a ridurre anche le spese, e considerata già la loro inadeguatezza rispetto ai bisogni del Paese senza alcuna proporzionalità. Così è cresciuto lo scarto fra entrate e uscite dei Paesi più poveri, che se nel 2014 era mediamente attestato al 5% del loro PIL, nel 2017 è arrivato all’8%. Una differenza che in prima battuta si è cercato di arginare chiedendo aiuto ai governi occidentali. Ma i cordoni dei Paesi ricchi si erano già allora fatti più stretti e di soldi sotto forma di donazioni ne sono arrivati via via meno. I numeri parlano chiaro: prima del 2014 gli aiuti pubblici ai Paesi più poveri viaggiavano su una media di 24 miliardi di dollari all’anno, nel 2017 li troviamo a 18 miliardi di dollari, una riduzione del 25%.

Il peggio è stato che i governi occidentali si sono rivelati anche meno disponibili a concedere prestiti ai Paesi poveri, ai quali non è rimasta altra scelta che bussare alla porta della Cina e di grandi privati. Alcuni analisti collocano i prestiti concessi dalla Cina ai Paesi poveri attorno a 200 miliardi di dollari, circa un quarto dell’intero debito che grava sulle loro spalle. Ma la Cina non brilla per trasparenza ed è difficile dire se la cifra corrisponda al vero.

Si può comunque dire che la Cina concede prestiti attraverso le sue banche di Stato, spesso ai tassi di mercato e in cambio di contropartite commerciali. Dunque a condizioni simili a quelle dei soggetti privati che in ogni caso non si presentano come un fronte unico, ma come un mondo variegato formato non solo da banche, ma anche da fondi di investimento e perfino da imprese commerciali. Basti dire che nel 2014 il Ciad ottenne un prestito di un miliardo e mezzo di dollari da Glencore, un’impresa commerciale svizzera che accordò il prestito come pagamento anticipato del petrolio che acquistava dal Paese.

Quanto al mondo finanziario, il suo coinvolgimento col debito del Sud si capisce meglio alla luce del quantitative easing, la decisione di molte Banche centrali del Nord del mondo di immettere nel sistema economico grandi quantità di moneta fresca per arginare gli effetti della crisi del 2008. Gli economisti stanno ancora discutendo se la misura sia riuscita nel proprio intento, ma di sicuro è stata capace di stuzzicare gli appetiti di molti operatori finanziari che hanno approfittato di tanto denaro in circolazione per fare il pieno di prestiti a buon mercato e riproporli, a loro volta, a governi e imprese del Sud del mondo a tasso maggiorato. In definitiva è stato un po’ come tornare agli anni Settanta del secolo scorso, quando i rappresentanti delle grandi banche internazionali facevano il giro delle capitali africane o latino americane per piazzare i petrodollari che inondavano le loro casseforti. E come allora si pagavano mazzette per spingere i Ministeri a presentare progetti costosi che avrebbero fatto lievitare i prestiti richiesti, anche oggi sta ricomparendo la grande corruzione internazionale.

Un caso clamoroso è quello del Mozambico che si ritiene vittima di una truffa risalente al 2013, quando Ematum società marittima mozambicana, si accorda con Privinvest, armatore libanese, per l’acquisto di alcuni pescherecci, ricorrendo a prestiti concessi da Crédit Suisse e VTB. E per buttare l’operazione sulle spalle del governo mozambicano vengono dati 150 milioni di dollari ad alcuni funzionari governativi affinché producano degli atti che attestino l’impegno del governo a garantire la restituzione dei prestiti che strada facendo hanno raggiunto l’astronomica cifra di 2 miliardi di dollari.

Nell’agosto 2019 il governo del Mozambico è ricorso alla magistratura britannica per ottenere l’annullamento degli impegni conseguenti alle garanzie fasulle. L’affare è complicato e il verdetto non è atteso a breve, ma comunque vada a finire, il Fondo monetario internazionale annovera la corruzione fra le principali cause di danno finanziario dei Paesi del Sud del mondo: la corruzione riduce le entrate fiscali e gonfia le spese con conseguente aumento del debito che per i poveri è sempre più caro che per i ricchi.

A titolo di confronto da alcuni anni il governo italiano paga interessi inferiori all’1% sui titoli di nuova emissione. Ai Paesi poveri sono applicati tassi superiori al 2%, esponendo oltre la metà di loro a rischio default. Lo dimostra il fatto che una quindicina di Paesi, secondo i calcoli della Jubilee Campaign, destina agli interessi il 18% delle entrate pubbliche già ridotte all’osso. Soldi tolti alla sanità, alla scuola, alla tutela ambientale, che rendono il mondo sempre più iniquo.

 

Debito: si può invertire la rotta

AAA 30 miliardi di euro cercansi. Potrebbe essere questo il contenuto di un ipotetico annuncio pubblicitario della finanza pubblica italiana per l’anno 2020. Sì, perché dagli ultimi dati resi noti dalla Banca d’Italia sull’indebitamento delle amministrazioni pubbliche al 31 dicembre 2019, emerge che per raggiungere il pareggio di bilancio mancano “soltanto” 30 miliardi di euro. Infatti, quello del 2019 è il “miglior” deficit dal 2007 e mostra un significativo cambiamento rispetto al 2018, in cui era stato raggiunto un pessimo risultato: 53 miliardi di euro in disavanzo.

L’attuale governo nell’ultima legge di bilancio si è impegnato a fondo per disattivare le clausole di salvaguardia, cioè per trovare 23 miliardi di euro per evitare l’aumento dell’IVA. Per mesi questo è stato l’obiettivo primario. E se d’ora in poi il target da raggiungere fosse costituito da quei 30 miliardi di euro che metterebbero i conti a posto? 

Sarebbe un risultato clamoroso, poiché dal dopoguerra ad oggi i conti pubblici si sono chiusi sempre rigorosamente in rosso. Se si riuscisse nel 2020 a chiudere il bilancio in pareggio, l’Italia diventerebbe improvvisamente un Paese tra i più affidabili, lo spread scenderebbe a livelli tendenti a zero e il costo per gli interessi sul debito calerebbe in modo ancora più significativo. In altre parole, si potrebbe innescare un ciclo virtuoso, che in breve tempo potrebbe portare il nostro Paese ad un avanzo primario di molto superiore al servizio pagato per il debito. 

A quel punto si aprirebbe un confronto finora inedito: decidere quante risorse utilizzare per ridurre il debito e quante investire per migliorare le condizioni del Paese. In questo modo potrebbero essere disponibili fondi adeguati per la conversione ecologica dell’economia, per gli investimenti nella ricerca, per la messa in sicurezza dei territori, per rafforzare il sistema educativo e scolastico, ecc.

Un libro dei sogni? Può darsi, ma resta il fatto che i numeri dimostrano che non siamo lontani dalla meta, che consiste nel vedere la curva del debito pubblico cambiare verso e iniziare a scendere verso il basso. Per raggiungere questo obiettivo bisogna fare uno sforzo ulteriore, recuperando risorse da chi finora ha dato di meno (evasori) e anche da chi potrebbe dare di più (grandi patrimoni e redditi elevati). In questa prospettiva persino una tassa di scopo potrebbe avere un senso. Fu necessaria per entrare nell’Euro, mentre adesso servirebbe per far parte del club dei Paesi che stanno riducendo il debito pubblico.

È utile ricordare che il calo del debito, oltre a mettere a disposizione più risorse per le spese sociali e per gli investimenti, tende a ridurre la vergognosa ingiustizia intergenerazionale che il debito rappresenta. L’Italia negli ultimi decenni di fatto ha posto una pesantissima ipoteca sulle nuove generazioni e su quelle che ancora devono venire. La zavorra sta in questi numeri: debito = 2.409 miliardi di euro (40 mila euro a testa in media per ogni cittadino italiano) e rapporto debito/pil al 134,8% (significa che per restituire il debito servirebbero i ricavi di tutta la produzione nazionale nell’arco di 16 mesi).

Gli ultimi dati mostrano come la disuguaglianza in Italia sia ancora aumentata. Tra i Paesi dell’OCSE peggio di noi ci sono soltanto gli USA. In Europa nella classifica basata sull’indice di Gini relativa al 2018 l’Italia precede soltanto Bulgaria, Lituania, Lettonia e Romania. Anche la Grecia, seppure con gravi problemi di austerity, è meno diseguale dell’Italia.

Non ci vuole molto a comprendere che disuguaglianza e debito di solito vanno a braccetto. Il debito in fondo è un meccanismo che crea ulteriore disuguaglianza, poiché tutti pagano con gli interessi e soltanto alcuni (i creditori) riscuotono. Anche per ragioni di equità, del presente e del futuro, è forse giunto il tempo per cambiare rotta. Potrebbero bastare 30 miliardi di euro, tenendo conto che il totale delle entrate pubbliche è di circa 800 miliardi di euro. Non è una missione impossibile.

Il macigno del debito pubblico è sempre più pesante

Cari giovani, il debito è un crimine contro il vostro futuro.

Ogni governo a parole si propone di ridurre il debito dello Stato, ma i risultati sono sempre esattamente l'opposto. L'anno 2019 si è chiuso ufficialmente con 2.409 miliardi di euro di debito in capo agli italiani (dato ufficiale Banca Italia 14/02/2020). Significa che ogni neonato ha sulle spalle 40.000 euro di debito; per una famiglia di (tre componenti) circa 120.000 euro; come un mutuo con relativi interessi da pagare.

Ciò che è più grave, nel 2019 il debito è aumentato di ulteriori 29 miliardi, in barba a tutti gli impegni di riduzione. Un debito pari al 134,8% della ricchezza prodotta dal Paese. Per ripagare il “macigno debito”, occorrerebbe un anno e quattro mesi di lavoro gratis dei cittadini e delle imprese. Inoltre con l’applicazione dei nuovi criteri UE sul debito pubblico, sono emersi ulteriori 64 miliardi di debito prima non contabilizzati.

A creare questo colossale debito hanno contribuito i governi Andreotti, Craxi, Berlusconi. Ha contribuito anche il governo Renzi, il governo sovranista Salvini - Di Maio e anche l’attuale. I provvedimenti presi nell’ultimo anno: reddito di cittadinanza, quota 100, riduzione tasse, gratuità asili ecc. sono caricati su un maggiore debito pubblico.

Nel governo sovranista, Salvini e Di Maio, facendo a gara a chi la sparava più grossa, sono arrivati ad affermare: “chi se ne frega del debito, il debito è delle banche”. Una completa idiozia e falsità. Il debito dello Stato per il 70% è finanziato dai risparmi investiti degli italiani, solo il 30% è finanziato dai fondi d’investimento esteri. Se il debito fosse declassato a “spazzatura” o l’Italia cadesse nel default (insolvenza), sarebbe anche il risparmio degli italiani a diventare carta straccia.

In Europa siamo il Paese con maglia nera per il debito. Peggio di noi c'è solo la Grecia. La Francia ha un indebitamento del 94,4%, il Regno Unito del 85,9%, la Germania del 61,9%, la Spagna del 97,6%, la media Europea è del 86%. Anche gli Stati Uniti hanno un indebitamento più basso: 105%.

Quanto costa a famiglia?

Uno sprovveduto potrebbe dire: “ma il debito è dello Stato non è mio”. Vero! Ma...il debito è costato nel 2019, ben 70 miliardi di interessi passivi, che divisi per 20 milioni di famiglie, significa 3.300 euro/anno che ogni famiglia paga d’interessi. Più lo spread sale, più elevati sono gli interessi da pagare; più lo spread scende, più leggero è il conto da pagare. Affermare, come hanno fatto due noti “statisti”: “chi se ne frega dello spread” è un’altra grave idiozia. 

Queste risorse che lo Stato “butta”, o meglio noi buttiamo, per interessi, sono meno risorse per migliorare le scuole, la sanità, i servizi al cittadino; e soprattutto sono meno investimenti per l'occupazione e il lavoro.

Dovremmo dire grazie all'Unione Europea e a Draghi che ha tenuto bassi i tassi, altrimenti la spesa di 70 miliardi avrebbe potuto essere di 100 (in tal caso sarebbero stati ben 5.000 euro a famiglia). Per rendere comprensibile “il macigno del debito” si pensi che l’istruzione (asili, università, ricerca) costa 75 miliardi, il servizio sanitario costa 120 miliardi. Noi rischiamo che gli interessi sul debito diventino il “servizio” più costoso. È una follia! Il debito va ridotto non perché ce lo chiedono gli altri, ma perché è un cappio al collo ai nostri figli.

Per il 2020 quali previsioni?

Ovviamente le previsioni di questo governo sono ottimistiche, ma non sono attendibili, la prospettiva per il 2020 rischia di essere peggiore del 2019. Cerchiamo di ragionare su dati oggettivi, non sulla propaganda che in Italia è continua per 12 mesi l’anno. Le ragioni sono semplici, vediamone alcune.

In Italia la popolazione attiva si riduce. Nell'anno 2019 i decessi sono stati 630.000 e i nati soltanto 430.000. In quattro anni la popolazione residente si è ridotta di 450.000 (se si riduce la popolazione il debito pro/capite aumenta).

La crescita economica è prevista a + 0,1%, ma è molto probabile, direi certo, che sarà negativa, per le numerose aziende in crisi, la guerra sulle tariffe tra Stati Uniti e Cina i cui costi ricadono anche sull’ Europa. La vicenda del Virus aggrava tutte le previsioni.

Se la ricchezza del paese non cresce, la conseguenza è che il rapporto debito/PIL, ora al 134,8%, peggiora. Se poi il debito o lo spread dovesse anche aumentare, peggiora due volte.

Molte spese sul bilancio dello Stato hanno aumenti direi “automatici” per rinnovo contratti, aumento dei costi nella scuola, sanità, pubblica amministrazione, potrebbero essere compensate con tagli alle spese improduttive, ma…

Le spese improduttive sono stimate in circa 20 miliardi sul bilancio dello Stato. Ma nessun governo ad oggi ha avuto il coraggio di tagliarle. Il caso Alitalia insegna.

La lotta all’evasione: è su questo capitolo che i politici ripongono le speranze di entrate aggiuntive, ma sarà possibile? Su 100 euro di tasse 23 sono evase. L'evasione complessiva è stimata a 200 miliardi di euro anno. Alcune categorie evadono per l’86% del reddito. Lo Stato, con le attuali tecnologie, conosce gli evasori... ma temo, che per l'anno in corso la situazione non migliorerà.

L’iva da sterilizzare: nel 2020 ci sono altri 40 miliardi che dovranno essere trovati per evitare l'aumento dell'IVA (si parla di rimodulazione che vuol dire aumenti).

In conclusione il debito nel 2019 è cresciuto di 29 miliardi, nel 2020 l’aumento rischia di essere superiore. L'Italia continua a camminare sull'orlo del baratro con un debito sempre più pesante e una situazione produttiva sempre più negativa. Ma questo nessuno lo dice.

In queste condizioni il lavoro per i giovani, resta un miraggio, soprattutto per i giovani del mezzogiorno dove il livello di disoccupazione ha raggiunto il 30%.

Nel 2019 oltre 100.000 giovani italiani, per lavorare sono andati all'estero, per il 2020 quanti saranno?

Questa situazione di “stagnazione”, di non crescita (che abbiamo da 10 anni), ha un nome: si chiama “delitto del debito”. Negli ultimi 14 anni abbiamo bruciato 1.000 miliardi di euro di ricchezza per pagare interessi sul debito. Se queste risorse fossero state investite in modo produttivo, non avremmo il livello di disoccupazione di oggi. Se l’Italia avesse un debito sulla media europea, i capitali verrebbero in Italia a fare investimenti produttivi e non, come avviene oggi, per speculare sul nostro spread.

C’è uno spiraglio di speranza?

L’economia circolare: l'Unione Europea ha deciso un programma di investimenti per 1.000 miliardi a favore dell'economia circolare per migliorare le condizioni ambientali; occorre darsi da fare, preparare i progetti per non perdere questo treno.

Flessibilità sul debito per investimenti: l'Unione Europea sta decidendo una maggiore flessibilità sul debito, purché tali risorse siano investite per produrre ricchezza e occupazione. Anche questa è un'altra possibilità aggiuntiva.

Lotta all’evasione e all’elusione, cioè a leggi compiacenti che consentono d’evadere. In Italia sono oltre 200 i miliardi di tasse evasi ogni anno. L’Italia deve impegnarsi di più in Europa per misure contro l'elusione fiscali delle multinazionali (vendono in Italia e fatturano in Irlanda, Lussemburgo, o nei paradisi fiscali dove non ci sono controlli fiscali).

Considerando tutti gli aspetti positivi e negativi, a cui va aggiunto il corona virus, il trend per il 2020 per l'occupazione, il reddito e il debito sarà negativo.

Il governo italiano

Se poi dovesse tornare un governo in conflitto con l'Europa allora il peggio sarebbe assicurato. È da auspicare che tutto il governo contribuisca ad una prospettiva di un governo stabile e affidabile:

- che dia un segnale di contenimento del debito, quantomeno uno spostamento di risorse dall’assistenzialismo agli investimenti produttivi o alle risorse necessarie per l’emergenza del corona virus;

- una lotta all'evasione fiscale fatta di nuovi provvedimenti concreti, non di impegni generici per il futuro;

- ai giovani urge un contratto erga omnes che metta al bando retribuzioni da fame nel lavoro precario e nelle centinaia di false cooperative. Lo strumento più semplice è il cosiddetto contratto “erga omnes”. Quando una categoria, ad esempio i metalmeccanici, rinnovano il contratto nazionale, occorre farlo diventare erga omnes, cioè a valore di legge.

Questi alcuni dei provvedimenti che sarebbero necessari, ma temo che si andrà nella direzione opposta, con ulteriori regalie e bonus assistenziali, in previsione dei prossimi appuntamenti elettorali.

Se poi, i litigi nel governo dovessero far precipitare la situazione, rischiamo di arrivare a “provvedimenti d’emergenza”. Quando un governo ricerca risorse d’emergenza, i provvedimenti cadono su entrate certe e immediate, cioè: casa, conti correnti, tagli su pensioni, salute e scuola. Scelte che sarebbero l'opposto dell'equità sociale. È già successo in passato, per non temere che si ripeta in futuro.

Per l’anno 2020 speriamo in bene... ma non c'è da stare allegri!

 

Paolo Landi - Fondazione consumo sostenibile

 

Il Fondo Salva Stati? È il debito l’emergenza.

Nei primi decenni successivi alla Seconda guerra mondiale il nostro debito pubblico ha registrato variazioni di scarsa entità mantenendosi costantemente al di sotto del 100% del PIL. Tale tendenza è sostanzialmente proseguita, sia pure con differenti altalenanze, sino alla fine degli anni Settanta.

Una forte impennata del debito si è verificata negli anni tra il 1982 e il 1990, quando i governi che si sono succeduti hanno continuato a mantenere saldi primari negativi fino ad oltre il 15%, sorvolando tutti, chi più chi meno, sulla disciplina di bilancio. Anno dopo anno, con un’inflazione superiore al 10%, per trovare acquirenti di BOT e BTP il tasso medio dei nostri titoli di Stato si è sempre mantenuto in doppia cifra.

Così il debito, che nel 1980 era pari al 60% del PIL, dopo dieci anni ha superato la soglia di guardia del 100%. Per questa ragione agli inizi degli anni Novanta la nostra ammissione nell’Unione europea si presentava assai improbabile, visto che tra i requisiti per l’accesso era stato fissato un rapporto debito PIL del 60%. 

Questa condizione fu superata grazie all’autorevolezza di Guido Carli che, in qualità di ministro del Tesoro, prospettò che nel trattato di Maastricht fosse inserita anche la possibilità di aggiungere al vincolo del 60% del PIL quello del 3% del deficit, nel quale rientravamo e che ci saremmo impegnati a rispettare.

Quei vincoli di bilancio furono fissati con l’obiettivo di risanare nel medio periodo le finanze pubbliche e far ripartire l’economia dei Paesi aderenti su basi comuni e finanziariamente sostenibili. In Italia, tuttavia, il susseguirsi di governi deboli, litigiosi ed assai poco lungimiranti non ha reso possibile l’adozione di politiche incisive di contenimento del debito. 

Che ciò sarebbe stato possibile lo ha dimostrato il Belgio, che nel 1995 ha creato un «fondo speciale» per razionalizzare tutte le spese sociali e decimare sprechi e doppioni, riuscendo nel giro di soli quattordici anni a fare scendere il debito dal 160% all’80% del PIL. 

Nel nostro caso, l’incapacità di attuare interventi incisivi di contenimento della spesa corrente ha fatto sì che il rapporto debito/PIL salisse progressivamente fino all’attuale 132,8%. Ecco perché oggi siamo obbligati a sostenere una spesa per interessi – fortunatamente ancora molto bassi - che supera i 50 miliardi di euro annui. Ciò rende assai difficile ottenere reali avanzi di bilancio e contribuisce all’aumento del debito stesso.

D’altra parte, non siamo stati in grado nemmeno di realizzare politiche di investimenti pubblici che avrebbero stimolato una complessiva crescita economica del Paese e il conseguente aumento del PIL, determinando un abbassamento del rapporto con il debito. Tale condizione ci sottopone costantemente al ricatto della speculazione finanziaria internazionale, con la ricorrente minaccia di aumento dello «spread» tra i nostri «bond» e quelli tedeschi.

Negli ultimi mesi, peraltro, abbiamo assistito ad una assurda polemica sulla necessità di apportare sostanziali variazioni al Fondo salva Stati (MES), ritenuto, così come programmato, pericoloso per il nostro Paese, dando l’impressione che fosse ineludibile un suo utilizzo. 

In un Paese normale la discussione sul MES sarebbe stata utilizzata per introdurre un dibattito in Parlamento sulla necessità di contenere il debito, vera fonte di ogni problema, intervenendo, ad esempio, sull’evasione fiscale - che attualmente supera i 130 miliardi - ed attuando una razionalizzazione della spesa pubblica che comprende spese inutili per oltre 60 miliardi, come già dichiarato a suo tempo dall’ex commissario alla spending review Cottarelli.  Ciò non è avvenuto, anzi, si è accresciuta la spesa in disavanzo introducendo il Reddito di cittadinanza e Quota cento.

Non sono pochi poi, come noto, gli esponenti politici che contestano le regole europee e si dimostrano nostalgici degli anni ’80, proponendo di accrescere ulteriormente il deficit anche oltre i limiti del 3%.

Ancora una volta, insomma, la politica continua ad eludere le proprie improcrastinabili responsabilità, preferendo la solita retorica dialettica «acchiappavoti» ad una guida sagace, spedita e responsabile del Paese.

(tratto da L’Eco di Bergamo del 7 gennaio 2020)

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