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Debito

Debito pubblico: uno scenario peggiore del previsto

Anche l’esercizio 2020 si preannuncia impegnativo per il governo dei conti pubblici. 

La situazione economica è caratterizzata dalle crescenti incertezze che pesano sul quadro macroeconomico internazionale, anche per l’acuirsi delle pressioni protezionistiche, che si traducono in un deciso rallentamento delle principali economie europee. A riflesso di una negativa dinamica del commercio internazionale (con il volume degli scambi che nella prima metà dell’anno si è contratto dell’1,4 per cento in termini tendenziali) e di un sensibile rallentamento delle attività nell’Area dell’euro, la crescita è rimasta debole. 

Le prospettive dell’economia italiana, già largamente al di sotto della media europea, ne risentono ulteriormente. Le difficoltà interessano ampi comparti della domanda aggregata e in particolare le componenti interne. I consumi delle famiglie sono in decelerazione, nonostante l’ancora buona intonazione del mercato del lavoro e il benefico effetto che la bassa inflazione esercita sul reddito disponibile reale.

Gli investimenti, pur mostrando una maggiore vivacità, non sembrano nel complesso in condizione di dare un impulso adeguato all’esigenza sempre più vitale di aumentare lo stock di capitale della nostra economia. Le insufficienti aspettative di domanda inducono le imprese a ridimensionare i piani di produzione e decumulare le scorte di magazzino. Il rallentamento deriva, innanzitutto, dalle difficoltà dell’industria manifatturiera su cui più pesano le incertezze che ancora permangono sul disegno da perseguire nel medio termine per adeguati investimenti in ricerca e innovazione, istruzione e formazione di capitale umano, infrastrutture e salvaguardia del territorio, energie rinnovabili e green economy. 

Mitiga l’insoddisfacente dinamica della domanda interna l’andamento della bilancia commerciale, con le esportazioni nette che, stando agli ultimi dati disponibili, continuano a fornire un contributo positivo, ma sono fortemente esposte agli effetti delle guerre commerciali in corso e ai fattori di rischio geopolitico. 

Ciò si riverbera in misura rilevante anche sugli equilibri della finanza pubblica. La condizione dei conti del nostro Paese, infatti, pur in un contesto di tassi di interesse assai più favorevole di quello prefigurato nel DEF dello scorso aprile, appare fragile ed esposta a rischi, nel breve come nel medio termine.

Nonostante il miglioramento del quadro tendenziale, infatti, soprattutto per la minore spesa per interessi (l’indebitamento scenderebbe all’1,4 per cento del Pil nel 2020 rispetto al 2 per cento del DEF e l’avanzo primario crescerebbe di 3 decimi di punto nel 2020 sempre rispetto al DEF), continua a risultare determinante l’aumento delle imposte indirette legato alle “clausole di salvaguardia”. Al netto delle clausole il disavanzo si pone di poco al di sotto del 3 per cento e le scelte operate con la legge di bilancio per il 2019 assottigliano ancora i margini di manovra per nuovi interventi. 

Per rispondere alle difficoltà poste dal quadro economico il disegno di politica di bilancio prefigurato nella manovra sembra ispirato, per l’intero triennio 2020-2022, ad un orientamento tendenzialmente espansivo. 

Nelle valutazioni del Governo gli stimoli derivanti dalla disattivazione delle clausole di salvaguardia, da un’iniziale riduzione del cuneo fiscale e dal sostegno degli investimenti, sarebbero in grado di portare il tasso programmatico di sviluppo allo 0,6 per cento nel 2020 e all’1 per cento nel 2021 e 2022. 

Oltre alla revisione in senso peggiorativo dell’obiettivo di indebitamento (dall’1,4 al 2,2 per cento del PIL, con un seppur lieve peggioramento anche del saldo strutturale), per il finanziamento degli interventi si prevedono misure di razionalizzazione della spesa pubblica; interventi di contrasto all’evasione e alle frodi fiscali; una riduzione delle spese fiscali, nuove imposte ambientali e altre misure fiscali. 

Non meno difficile appare il quadro ove si guardi al debito pubblico. I recenti aggiornamenti delle previsioni disegnano uno scenario peggiore di quanto previsto in aprile in occasione della presentazione del DEF, sia in termini di stock delle passività lorde delle Amministrazioni pubbliche, sia sotto il profilo delle prospettive di breve e medio termine. 

Dopo la crescita nel 2019 di nove decimi del rapporto deficit/PIL, nel triennio di previsione 2020-22 la scelta di riorientare in senso espansivo la fiscal stance (con il 2020 che vedrebbe una variazione del deficit strutturale lievemente positiva e una variazione dell’avanzo primario strutturale pari a -0,3 punti di PIL) riduce rispetto al quadro del DEF il ritmo di discesa del rapporto, il quale si contrae nelle previsioni del Governo di mezzo punto il prossimo anno (da 135,7 a 135,2) e in misura più apprezzabile nel biennio successivo (di 1,8 e 2 punti rispettivamente). Al graduale rientro contribuirebbe, da un lato, il pur lento rafforzamento dell’avanzo primario, dall’altro, l’effetto di snowball che, in presenza di un tasso di crescita del PIL maggiore del costo medio del debito, sia nel 2021 che nel 2022, cesserebbe di essere sfavorevole e diverrebbe riduttivo anziché accrescitivo del rapporto. 

Tuttavia, le traiettorie del rapporto debito/PIL, disegnate tanto nel quadro tendenziale quanto in quello programmatico, non rispettano la “regola del debito” prevista dalle vigenti normative europee “in nessuna delle configurazioni”, anche nel più favorevole criterio forward looking. Il mancato conseguimento dei pur modesti obiettivi di crescita potrebbe incidere sulla tenuta dei conti pubblici e compromettere il programma di riduzione del debito pubblico che continua a rappresentare un elemento cardine nella sostenibilità del sistema.

(tratto dal documento “Programmazione dei controlli e delle analisi per il 2020” approvato dalle Sezioni Riunite della Corte dei Conti – dicembre 2019)

L’acqua, la diga e il MES

C’è una diga che trattiene l’acqua. Ma negli ultimi giorni ha piovuto molto. C’è il rischio che l’acqua tracimi o addirittura che la diga crolli. A logica bisognerebbe anzitutto ragionare sul modo più efficace e meno dannoso per togliere un po’ di acqua dal bacino e di conseguenza abbassare la pressione contro la diga. Invece, tutti stanno discutendo sulle procedure da utilizzare quando l’acqua tracimerà o la diga crollerà. Insomma, anziché prevenire si litiga su chi e come dovrà spostare le macerie.

Questa metafora può adeguatamente rappresentare la surreale vicenda dell’attuale confronto pubblico sulla riforma del MES, il “Trattato per il meccanismo europeo di stabilità”, più noto come “Fondo salva Stati”. Anziché preoccuparsi del debito pubblico italiano, che il 30 settembre 2019 ha raggiunto la cifra netta record di 2.393 miliardi di euro (fonte Banca d’Italia), la classe politica italiana si dà battaglia, senza esclusione di colpi, sul funzionamento del meccanismo che fornisce prestiti ai Paesi in crisi.

Mentre l’acqua continua a salire (alla fine del 2018 il rapporto debito/PIL ha raggiunto il record storico del 134,8%), si discute su chi ci perderà di più per il fatto che le valli sottostanti la diga verranno allagate. C’è chi dice che i terreni e le case verranno svalutate e chi invece sostiene che la diga terrà e quindi non c’è pericolo. Ma il confronto si ferma qui.

Restiamo in attesa di qualche statista lungimirante o politico di buon senso che provi a ragionare su come evitare l’innalzamento dell’acqua, magari facendola defluire in modo graduale e regolamentato, fino a raggiungere una situazione di stabilità e di sicurezza per chi vive a valle della diga. Perché poi a pagare di più sono sempre i più poveri.

Pare che tutto ciò sia già scritto in una Carta che “tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione” (art. 9), che “richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà” (art. 2) e soprattutto “assicura la sostenibilità del debito pubblico” (art. 97). Ma è noto che conoscere e rispettare le Carte non è più di moda. Si preferisce la discussione pubblica da bar o da social, facendo la gara a chi la dice più grossa, tanto il popolo sovrano non ne capisce nulla…

Salva-Stati (Mes), cos’è: rischi e opportunità. Ecco la guida

Le polemiche politiche sulla riforma del MES, meglio noto come fondo Salva-Stati hanno coinvolto l’opinione pubblica a tal punto che l’hashtag #StopMes è diventato virale sui social newtwork in più di un’occasione. Un fenomeno insolito dato l’argomento, tecnico ed economico, ma anche piuttosto comprensibile, considerata la tendenza di molti politici ad utilizzare la rabbia dei cittadini come arma per portare avanti le battaglie di partito. 

Nessuno si è però preoccupato di spiegare davvero cosa sia questo fondo Salva-Stati, come funzioni, quali ripercussioni potrà avere sull’Italia e quali siano i pro e i contro della riforma che l’Unione Europea dovrebbe approvare all’unanimità – altrimenti non se ne fa niente –  il prossimo 13 dicembre, giorno in cui è in programma il summit tra i capi di Stato e di Governo, cui parteciperà anche il Presidente del Consiglio italiano, Giuseppe Conte, attualmente bloccato tra due fuochi. In pochi hanno cercato di far capire quali siano i motivi alla base delle schermaglie politiche interne alla maggioranza, diventate l’ennesima arma in mano alle opposizioni. 

Cerchiamo dunque di fare chiarezza sul Mes.

FONDO SALVA-STATI (MES): CHE COS’È

Mes sta per Meccanismo Europeo di Stabilità, in inglese Esm (probabilmente l’avrete sentito chiamare anche così). Nasce nel 2012 per superare il Fondo Salva-Stati Efsf, a sua volta creato nel 2010 per cercare di affrontare la crisi del debito sovrano e andare in soccorso – in qualità di prestatore di ultima istanza – dei Paesi che a causa dei loro conti traballanti perdono la possibilità di finanziarsi sul mercato. Nel corso degli anni ne hanno infatti usufruito Grecia, Spagna, Portogallo, Irlanda e Cipro, ricevendo complessivamente 254,5 miliardi di prestiti.  

Questo fondo ha a disposizione un capitale pari a circa 700 miliardi di euro, il che lo rende la prima istituzione finanziaria mondiale. Attenzione però, perché in quest’ambito occorre fare una prima precisazione: questi soldi, diversamente da ciò che qualcuno vorrebbe far credere, non derivano solo dai contributi erogati annualmente dagli Stati Membri – che anzi hanno partecipato solo per 80 miliardi di euro -, ma sono stati racimolati sommando finanziamenti in capo ai fondi precedenti e investimenti effettuati sul mercato. Praticamente per l’88,6% del totale questo fondo si autofinanzia da solo.

Quanti soldi ha messo l’Italia? In totale 14 miliardi di euro, una cifra che rende il nostro Paese il terzo azionista del fondo (siamo anche la terza economia dell’Eurozona), preceduta da Francia e Germania. 

FONDO SALVA-STATI (MES): COME FUNZIONA

Il Mes è controllato direttamente dai ministri delle Finanze dell’Eurogruppo (quindi oggi anche da Roberto Gualtieri). Stabilisce che gli Stati che chiedono soldi in prestito devono rispettare delle condizioni che spesso e volentieri si traducono in un programma di aggiustamento dei conti (piuttosto duro come dimostra chiaramente l’esperienza greca) e in un’analisi del loro debito pubblico effettuata dalla ormai nota Troika (Commissione Ue, Fmi e Bce) che svolge anche funzioni di controllo, ma che con la riforma uscirà di scena per lasciare spazio a istituzioni solo europee. I Paesi che ricevono l’assistenza del fondo Salva Stati non ottengono solo un prestito economico, ma tutta una serie di stimoli che possano aiutarli a risollevarsi: vengono comprati titoli di Stato sul mercato primario e secondario, vengono aperte delle linee di credito precauzionali, si partecipa alla ricapitalizzazione indiretta e indiretta degli istituti bancari più in difficoltà per evitare il “too big to fail”.

COSA PREVEDE LA RIFORMA DEL FONDO SALVA-STATI (MES) 

Attualmente in sede Europea è in discussione una riforma del MES che dovrebbe entrare in vigore il 1° gennaio 2024. Questi cambiamenti sono oggetto di negoziazione da quasi un anno, il che spunta una delle armi attualmente utilizzate dalla Lega per attaccare il Governo. Se è infatti vero che Il Premier Conte e il ministro delle Finanze, Roberto Gualtieri, si stanno occupando direttamente della vicenda, è altrettanto vero che la bozza di riforma del Mes è stata approvata dall’Eurogruppo lo scorso 14 giugno, quando il numero uno di via XX Settembre era Giovanni Tria e al Governo con il M5S c’era la Lega e non il Pd. Il Presidente del Consiglio ha anche precisato (con toni piuttosto aspri) che il Carroccio ha partecipato a ben 4 tavoli di Governo in cui si è discusso di questa riforma. Salvini ha risposto che il suo partito diceva di essere contrario. 

Scopo delle nuove regole che l’Ue vorrebbe introdurre è quello di completare l’Unione bancaria, dopo decenni di lotte tra i vari Stati, e rafforzare l’Unione monetaria. 

Al centro della riforma – e delle polemiche – c’è il cosiddetto backstop (che non c’entra niente con il meccanismo che da tre anni blocca la Brexit, ndr.), una funzione tramite la quale il fondo Salva-Stati dovrebbe diventare “il paracadute finale” delle banche. Traduciamo: quando una banca di uno Stato Membro è in crisi, per salvarsi può contare sui Fondi nazionali per le risoluzioni bancarie che sono finanziati tramite risorse delle banche stesse. Nei casi in cui il Fondo di Risoluzione impegnato nel salvataggio non abbia abbastanza soldi per evitare il default dell’istituto, i soldi che servono potranno essere chiesti al MES, il cui ruolo sarà rafforzato, in modo da evitare speculazioni finanziarie che possano acuire la crisi dei vari istituti e le loro ripercussioni sugli Stati. Con l’introduzione del backstop il MES non potrà più ricapitalizzare direttamente le banche in difficoltà (cosa che fino ad oggi non ha mai fatto, pur potendo), e saranno previsti dei cambiamenti per accedere alle linee di credito precauzionali: gli Stati dovranno firmare una lettera d’intenti che assicura il rispetto delle regole del Patto di stabilità, che – ricordiamolo – prevede un rapporto deficit-pil inferiore al 3% e un rapporto debito-pil inferiore al 60%.

Il fondo avrà anche la possibilità di fare da mediatore tra gli Stati e gli investitori privati nel caso in cui serva ristrutturare il debito pubblico. Se al MES arriva la richiesta d’aiuto di uno Stato, il fondo può – non deve ! – chiedere ai privati di partecipare al salvataggio, il che vuol dire ristrutturare il debito e determinare perdite secche per chi ha in pancia i titoli di Stato del Paese in questione. Non c’è però alcun obbligo né automatismo, aspetto che va sottolineato in virtù delle polemiche in atto. 

Sono inoltre previsti – altro nodo importante – cambiamenti riguardanti le Clausole di azione collettiva (note come Cacs) nei casi in cui sia necessario procedere con la ristrutturazione del debito sovrano di un Paese. Le modifiche comportano che, già dal 2022, i titoli del debito pubblico di un Paese saranno soggetti a una Cac unica e non più doppia come oggi, sarà dunque più semplice avere l’ok degli azionisti per ristrutturare il debito sovrano. 

FONDO SALVA STATI (MES): COSA C’È ALLA BASE DELLE POLEMICHE

Ci sono due polemiche parallele e legate tra loro che hanno però la stessa base: il debito pubblico. La prima, internazionale, vede contrapposti i Paesi del Nord Europa a quelli del Sud. In sostanza gli Stati nordici sono restii a partecipare a un meccanismo che consenta di prestare soldi ai Paesi meno virtuosi caratterizzati da un forte debito pubblico (come l’Italia), quelli del Sud invece vogliano evitare il ripetersi di condizioni che possano portarli a finire “come la Grecia”, ottenendo dei soldi in cambio di programmi economici che comportano conseguenze economiche durissime per la popolazione. 

Sul fronte interno preoccupa proprio il fatto che il nostro elevatissimo debito pubblico possa costringere, in caso di bisogno, l’Italia a tagliare in modo prepotente il proprio debito. Repubblica sottolinea però che “per l’Italia la questione non si pone, perché una delle clausole per accedervi (al MES ndr.) è non avere squilibri eccessivi, e l’Italia è sotto monitoraggio Ue da anni per il debito”. Non solo, il timore è che queste regole spingano gli investitori internazionali a smettere di comprare i Btp di fronte alla prima incertezza sulla tenuta dei nostri conti proprio per paura che l’Italia possa eventualmente andare incontro ad una ristrutturazione del debito sovrano. E date le continue tensioni politiche interne, le possibilità che le preoccupazioni sul futuro del Paese si riaccendano non sono per nulla remote. 

A causa delle tensioni interne al Governo, nelle ultime ore sta montando anche un’altra polemica relativa alle conseguenze del possibile passo indietro o dell’eventuale richiesta di rinvio del nostro Paese sulla firma della riforma. Come detto, i cambiamenti passeranno solo se votati all’unanimità e dunque il Sì dell’Italia è decisivo. Nei mesi scorsi, tra l’altro, era stata proprio l’Italia, insieme alla Spagna e alla Francia, a sostenere la riforma del Mes – backstop compreso – chiedendo ed ottenendo che la ristrutturazione del debito non fosse automatica (come volevano Germania e Olanda), ma opzionale. Se una volta ottenuto l’ok alla sua linea, il nostro Paese dovesse tirarsi indietro, secondo molti osservatori il rischio sarebbe quello di trovarsi in uno stato d’Isolamento che farebbe perdere forza all’Italia in sede europea in un periodo in cui si sta trattando sul bilancio dell’Eurozona e sullo schema di assicurazione dei depositi, quest’ultimo considerato fondamentale da Roma. 

LE RASSICURAZIONI DI GUALTIERI

A cercare di placare gli animi è intervenuto il ministro delle Finanze: “Le condizioni per l’accesso di un paese ai prestiti del MES non sono cambiate, anzi, per una fattispecie specifica, sono state sia pur solo parzialmente alleggerite. Soprattutto è bene chiarire come la riforma del MES non introduca in nessun modo la necessità di ristrutturare preventivamente il debito per accedere al sostegno finanziario”.

Gualtieri ha inoltre chiarito che: “A proposito della riforma del Meccanismo europeo di stabilità si è ingenerata nel dibattito italiano molta confusione. L’Italia non ha avuto, non ha e non avrà bisogno dei prestiti MES: il debito italiano è sostenibile, ha una dinamica sotto controllo anche grazie alla politica fiscale prudente e a sostegno della crescita che il paese porta avanti”.  Secondo lui, dunque per l’Italia non c’è nessun pericolo, anzi il Mes rappresenta “un potente elemento di stabilizzazione dei mercati finanziari e una difesa contro possibili crisi e deve pertanto essere considerato come un nostro alleato, non come un nemico”.

LA POSIZIONE DI BANKITALIA

Qualche giorno fa il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco aveva lanciato l’allarme: “I piccoli e incerti benefici di una ristrutturazione del debito devono essere ponderati rispetto all’enorme rischio che il mero annuncio di una sua introduzione possa innescare una spirale perversa di aspettative di default. Dovremmo tutti tenere a mente le terribili conseguenze dell’annuncio del coinvolgimento del settore privato nella risoluzione della crisi greca dopo il vertice di Deauville a fine 2010”. 

Ieri, 21 novembre, fonti di Bankitalia hanno però smorzato i toni, facendo sapere che Via Nazionale non è a sfavore della riforma, ma ha voluto mettere in guardia sui possibili rischi, sottolineando che i cambiamenti non implicano nessuna ristrutturazione del debito e dunque che l’Italia e le sue banche (che possiedono 400 miliardi di titoli di Stato) possono dormire sonni tranquilli: “La riforma dell’Esm – dicono le fonti di Bankitalia – non prevede né annuncia un meccanismo di ristrutturazione dei debiti sovrani”. “Come nel trattato già in vigore non c’è scambio tra assistenza finanziaria e ristrutturazione del debito e anche la verifica della sostenibilità del debito prima della concessione degli aiuti è già prevista dal trattato vigente”. 

FAVOREVOLI E CONTRARI

Il dibattito è accesso anche tra gli esperti. Ritportiamo due testimonianze emblematiche. A schierarsi a favore della riforma c’è Lorenzo Bini Smaghi, che sulle pagine del Corriere della Sera, sottolinea: “Il punto importante, che si stenta a capire nel dibattito italiano, è che la decisione del Mes di concedere o meno il sostegno finanziario a un paese, e a quali condizioni, dipende – nel nuovo come nel vecchio trattato – dalla volontà politica degli Stati membri creditori”.

“Il nuovo trattato – continua – prevede vari rafforzamenti del Mes, tra cui l’incremento delle risorse, anche per finanziare il Fondo di risoluzione unico europeo. Consente ai Paesi che rispettano il patto di Stabilità di ottenere un programma ‘precauzionale’, per evitare il contagio in caso di crisi sistemica. Il sostegno del Mes consente peraltro di accedere all’intervento illimitato della Banca centrale europea (Omt), con forte effetto stabilizzatore sui mercati”. 

Contrario alla riforma è invece Carlo Cottarelli, su La Stampa si chiede: “Se gli investitori sanno che il fondo salva stati, quello che può intervenire in caso di problemi, chiederà probabilmente una ristrutturazione del nostro debito come condizione per un prestito, come pensate che si comportino? Smetterebbero di comprare titoli di stato al primo segnale di tensione”.

Giornalista siciliana. Laurea magistrale in Editoria e Scrittura presso l’università "La Sapienza" e master in Informazione multimediale e giornalismo politico-economico presso la "Business School del Sole 24Ore". Collabora con diversi giornali online, occupandosi prevalentemente di politica ed economia.

[Vittoria Patané pubblicato su https://www.firstonline.info/salva-stati-mes-cose-rischi-e-opportunita-ecco-la-guida/]

MES trattato senza anima

MES: trattato senz’anima

I politici non sempre dicono la verità, ma ogni tanto hanno la capacità di attrarre l’attenzione su tematiche che i cittadini farebbero bene a seguire di più. Un caso del genere si è verificato di recente quando è stato portato alla ribalta ciò che i media hanno battezzato “Trattato salva stati”, il cui vero nome è “Trattato per il meccanismo europeo di stabilità”, in sigla MES. Un’analisi più dettagliata ci dice che il vero obiettivo del trattato non è la salvezza degli stati, bensì dell’euro minacciato da crisi di sfiducia ogni volta che gli stati si sovraccaricano di debiti.

La storia del MES inizia nel 2010, un periodo in cui più di uno stato europeo dell’area euro, si trova costretto ad accrescere il proprio debito, quale per salvare le proprie banche travolte da gestioni fallimentari, quale per tamponare gli effetti di una crisi economica che si sta trasformando in crisi sociale. È di questi tempi l’emergere degli stati maiali, appellativo attribuito non con l’intento di offendere chicchessia, ma perché il caso ha voluto che i paesi in maggiore difficoltà siano Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia, Spagna, le cui iniziali hanno permesso a qualche giornalista fantasioso di elaborare la sigla PIIGS, un acronimo che in inglese suona appunto come maiali. Il debito, che in condizioni normali attrae gli investitori ansiosi di collocare i propri capitali, può trasformarsi in un potente repellente se diventa così alto da non dare più affidamento di restituzione. E poiché l’afflusso di capitali rafforza le monete, mentre la fuga le indebolisce, questa è la ragione per la quale il debito pubblico è diventato uno dei temi di maggiore attenzione per l’Unione Europea, in particolare per i paesi che condividono l’euro. Attenzione esercitata attraverso due modalità. La prima vigilando affinché nessuno stato si indebiti oltre misura. La seconda, soccorrendo i paesi in maggior difficoltà affinché la crisi rimanga circoscritta al loro interno. Una sorta di cordone sanitario per evitare che vengano risucchiati nella crisi anche gli altri paesi e soprattutto l’euro.

Nel 2010 i primi stati a manifestare un gran bisogno di prestiti, ma ormai così decotti da non ricevere più neanche un euro dai privati, furono Irlanda e Grecia, che però trovarono un’Europa non ancora organizzata per intervenire in maniera centralizzata a sostegno dei paesi membri afflitti da crisi finanziarie. Per cui inizialmente la situazione venne tamponata con prestiti bilaterali da parte dei singoli governi. Quello italiano, ad esempio, nel 2010 a titolo unilaterale prestò alla Grecia una diecina di miliardi di euro, essi stessi raccolti a debito. Solo più tardi venne formato un fondo comune d’intervento che dopo vari appellativi, nel 2012, assunse il nome definitivo di MES (ESM in inglese). All’inizio, però, il MES non poteva essere considerato un organismo facente parte a pieno titolo all’architettura dell’Unione Europea perché non sussistevano tutti i presupposti giuridici per includerlo. Solo più tardi gli aspetti giuridici mancanti vennero integrati e nel giugno 2019 i governi dell’area euro si sono accordati su una bozza di trattato che dà pieno accoglimento al MES nella casa europea. Il tutto in vista della firma definitiva concordata per una data di dicembre di quest’anno. Ed è stato proprio l’approssimarsi dell’imminente scadenza ad avere riacceso il dibattito attorno al MES.

Il trattato, che per diventare pienamente operativo deve ottenere la ratifica dei parlamenti dei 19 paesi aderenti all’eurozona, oltre a definire compiti, struttura e dotazione del fondo, stabilisce anche a chi può essere offerta assistenza e a quali condizioni. Premesso che il fondo elargisce solo prestiti, per giunta finalizzati anche al salvataggio delle banche, divide i possibili paesi richiedenti in due categorie: quelli con un debito moderato e quelli con un debito elevato. Ai primi chiede come contropartita solo l’impegno a proseguire sulla strada della moderazione. Ai secondi invece, impone regole molto più stringenti. Ed è proprio questa differenziazione che alcuni reputano inaccettabile perché è come se i paesi dell’eurozona venissero ufficialmente divisi in buoni e cattivi, creando differenze ancora più marcate fra i paesi a debito moderato e quelli a debito pesante. A detta dei critici, gli investitori privati potrebbero inserirsi in questa crepa per imporre tassi di interesse più elevati ai paesi inseriti nella lista dei cattivi, prendendo a pretesto che la stessa Unione Europea li classifica come inaffidabili. In conclusione si potrebbe andare verso una definitiva conferma del differenziale esistente fra paesi dell’eurozona (il famoso spread), che invece di ridursi potrebbe continuare a crescere portando all’assurdo che i paesi forti paghino interessi bassi e quelli più in difficoltà interesse alti.

Un’altra critica mossa al Trattato è che i paesi a debito elevato potrebbero ricevere prestiti dal MES solo se fanno un tentativo di ristrutturazione del proprio debito. Che significa ottenere sconti dai creditori sul capitale da restituire. Un’ipotesi che molti vedono come una iattura perché metterebbe in difficoltà banche, assicurazioni e fondi pensione tradizionalmente forti detentori di titoli di stato. E poiché queste istituzioni gestiscono risparmio dei cittadini, alla fine sarebbero i cittadini stessi a subire i contraccolpi della ristrutturazione. Se le cose dovessero funzionare davvero così è tutto da verificare, ma la critica è infondata perché il Trattato non contempla l’obbligo di ristrutturazione, termine che non è mai citato neanche negli allegati. Ciò che invece è contemplato è che il prestito ai paesi più indebitati sia condizionato alla firma di un accordo (meglio noto come Memorandum of Understanding) in cui siano elencate le riforme che il paese ricevente deve attuare per ridurre il proprio debito. Certo, fra queste può essere compresa anche la ristrutturazione, ma le esperienze passate ci dicono che altre sono le richieste più usuali. Valga come esempio la Grecia che dal MES e suoi antenati ha ricevuto prestiti a più riprese, ogni volta dovendosi impegnare a tagliare salari, pensioni, sussidi ai più poveri, in nome dell’abbattimento del debito.

Il trattato istituzionalizza anche la presenza della Troika, recitando testualmente che il rispetto del Memorandum sarà verificato in collaborazione con la Banca Centrale Europea e il Fondo Monetario Internazionale. In conclusione il Trattato sancisce il primato della finanza senza tenere in alcuna considerazione le esigenze sociali, i diritti umani, la salvaguardia della democrazia, concetti che non sono mai citati neanche di sfuggita. L’anima sociale: ecco il vero aspetto che manca al Trattato. Caratteristica che emerge anche dalla decisione di lasciare che ogni stato risolva i propri problemi arrangiandosi da solo, sollecitando l’intervento degli altri solo quando l’instabilità dell’uno minaccia la stabilità di tutti. Il MES insomma rappresenta un altro passo avanti verso la costruzione dell’Europa di tipo condominiale dove si sta assieme solo perché si condivide il tetto, le scale e l’ascensore, ma per il resto ognuno è estraneo all’altro, se non nemico. Tutt’un’altra Europa rispetto a quella sognata da Spinelli e gli altri padri fondatori che in tema di debito pubblico avrebbero chiesto soluzioni condivise a partire dall’emissione di titoli europei e di maggiore intervento da parte della Banca Centrale Europea. Da un punto di vista tecnico le modalità per conciliare riduzione del debito e salvaguardia sociale esistono. Ma il loro utilizzo dipende da come batte il cuore.

Francesco Gesualdi

Se si scopre che il debito è di 58 miliardi in più…

Proprio il giorno in cui il Governo era intento a definire i dettagli della manovra economica per il 2020, la Banca d’Italia rendeva noti gli ultimi dati sul debito pubblico, con la spiacevole sorpresa di una revisione al rialzo di 58,3 miliardi di euro.

Il fatto è così macroscopico che mostra chiaramente la sproporzione tra quello che la politica riesce a fare ogni anno e la situazione finanziaria in cui siamo immersi da decenni in Italia.

Tornando ai numeri, perché il debito pubblico è stato ricalcolato con 58,3 miliardi in più? Ecco la spiegazione fornita dalla Banca d’Italia: “è stato rivisto il criterio di valutazione di alcune categorie di depositi, prevedendo l’inclusione nel debito pubblico degli interessi maturati (ma non ancora pagati) non appena siano capitalizzati (ossia inizino a produrre essi stessi interessi), anziché al momento del pagamento. Per l’Italia la modifica si applica ai Buoni Postali Fruttiferi. I BPF erano inclusi nel debito pubblico al valore facciale e, secondo il criterio metodologico precedentemente definito in sede europea, gli interessi venivano contabilizzati per cassa, al momento del pagamento”.

In altre parole, finora il calcolo del debito non era realistico, perché non teneva conto degli interessi maturati sui Buoni Postali. Davvero paradossale: gli interessi non venivano contabilizzati, mentre tutti sappiamo che il debito effettivo è dato dal debito iniziale più gli interessi. Ne consegue che i dati sul debito forniti sinora erano poco attendibili, perché non corrispondevano a quanto realmente dovuto ai creditori in quel momento.

Ovviamente questa modifica del criterio di calcolo, cambia anche il risultato del rapporto debito/PIL. Finora il debito alla fine del 2018 era stato calcolato in 2.322 miliardi, mentre ora è stato rettificato in 2.380,3 miliardi. Di conseguenza, il rapporto debito/PIL è passato dal 132,2% al 134,8%.

Sarà interessante vedere in che modo il Governo terrà conto di questa “piccola” variazione, che ha una consistenza pari a circa due volte la manovra economica prevista per il 2020.

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