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Creato: Sabato, 08 Giugno 2019 00:00
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Scritto da Cleto Iafrate
L’ARDeP (Associazione per la Riduzione del Debito Pubblico) è un’associazione civica composta da cittadini che hanno in comune la sensibilità al problema del debito, cercano di segnalarne il pericolo e di offrire il loro contributo di idee per favorirne la riduzione.
L’associazione, presieduta da Rocco Artifoni, è stata ideata e fondata dal Prof. emerito Luciano Corradini, il quale nel settembre nero del 1992, quando lo Stato rischiava seriamente la bancarotta, decise di decurtarsi parte della retribuzione a vantaggio del debito pubblico. E per un anno e mezzo versò all’erario il 10% del suo stipendio di docente universitario.
Lo scopo di quella iniziativa, spiegato poi in una lettera al presidente Amato, era quello di denunciare le conseguenze nefaste dell’evasione fiscale e richiamare i politici a una gestione più attenta e responsabile del bilancio statale.
Ebbene, oggi sono qui per parlare di una delle proposte dell’ARDeP per ridurre il debito pubblico. Prima di introdurla, però, vorrei fare un breve cenno al problema del debito pubblico e dell’evasione.
- Nell’ultimo ventennio il nostro debito è più che raddoppiato, a marzo scorso il suo ammontare era pari a 2.358,8 miliardi (fonte Banca d’Italia). Siamo il paese europeo che spende la cifra più alta in assoluto per interessi sul debito. Anche lo scorso anno abbiamo dovuto staccare un assegno miliardario per pagare gli interessi agli investitori di tutto il mondo, pena la dichiarazione di insolvenza; un assegno di ben 65 miliardi, l’equivalente di due manovre di bilancio.
Se il debito venisse ridotto, questi denari potremmo utilizzarli per fare altro, per esempio, potremmo impiegarlo per le politiche sociali. Si consideri che Germania e Francia riservano quasi il 10% della loro spesa pubblica alla scuola, contro il 7,5 dell’Italia. Per di più la Francia ha un budget di spesa ben più alto dell’Italia, pari a oltre 1.200 miliardi, contro i nostri 850 miliardi.
Sempre nel corso dell’ultimo ventennio anche la ricchezza delle famiglie italiane è cresciuta progressivamente, tanto da sfiorare la soglia dei 10 mila miliardi di euro, oltre quattro volte il valore del debito, di cui le attività reali (abitazioni, terreni) valgono circa 6.000 miliardi e quelle finanziarie (conti, depositi, titoli, azioni, ecc.), al netto delle passività (mutui, prestiti personali), valgono 4.000 miliardi.
Semplificando i dati e ragionando per medie aritmetiche, possiamo affermare che è come se ogni italiano residente avesse un debito di circa 39 mila euro e al contempo detenesse un patrimonio di circa 160 mila euro (composto per il 60% circa da immobili e per il 40% circa da contanti).
Questa massa di ricchezza, ovviamente, non è equamente distribuita. Pare che il 50% della ricchezza sia finito nelle mani del 10% delle famiglie.
- Sull’evasione fiscale, invece, non ci sono dati certi, l’unica certezza è che in Italia da decenni l’evasione viaggia a 12 cifre. In Italia, infatti, ogni anno sfuggono a tassazione circa 270 miliardi, che se venissero tassati frutterebbero alle casse dell’erario non meno di 100 miliardi di imposte all’anno.
Ragionando anche qui per medie aritmetiche, possiamo affermare che è come se ogni famiglia occultasse al fisco ogni anno circa 11 mila euro di reddito (le famiglie sono 24,5 milioni). Le famiglie, ovviamente, non evadono tutte e non tutte allo stesso modo. Si stima che per alcune categorie di contribuenti l’evasione sia pari addirittura all’80% del reddito totale prodotto.
In realtà, proprio il mancato incasso di questi denari ha comportato l’arricchimento di alcune famiglie, a svantaggio di altre, che da decenni subiscono una pressione fiscale veramente eccessiva.
Stando così le cose, se per ridurre il debito pubblico pensassimo di varare un’imposta patrimoniale senza un preventivo accertamento circa la reale provenienza dei patrimoni, non faremmo altro che aggiungere ingiustizia ad iniquità.
Ciò in quanto alcuni patrimoni, evidentemente, sono stati alimentati anche dai proventi dell’evasione, cioè sono il frutto dell’autoriciclaggio delle imposte evase, complice una normativa troppo timida nel contrasto dell’autoriciclaggio. Si consideri che fino al 2015 l’attività di autoriciclaggio - in qualunque forma fosse realizzata - non era punibile in quanto la condotta dell’autoriciclatore era considerata come naturale prosecuzione del delitto presupposto [1].
Se la parola “equità fiscale” ha un senso, occorre procedere con un “atto di giustizia ripartiva”, cioè bisogna anzitutto tassare i patrimoni di provenienza illecita.
La proposta dell’ARDeP - denominata APC, che sta per Aliquota Personale Congrua - consiste nell’utilizzo di strumenti informatici per la creazione di liste selettive di patrimoni da sottoporre a tassazione. Si tratta di “individuare” a monte liste di contribuenti con gravi incongruenze in relazione al rapporto tra i redditi dichiarati e il patrimonio posseduto.
Più nel dettaglio, bisogna mettere a confronto il patrimonio detenuto da ciascun nucleo familiare con i redditi dichiarati al fisco nel più lungo arco di tempo consentito dal sistema informativo dell’anagrafe tributaria (l’intera vita lavorativa o comunque gli ultimi 15…20 anni).
Da questa relazione ben si potrebbe addivenire ad una percentuale di congruità da utilizzare per tassare i grandi patrimoni.
Nulla da temere per chi non ha "scheletri nell'armadio", perché con questo metodo verrebbero alla luce solo i patrimoni intestati a prestanome, quelli provenienti da attività illecite e, in particolare, dall’autoriclaggio dell’evasione.
Si tratta, ripeto, di un’imposta straordinaria che colpisce non tutti i patrimoni, ma solo quelli incongrui, da destinare alla riduzione del debito pubblico. In questo modo ciascun cittadino contribuirebbe alla riduzione del debito in modo molto diverso in base alla sua fedeltà fiscale. L’aliquota personale con cui tassare il patrimonio, infatti, non dipenderebbe dall’ammontare del patrimonio, ma dal reddito dichiarato nel lungo periodo considerato.
Una volta che il software avrà selezionato i grandi patrimoni incongrui da sottoporre a tassazione, i contribuenti selezionati dovranno dimostrare la provenienza lecita del loro patrimonio.
I contribuenti onesti, anche se in possesso di ingenti patrimoni, risulteranno “congrui” a questa verifica e saranno perciò esentati dall’imposizione. Gli altri, invece, contribuiranno alla riduzione del debito con un’imposta che dipenderà dalla quota di patrimonio “ingiustificato” detenuto.
Lo stesso discorso andrebbe esteso anche all’imposta di successione e donazione, si dovrebbe prevedere un criterio di calcolo dell’imposta basato sul medesimo principio.
L’imposta di successione dovrebbe dipendere dalla congruità dell’asse ereditario al reddito prodotto e dichiarato in vita dal de cuius.
Noi dell’ARDeP riteniamo che dopo decenni di evasione scandalosamente elevata questa proposta possa rivelarsi un efficace strumento, certamente non l’unico, per ridurre il debito pubblico, ma soprattutto utile per recuperare equità, solidarietà e coesione sociale.
I dati relativi al patrimonio immobiliare sono tutti disponibili in Anagrafe tributaria e quelli relativi al patrimonio mobiliare sono disponibili presso l’Anagrafe dei conti e dei rapporti finanziari. Un archivio nel quale annualmente tutti gli operatori finanziari (Banche, Poste, ecc.) trasmettono il saldo e la giacenza media di tutti i rapporti in essere relativi all'anno precedente.
Il primo passo da compiere sarebbe quello di rendere obbligatoria per tutti la presentazione della Dichiarazione Sostitutiva Unica (DSU), che oggi viene presentata dai soli contribuenti che intendono richiedere il modello ISEE per accedere a vantaggi fiscali o prestazioni sociali.
Si consideri che il dato del patrimonio mobiliare da dichiarare in DSU fino al 2015 era autocertificato. Da quell’anno in poi è stato introdotto l’obbligo di verifica del dato da parte dell’INPS sulla base delle risultanze dell’Anagrafe dei conti e dei rapporti finanziari.
Ebbene, il primo anno (quello in cui sono iniziati i controlli) le dichiarazioni con patrimonio nullo sono passate da quasi il 70% al 16%. Ciò significa che fino all’anno 2015 il 54% circa delle autocertificazioni presentate ai fini ISEE erano infedeli.
Questo dato, oltre a gettare un’ombra di sospetto sull’attendibilità di qualsiasi dato reddituale auto-dichiarato, dimostra quanto l’anagrafe dei conti e dei rapporti finanziari sia stata utile ed efficace per correggere i vizi degli italiani.
Ebbene, la nostra proposta prevede proprio l’estensione in chiave antievasione dell’utilizzo dell’Anagrafe dei conti e dei rapporti finanziari.
Giugno 2019
Cleto Iafrate
[1] Per un approfondimento su questo punto, C. Iafrate, AUTORICICLAGGIO. LA CASSAZIONE CORREGGE IL TIRO, MA CI SONO ANCORA MARGINI DI MIGLIORAMENTO, in ficiesse.it.
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Creato: Giovedì, 30 Maggio 2019 00:00
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Scritto da Rocco Artifoni
La legge di stabilità approvata nel dicembre scorso ha previsto per il 2019 un deficit del 2% rispetto al Prodotto Interno Lordo (PIL).
Recentemente Matteo Salvini ha ipotizzato di sforare il 3%, limite stabilito dal Trattato di Maastricht, sottoscritto anche dall’Italia.
Dato che il PIL italiano nel 2018 è stato di 1.757 miliardi di euro (fonte ISTAT), l’1% in più di deficit corrisponde a 17,5 miliardi di euro, che verrebbero chiesti in prestito agli investitori e ai risparmiatori. Ma questo incremento del deficit previsto porta inevitabilmente ad aumentare il costo degli interessi sul debito, che sostanzialmente si identifica con l’aumento dello spread.
Gli operatori del settore stimano che un aumento del deficit oltre il 3% comporterebbe per l’Italia una crescita dello spread di almeno 100 punti, cioè un aumento degli interessi sul debito dell’1%. Dato che il debito pubblico al 31 marzo 2019 ammontava a 2.358,8 miliardi di euro (fonte Banca d’Italia), se l’aumento rimanesse costante nel tempo, si tratterebbe di un costo aggiuntivo di 23,5 miliardi di euro, seppure spalmati in circa 7 anni (scadenza media dei titoli di stato italiani).
È evidente che farsi prestare 17,5 miliardi di euro per poi doverne restituire 41 (17,5 + 23,5), seppure in 7 anni, non è un grande affare.
Per non parlare delle eventuali sanzioni (di parecchi miliardi di euro) che potrebbero arrivare dall’Unione Europea per eccesso di deficit e di debito, nonché violazione del Trattato di Maastricht.
A confermare questa prospettiva negativa per l’Italia, a differenza di tutti gli altri paesi europei, il 29 maggio è stato pubblicato dalla Corte dei Conti il Rapporto 2019 sul coordinamento della finanza pubblica, nel quale si legge: "il 2018 si configura come l’esercizio nel quale il rapporto debito pubblico/Pil torna a crescere in misura marcata, portandosi al 132,2 per cento (dal 131,4 nel 2017). Secondo i dati Eurostat, nell’insieme dell’Area dell’euro l’incidenza del debito sul Pil è scesa di 2 punti, all’85,1 per cento: è rimasta invariata in Francia (98,4 per cento); si è ridotta di 3,6 punti in Germania (60,9 per cento); è calata di un punto in Spagna (al 97,1 per cento) e di 0,5 punti in media (al 124,2 per cento) nei tre Paesi (Grecia, Belgio e Portogallo) che, con l’Italia sono ancora al di sopra della soglia del 100 per cento. L’aumento del 2018 colloca per l’Italia l’indicatore al suo massimo livello dal primo dopoguerra e in crescita di 32,7 punti di Pil rispetto al 2007".
È appena il caso di segnalare che più deficit e debito significano meno risorse disponibili per le spese pubbliche e per le politiche sociali.
E non bisogna dimenticare che "il debito è come qualsiasi altra trappola, abbastanza facile cadervi dentro, ma abbastanza difficile poi uscirne" (Henry Wheeler Shaw).
Maggio 2019
Rocco Artifoni
I paradossi della flat tax all’italiana
Se si accende la spia rossa del debito