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Etica e politica

Il governo è sempre “tecnico”

Lo confesso: a me i governi “tecnici” non dispiacciono. Non per quello che fanno o non fanno, ma perché ci rendono presente qual è il ruolo costituzionale del governo. 

Un governo “tecnico” anzitutto mette in luce l’ignoranza di tutti quei politici che spesso e volentieri sostengono che si tratta di governi non eletti dal popolo. Basta uno sguardo alla Costituzione per sapere che il governo non è mai eletto da chi si reca alle urne. La scelta di chi presiede un governo è una prerogativa del presidente della Repubblica. 

Inoltre, di solito il profilo del “tecnico” smonta l’enfasi sul “capo” del governo, che in realtà non esiste. La Costituzione prevede soltanto il “presidente del consiglio dei ministri”, questi ultimi per altro nominati dal presidente della Repubblica. 

Serve anche a ricordare che il governo è un potere esecutivo, che anzitutto ha il compito di attuare le leggi approvate dal parlamento. L’indirizzo politico spetta a chi approva le leggi, che di norma dovrebbe essere il parlamento. Da questo punto di vista il governo dovrebbe sempre essere composto da “tecnici”, che pongono in essere le indicazioni del parlamento. Negli ultimi decenni, invece, quasi tutti i governi hanno abusato del loro ruolo, spesso sostituendosi al potere legislativo del parlamento.

Non è tutto: il consiglio dei ministri non dovrebbe essere sinonimo di governo, perché costituisce soltanto uno degli organismi del governo. Infatti, nell’ordinamento della Repubblica (seconda parte della Costituzione), il governo (Titolo III) è costituito da tre sezioni: il consiglio dei ministri, la pubblica amministrazione e gli enti ausiliari. Dall’architettura costituzionale emerge con chiarezza che l’azione di governo è l’insieme della “macchina” pubblica, con un ruolo esecutivo e amministrativo. 

Non so dire oggi se l’eventuale governo Draghi sarà un governo valido o pessimo. Il giudizio sui governi dovrebbe essere dato fondamentalmente sull’efficienza, più che sulla linea politica seguita. Sulle scelte politiche invece bisognerebbe giudicare i rappresentanti dei partiti che le promuovono e che le sostengono in parlamento. 

Purtroppo invece in Italia si scambiano spesso lucciole per lanterne, cioè i governi per i parlamenti. Il governo “tecnico” da questo punto di vista può essere considerato un contributo per un’educazione civica che ponga ogni attore costituzionale nel ruolo che gli spetta. Poca cosa, certo, ma in questi tempi confusi un po’ più di consapevolezza istituzionale e costituzionale non guasta.

 

Ripensare ai progetti ministeriali sull’educazione alla salute in tempo di pandemia

Com’è noto, il ricupero e il rilancio dell’educazione civica nel curricolo scolastico, realizzati prima in modo un po’ precario, con la legge 169/2008 e poi in modo più deciso con la legge 92/2019, è stato preparato fin dagli anni ’80 e ‘90 dalle leggi relative alla lotta contro l’epidemia delle dipendenze (addictions), leggi che affidarono alla scuola il compito dell’educazione alla salute e di tante altre “educazioni”, per affrontare emergenze di tipo personale e sociale caratterizzanti la vita delle nuove generazioni. Il Ministero della PI lanciò a questo scopo i pluriennali Progetti Giovani, Ragazzi, Genitori, Arcobaleno, per rinforzare e alimentare i ruoli e le potenzialità educative previste dai decreti delegati.

I “Primi orientamenti” sul Progetto Giovani 93 (CM Galloni, 1989) prevedeva uno sviluppo triennale dell’educazione alla salute, i cui temi sono stati unificanti nei tre slogan seguenti, ancora singolarmente attuali:

  1. star bene con sé stessi in un mondo che stia meglio;
  2. star bene con gli altri, nella propria cultura e nel dialogo con le altre culture;
  3. star bene con le istituzioni, in un'Europa che conduca verso il mondo. Il riferimento al ’93 intendeva dare al Progetto Giovani e allo star bene l’ampio orizzonte culturale e politico che allora si apriva con l’avvio del Mercato Comune Europeo.

L'affermazione sintetica dello star bene, che implica sia la salute nel senso comune, sia il benessere nel senso di situazione economica e psicofisica confortevole, sia il sentirsi bene nel senso etico di accordo con la propria coscienza e con i propri ideali, è anche oggi un appello a impegnarsi confrontandosi, in tre momenti successivi, con:

  1. un mondo che per tante ragioni sta male,
  2. la convivenza con altri, che sono sempre più diversi culturalmente ed etnicamente,
  3. la rete intricata delle istituzioni, nazionali, regionali, locali, europee e internazionali, a cominciare dalla famiglia e dalla scuola.

La salute che interessa la scuola e il futuro dei giovani è apparsa allora, ed è ancor più oggi, una salute che deve incontrarsi con l'etica, con la cultura, con la scienza e con la politica.

Tutto questo è difficile. È il contrario di facile, che viene da fare, e che significa fattibile, ossia che si può fare senza grande abilità o sforzo fisico o mentale e senza stento. Difficile significa dunque non impossibile, ma fattibile con fatica, attenzione, sforzo, abilità. È solo a un certo grado e per certe persone che le difficoltà diventano insuperabili. I bollettini quotidiani sulla pandemia ci ricordano, accanto ai sani, gli ammalati, i morti, i guariti. Il che procura tristezza, dolore, ma anche consapevolezza e speranza di farcela, insieme.

Se qualcuno riesce nell’impresa di evitare il contagio o di vincerlo, perché non provarci? 

Come sapevano gli antichi, con la concordia crescono le piccole cose, con la discordia anche le grandi vanno in malora. La concordia non significa identità di vedute e assenza di conflitti, ma capacità di muoversi fra rispetto delle persone, della verità dei fatti accertati scientificamente e delle norme vigenti, anche se per alcuni difficili da capire e da sopportare: implica amore della verità e della libertà, senso del limite e dell’insieme, responsabilità per i risultati e per la proporzione fra bene proprio e bene comune. Ciò vale in particolare per l’educazione, un processo che non si produce come i beni di consumo, ma che è un dovere e anche un dono che gli adulti fanno ai più giovani. E che i giovani fanno agli adulti, se aiutati a pensare che anche loro diventeranno sperabilmente adulti e vecchi.

 

Da Calamandrei a Willy: anche questa è scuola

“La scuola è la società” è il titolo che la Democrazia Cristiana diede ad un convegno nazionale tenuto a Firenze nel 1974, in preparazione al varo dei decreti delegati. Voleva dire, con un po’ di enfasi, che la scuola non doveva essere intesa come “tecnostruttura” o come corpo separato della società o come “parcheggio” dei giovani, ma come istituzione fondamentale, che doveva stare a cuore, non solo a parole, a tutte le componenti istituzionali e sociali del Paese.

Dieci anni dopo, Giorgio Bocca scrisse un libro intitolato L’Italia l’è malada”. La malattia sarebbe di carattere socioantropologico. Ecco la sua diagnosi: “Il paese è bello, ricco di beni naturali, ma è molto difficile viverci per l'anarchia di chi ci abita. Per l'illusione costante di poter migliorare la società senza disciplina e senza sacrifici, per l'idea assurda che esista uno "stellone", una garanzia di fortuna che spontaneamente risolve i problemi del paese”.

Il basso continuo delle sue analisi dure e amare, si può riassumere nella tesi che “alla maggioranza delle persone va bene la rinuncia alla libertà, pur di non avere grane, pur di vivere tranquilli”. E’ il tema del “particulare” di cui parlava Guicciardini, del “me ne frego” del fascismo, del “farsi i fatti propri” dell’indifferentismo. Don Milani nella Lettera a una professoressa  rispondeva col motto “I care”, cioè me ne importa, e col giudizio lapidario: “sortirne da soli è l’avarizia, sortirne insieme è la politica”. Questa visione è entrata anche nella normativa scolastica: “La scuola- si legge nel dpr 249 del 98, dal titolo ‘Statuto delle studentesse e degli studenti’- è luogo di formazione e di educazione (...), è una comunità di dialogo, di ricerca, di esperienza sociale, informata ai valori democratici e volta alla crescita della persona in tutte le sue dimensioni. In essa ognuno, con pari dignità e nella diversità dei ruoli, opera per garantire la formazione alla cittadinanza, la realizzazione del diritto allo studio, lo sviluppo delle potenzialità di ciascuno e il ricupero delle posizioni di svantaggio, in armonia coi principi sanciti dalla Costituzione (...)

Questo riferimento ci consente di richiamare, anche durante questo periodo di pandemia in cui potremmo dire che ”La Terra l’è malada” e che e anche le nostre scuole non stanno troppo bene, la potente metafora introdotta dal "padre costituente" Piero Calamandrei: "Se si dovesse fare un paragone fra l’organismo costituzionale e l’organismo umano, si dovrebbe dire che la scuola corrisponde a quegli organi che nell’organismo umano hanno la funzione di creare il sangue, gli organi ematopoietici, quelli da cui parte il sangue che rinnova giornalmente tutti gli altri organi, che portano a tutti gli altri organi giornalmente, battito per battito, la rinnovazione e la vita". E ancora: "se si vuole che la democrazia prima si faccia e poi si mantenga e si perfezioni, si può dire che la scuola a lungo andare è più importante del Parlamento, della Magistratura, della Corte Costituzionale (...) la coscienza dei cittadini è la creazione della scuola, dalla scuola dipende come domani sarà il Parlamento, come funzionerà domani la Magistratura...". Ecco perché Calamandrei diceva che l'art. 34 era il più importante della nostra Costituzione. Occorre ricordare che l’anno scolastico che comincia ora tra molte difficoltà organizzative, psicologiche e molti vincoli ad una vita scolastica libera e gioiosa, è anche l’anno che, in virtù della legge 92/2019 inizia un nuovo percorso di educazione civica, che ha, come stelle dell’Orsa, la Costituzione, la Dichiarazione universale dei diritti umani, l’ordinamento dell’UE, che da’ ora nuovi segni di vitalità, e l’Agenda ONU 2030. La cronaca ci offre un’icona indimenticabile che viene da Colleferro: il sorriso di Willy Monteiro, e la piazza ricoperta di fiori da un’intera popolazione, in particolare da giovani con la maglietta bianca, sgomenti e determinati di fronte al delitto compiuto dal branco di giovani che lo ha aggredito e ucciso a calci, mentre si era impegnato a difendere un altro ragazzo aggredito. Anche questa è scuola.

(tratto da Il Giornale di Brescia del 15 settembre 2020)

Economia legale, illegale e riciclaggio

Esiste ancora lo spazio per l’economia legale in Italia?

Esiste lo spazio per recuperare l’evasione e, quella illegale in particolare?

In un periodo di grande caos, di perdita di punti di riferimento, di ingarbugliamento della vita di ognuno di noi, registriamo un disagio e uno stato confusionale di difficile comprensione. Non solo, si percepisce e si tocca con mano una pericolosa deriva illegale quasi ineluttabile nelle sue forme più o meno aggressive e, tutto ciò ci lascia attoniti attori in una realtà di meccanismi illegali di distorsione della libera concorrenza che mai, mai avremmo pensato di poter vivere nella nostra quotidianità. 

Mi riferisco qui al fattore “c”: convivenza, connivenza, convenienza, le 3 parole chiave che declinano l’evoluzione di questo patto criminale che ha falciato e continua a falciare tante vittime in Italia. Uccide il mercato, assassina la possibilità di concorrenza e libera impresa, favorendo l’evasione. Poi su questa tomba si creano nuove regole, alimentando assunzioni pilotate e legalizzando capitali sporchi di sangue che diventano sfarzo, ma spesso anche nuove imprese. Un circuito viziosissimo, che in 20 anni ha avvelenato l’economia meridionale e contagiato quella settentrionale. Fino a creare una realtà bifronte che è radicalmente cambiata: le armi e i soldi, la violenza e gli affari. 

Le mafie oggi si presentano sulla scena imprenditoriale e soprattutto come un service: offrono servizi, efficienti, rapidi e poco costosi. Mettono a disposizione capitali cash con tassi spesso inferiori a quelli delle banche: pacchi di banconote pronta cassa. Garantiscono manodopera disciplinata e qualificata con costi ridotti e nessuna rivendicazione sindacale. Tengono lontani ladri e ricattatori con una giustizia inesorabile e dirimono qualunque controversia con i fornitori senza bisogno di finire nel labirinto dei Tribunali civili più lenti d’Europa. Aprono le porte della burocrazia sbloccando rapidamente pratiche comunali e regionali incagliate da tempi biblici: licenze e autorizzazioni spuntano dai cassetti come per magia, vanificando ogni ostacolo. Chi può offrire di più?

E come può l’impresa legale, che non gode di questi privilegi, competere in queste condizioni?

E come è possibile che nessun legislatore sia a conoscenza di tali meccanismi di distorsione della concorrenza e della messa in discussione della tenuta della civile convivenza nel nostro Paese?

Ma l’Italia è ancora un Paese civile? 

Un Paese che consente di aprire presso la CCIAA e tenere aperta una Partita Iva senza nessun controllo, senza che ci sia l’obbligo di presentare bilanci o documenti in grado di giustificare un giro di affari di milioni di euro. Un Paese che consente agli stessi titolari di PI di chiuderla dopo 2 anni e aprirne un’altra, anche qui senza nessun controllo, senza aver verificato se sono stati pagati i tributi  e le imposte dovute in precedenza, senza nessuna verifica sui requisiti patrimoniali necessari per avviare un’attività che fattura milioni di euro. 

Un Paese dove anche le banche aprono conti correnti a soggetti “border line” senza nessun ripensamento e o controllo, soggetti “border line” magari già più volte falliti e con procedimenti penali e civili a loro carico in corso e, tutto questo come se ci trovassimo in un contesto di normalità. 

Ma allora si fa troppo poco o si fa niente contro il riciclaggio?

Si fa troppo poco o niente nei confronti di chi evade centinaia di milioni di euro di imposte con fallimenti o chiusure di attività ad arte studiate?

Si fa troppo poco o niente nei confronti dei Comuni che controllano le licenze commerciali, gli appalti, l’edilizia e quindi le nuove case?

Si fa troppo poco o niente nei confronti dei Consorzi Industriali e delle autorizzazioni che questi Enti rilasciano?

Si fa troppo poco o niente nei periodi di commissariamento dei Comuni e, perché il periodo dai 18 a 24 mesi che dovrebbe consentire alla macchina burocratica e amministrativa di depurarsi delle scorie mafiose (nei comuni sciolti per infiltrazioni mafiose), molto spesso questo periodo altro non è che un momento di totale immobilismo?

Si fa troppo poco o niente per recuperare questa enorme evasione?

E il potere legislativo, il Parlamento che è a conoscenza di queste problematiche come interviene o pensa di intervenire, per riportare legalità ed equità contributiva tra i cittadini in una situazione assurda ed inquietante come quella sopra descritta? 

Basterebbe per esempio imporre per legge ai Comuni un Regolamento comunale dove, in base al numero di abitanti e al reddito pro-capite, si consente o meno la concessione di autorizzazioni commerciali, per ridurre il fenomeno di questo abnorme numero di autorizzazioni rilasciate dall’Ente, autorizzazioni che spesso nascondono solo corruzione, riciclaggio di denaro sporco, spaccio di sostanze stupefacenti e tutto mascherato da pseudo “attività legali”.

Basterebbe imporre alla CCIAA il controllo dei bilanci e dei pagamenti delle imposte dovute, per cancellare immediatamente un’impresa non in regola e segnalare i suoi amministratori. 

Basterebbe impedire la stipula di contratti di locazione commerciale a chi non presenta i bilanci degli ultimi tre anni o le dovute garanzie patrimoniali e civili (certificato carichi pendenti) per poter svolgere un’attività commerciale.

Si fa troppo poco o basterebbe poco per riportare legalità ed equità in Italia?

 

12 ottobre 2020 

 

Fonti:

I Gattopardi di Raffaele Cantone e Gianluca De Feo ed. Oscar Mondadori.

Censis Impresa e criminalità nel Mezzogiorno Studi e Ricerche Fondazione BNC ed. Gangemi.

Festa del 2 giugno: Repubblica, Democrazia, Costituzione

L’Italia è una Repubblica perché il 2 giugno 1946 il popolo sovrano ha scelto democraticamente con un referendum questa forma dello stato (la proposta alternativa, cioè la Monarchia, fu sconfitta). Questa scelta è diventata irreversibile. Infatti l’art. 139, l’ultimo articolo della Carta Costituzionale, stabilisce che “La forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale”.

La parola Repubblica proviene dal latino “res pubblica”, “cosa pubblica”, cioè di tutti. Quindi, non è soltanto un’antitesi di Monarchia, ma un modo diverso di pensare e di agire, una particolare visione delle relazioni tra le persone e le istituzioni. Repubblica significa non delegare tutta la responsabilità a un capo, ma aver scelto che la cura del bene comune ricada su tutti e su ciascuno. 

Per i Costituenti non si tratta soltanto di un riconoscimento formale, ma di un impegno concreto, che deve manifestarsi nella quotidianità. Questa impostazione “comunitaria” si capisce bene leggendo l’art. 3, comma 2: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

La nostra Repubblica è democratica. La parola “democrazia” è composta dalle parole greche demos (popolo) e cratos (potere): perciò significa “governo del popolo”. Ma come può un popolo governare ed esercitare il proprio potere? Con quali strumenti, metodi, regole, istituzioni? L’aggettivo “democratica” può significare molto, ma anche molto poco.

È il caso di ricordare che Hitler è andato al potere attraverso un’elezione democratica e che circa 2.000 anni fa la folla preferì, in una sorta di primarie, Barabba a Gesù. Ciò che è “democratico” non è detto che sia “giusto”. E soprattutto non è vero il detto che “la maggioranza ha sempre ragione”. 

Anzi, Gustavo Zagrebelsky, presidente emerito della Corte Costituzionale, nel suo saggio “Imparare la democrazia” sostiene che «l’essenza della politica democratica sta di solito non nella maggioranza, ma nelle minoranze che fanno loro il motto “non seguire la maggioranza nel compiere il male” e tengono così fede alla coerenza con sé medesime». 

Dato che esiste sempre il rischio che ogni esercizio del potere si trasformi in un abuso di potere, la Costituzione ha previsto che persino il potere originario, quello della sovranità popolare, si possa esprimere soltanto “nelle forme e nei limiti della Costituzione” (art. 1).

La democrazia ad esempio non può negare sé stessa, magari chiudendo il parlamento o delegittimando il potere giudiziario. La Costituzione preserva le condizioni perché la democrazia possa continuare ad esprimersi, salvaguardando anzitutto le minoranze e gli ultimi.

Bisogna fare attenzione a non confondere la democrazia con il solo suffragio universale, cioè con l’esercizio del voto. Quest’ultimo è solo un momento (per quanto importante) dell’esercizio della sovranità. La democrazia è anzitutto divisione dei poteri e partecipazione attiva dei cittadini. Ridurre tutto alla scheda elettorale o referendaria è una banalizzazione della democrazia. 

Democrazia significa anche rispetto delle Istituzioni della Repubblica, che rappresentano il potere del popolo (il Parlamento, il Presidente della Repubblica, la Magistratura, ecc.). In altre parole, l’Italia è una Repubblica democratica, ma soltanto dentro i limiti costituzionali. 

La Costituzione resta la prima e l’ultima parola, cioè la premessa e la cornice sia della Repubblica che della Democrazia. Perché è il Patto che stabilisce le regole fondamentali della convivenza, che tutti devono rispettare e difendere. Infatti, il primo comma dell’art. 54 della Costituzione stabilisce che “tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservare la Costituzione e le leggi”. 

Rocco Artifoni e Filippo Pizzolato
autori del libro “L’ABC della Costituzione”, Edizioni Gruppo AEPER

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