- Dettagli
-
Creato: Martedì, 13 Ottobre 2020 00:00
-
Scritto da Roberto Fallerini
Esiste ancora lo spazio per l’economia legale in Italia?
Esiste lo spazio per recuperare l’evasione e, quella illegale in particolare?
In un periodo di grande caos, di perdita di punti di riferimento, di ingarbugliamento della vita di ognuno di noi, registriamo un disagio e uno stato confusionale di difficile comprensione. Non solo, si percepisce e si tocca con mano una pericolosa deriva illegale quasi ineluttabile nelle sue forme più o meno aggressive e, tutto ciò ci lascia attoniti attori in una realtà di meccanismi illegali di distorsione della libera concorrenza che mai, mai avremmo pensato di poter vivere nella nostra quotidianità.
Mi riferisco qui al fattore “c”: convivenza, connivenza, convenienza, le 3 parole chiave che declinano l’evoluzione di questo patto criminale che ha falciato e continua a falciare tante vittime in Italia. Uccide il mercato, assassina la possibilità di concorrenza e libera impresa, favorendo l’evasione. Poi su questa tomba si creano nuove regole, alimentando assunzioni pilotate e legalizzando capitali sporchi di sangue che diventano sfarzo, ma spesso anche nuove imprese. Un circuito viziosissimo, che in 20 anni ha avvelenato l’economia meridionale e contagiato quella settentrionale. Fino a creare una realtà bifronte che è radicalmente cambiata: le armi e i soldi, la violenza e gli affari.
Le mafie oggi si presentano sulla scena imprenditoriale e soprattutto come un service: offrono servizi, efficienti, rapidi e poco costosi. Mettono a disposizione capitali cash con tassi spesso inferiori a quelli delle banche: pacchi di banconote pronta cassa. Garantiscono manodopera disciplinata e qualificata con costi ridotti e nessuna rivendicazione sindacale. Tengono lontani ladri e ricattatori con una giustizia inesorabile e dirimono qualunque controversia con i fornitori senza bisogno di finire nel labirinto dei Tribunali civili più lenti d’Europa. Aprono le porte della burocrazia sbloccando rapidamente pratiche comunali e regionali incagliate da tempi biblici: licenze e autorizzazioni spuntano dai cassetti come per magia, vanificando ogni ostacolo. Chi può offrire di più?
E come può l’impresa legale, che non gode di questi privilegi, competere in queste condizioni?
E come è possibile che nessun legislatore sia a conoscenza di tali meccanismi di distorsione della concorrenza e della messa in discussione della tenuta della civile convivenza nel nostro Paese?
Ma l’Italia è ancora un Paese civile?
Un Paese che consente di aprire presso la CCIAA e tenere aperta una Partita Iva senza nessun controllo, senza che ci sia l’obbligo di presentare bilanci o documenti in grado di giustificare un giro di affari di milioni di euro. Un Paese che consente agli stessi titolari di PI di chiuderla dopo 2 anni e aprirne un’altra, anche qui senza nessun controllo, senza aver verificato se sono stati pagati i tributi e le imposte dovute in precedenza, senza nessuna verifica sui requisiti patrimoniali necessari per avviare un’attività che fattura milioni di euro.
Un Paese dove anche le banche aprono conti correnti a soggetti “border line” senza nessun ripensamento e o controllo, soggetti “border line” magari già più volte falliti e con procedimenti penali e civili a loro carico in corso e, tutto questo come se ci trovassimo in un contesto di normalità.
Ma allora si fa troppo poco o si fa niente contro il riciclaggio?
Si fa troppo poco o niente nei confronti di chi evade centinaia di milioni di euro di imposte con fallimenti o chiusure di attività ad arte studiate?
Si fa troppo poco o niente nei confronti dei Comuni che controllano le licenze commerciali, gli appalti, l’edilizia e quindi le nuove case?
Si fa troppo poco o niente nei confronti dei Consorzi Industriali e delle autorizzazioni che questi Enti rilasciano?
Si fa troppo poco o niente nei periodi di commissariamento dei Comuni e, perché il periodo dai 18 a 24 mesi che dovrebbe consentire alla macchina burocratica e amministrativa di depurarsi delle scorie mafiose (nei comuni sciolti per infiltrazioni mafiose), molto spesso questo periodo altro non è che un momento di totale immobilismo?
Si fa troppo poco o niente per recuperare questa enorme evasione?
E il potere legislativo, il Parlamento che è a conoscenza di queste problematiche come interviene o pensa di intervenire, per riportare legalità ed equità contributiva tra i cittadini in una situazione assurda ed inquietante come quella sopra descritta?
Basterebbe per esempio imporre per legge ai Comuni un Regolamento comunale dove, in base al numero di abitanti e al reddito pro-capite, si consente o meno la concessione di autorizzazioni commerciali, per ridurre il fenomeno di questo abnorme numero di autorizzazioni rilasciate dall’Ente, autorizzazioni che spesso nascondono solo corruzione, riciclaggio di denaro sporco, spaccio di sostanze stupefacenti e tutto mascherato da pseudo “attività legali”.
Basterebbe imporre alla CCIAA il controllo dei bilanci e dei pagamenti delle imposte dovute, per cancellare immediatamente un’impresa non in regola e segnalare i suoi amministratori.
Basterebbe impedire la stipula di contratti di locazione commerciale a chi non presenta i bilanci degli ultimi tre anni o le dovute garanzie patrimoniali e civili (certificato carichi pendenti) per poter svolgere un’attività commerciale.
Si fa troppo poco o basterebbe poco per riportare legalità ed equità in Italia?
12 ottobre 2020
Fonti:
I Gattopardi di Raffaele Cantone e Gianluca De Feo ed. Oscar Mondadori.
Censis Impresa e criminalità nel Mezzogiorno Studi e Ricerche Fondazione BNC ed. Gangemi.
- Dettagli
-
Creato: Martedì, 02 Giugno 2020 00:00
-
Scritto da Rocco Artifoni e Filippo Pizzolato
L’Italia è una Repubblica perché il 2 giugno 1946 il popolo sovrano ha scelto democraticamente con un referendum questa forma dello stato (la proposta alternativa, cioè la Monarchia, fu sconfitta). Questa scelta è diventata irreversibile. Infatti l’art. 139, l’ultimo articolo della Carta Costituzionale, stabilisce che “La forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale”.
La parola Repubblica proviene dal latino “res pubblica”, “cosa pubblica”, cioè di tutti. Quindi, non è soltanto un’antitesi di Monarchia, ma un modo diverso di pensare e di agire, una particolare visione delle relazioni tra le persone e le istituzioni. Repubblica significa non delegare tutta la responsabilità a un capo, ma aver scelto che la cura del bene comune ricada su tutti e su ciascuno.
Per i Costituenti non si tratta soltanto di un riconoscimento formale, ma di un impegno concreto, che deve manifestarsi nella quotidianità. Questa impostazione “comunitaria” si capisce bene leggendo l’art. 3, comma 2: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
La nostra Repubblica è democratica. La parola “democrazia” è composta dalle parole greche demos (popolo) e cratos (potere): perciò significa “governo del popolo”. Ma come può un popolo governare ed esercitare il proprio potere? Con quali strumenti, metodi, regole, istituzioni? L’aggettivo “democratica” può significare molto, ma anche molto poco.
È il caso di ricordare che Hitler è andato al potere attraverso un’elezione democratica e che circa 2.000 anni fa la folla preferì, in una sorta di primarie, Barabba a Gesù. Ciò che è “democratico” non è detto che sia “giusto”. E soprattutto non è vero il detto che “la maggioranza ha sempre ragione”.
Anzi, Gustavo Zagrebelsky, presidente emerito della Corte Costituzionale, nel suo saggio “Imparare la democrazia” sostiene che «l’essenza della politica democratica sta di solito non nella maggioranza, ma nelle minoranze che fanno loro il motto “non seguire la maggioranza nel compiere il male” e tengono così fede alla coerenza con sé medesime».
Dato che esiste sempre il rischio che ogni esercizio del potere si trasformi in un abuso di potere, la Costituzione ha previsto che persino il potere originario, quello della sovranità popolare, si possa esprimere soltanto “nelle forme e nei limiti della Costituzione” (art. 1).
La democrazia ad esempio non può negare sé stessa, magari chiudendo il parlamento o delegittimando il potere giudiziario. La Costituzione preserva le condizioni perché la democrazia possa continuare ad esprimersi, salvaguardando anzitutto le minoranze e gli ultimi.
Bisogna fare attenzione a non confondere la democrazia con il solo suffragio universale, cioè con l’esercizio del voto. Quest’ultimo è solo un momento (per quanto importante) dell’esercizio della sovranità. La democrazia è anzitutto divisione dei poteri e partecipazione attiva dei cittadini. Ridurre tutto alla scheda elettorale o referendaria è una banalizzazione della democrazia.
Democrazia significa anche rispetto delle Istituzioni della Repubblica, che rappresentano il potere del popolo (il Parlamento, il Presidente della Repubblica, la Magistratura, ecc.). In altre parole, l’Italia è una Repubblica democratica, ma soltanto dentro i limiti costituzionali.
La Costituzione resta la prima e l’ultima parola, cioè la premessa e la cornice sia della Repubblica che della Democrazia. Perché è il Patto che stabilisce le regole fondamentali della convivenza, che tutti devono rispettare e difendere. Infatti, il primo comma dell’art. 54 della Costituzione stabilisce che “tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservare la Costituzione e le leggi”.
Rocco Artifoni e Filippo Pizzolato
autori del libro “L’ABC della Costituzione”, Edizioni Gruppo AEPER